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Il golpe Borghese. E l'Italia temette i colonnelli

Italiani,
l'auspicata svolta politica, il lungamente atteso colpo di stato ha avuto luogo. La formula politica che per un venticinquennio ci ha governato e ha portato l'Italia sull'orlo dello sfacelo economico e morale ha cessato di esistere. Nelle prossime ore, con successivi bollettini, vi saranno indicati i provvedimenti più importanti ed idonei a fronteggiare gli attuali squilibri della Nazione. Le Forze Armate, le Forze dell'Ordine, gli uomini più competenti e rappresentativi della Nazione sono con noi, mentre, d'altro canto, possiamo assicurarvi che gli avversari più pericolosi, quelli che per intendersi, volevano asservire la patria allo straniero, sono stati resi inoffensivi.
Italiani,
lo stato che creeremo sarà un'Italia senza aggettivi né colori politici. Essa avrà una sola bandiera. Il nostro glorioso tricolore! Soldati di terra, di mare e dell'aria, Forze dell'Ordine, a voi affidiamo la difesa della Patria e il ristabilimento dell'ordine interno. Non saranno promulgate leggi speciali né verranno istituiti tribunali speciali, vi chiediamo solo di far rispettare le leggi vigenti. Da questo momento nessuno potrà impunemente deridervi, offendervi, ferirvi nello spirito e nel corpo, uccidervi. Nel riconsegnare nelle vostre mani il glorioso tricolore, vi invitiamo a gridare il nostro prorompente inno all'amore: Italia, Italia, viva l'Italia
”.

Con queste parole, Junio Valerio Borghese la mattina dell'8 dicembre 1970 avrebbe preso la linea in diretta televisiva RAI, annunciando al Paese la sua presa del potere. Terminava la democrazia ed iniziava una dittatura militare. Junio Valerio Borghese non prese la parola in diretta televisiva Rai quella mattina e non annunciò nessuna presa del potere e la democrazia in Italia proseguì senza intoppi.
La notte fra il 7 e l'8 dicembre 1970, mentre gli italiani dormivano, a Roma si arrivò ad un pelo da un colpo di stato. “Un pelo” poiché il colpo di stato non si tenne anche se migliaia di persone erano in movimento verso la Capitale per occupare i centri nevralgici del potere e sovvertire l'ordine democratico. A poche ore dall'ora X, lo stesso Borghese disse a tutte le persone “impegnate” di fermarsi e tornare indietro, nel vero senso della parola. L'Italia rischiò di trasformarsi come le “cugine” mediterranee Portogallo, Spagna e, soprattutto, Grecia, da tre anni in mano ad una giunta di militari, in regimi dittatoriali. Ma facciamo un passo indietro e vediamo di capire cosa successe quella notte, partendo dalla situazione politico-sociale italiana di allora.


La situazione italiana di allora

Nel 1970 l'Italia era uscita da qualche anno dal “miracolo economico”, l'industrializzazione era diffusa e si stava economicamente bene. A capo dello Stato c'era il socialdemocratico Giuseppe Saragat e all'esecutivo ci furono due governi a guida democristiana con Mariano Rumor ed Emilio Colombo.
Il Paese, dal punto di vista sociale era in crisi: la rivoluzione del Sessantotto era terminata da due anni, ma i suoi effetti ebbero ancora una certa durata; nel 1969 ci fu l'”autunno caldo” con le proteste dei lavoratori metalmeccanici in attesa del rinnovo del loro contratto, con l'adozione, il 20 maggio 1970, dello Statuto dei lavoratori con la legge 300. Da un anno, il Paese stava vivendo quella che passò alla storia come la “strategia della tensione”.
Per “strategia della tensione” si intese una situazione di paura e terrore sentita dalla popolazione che, a partire dalla fine degli anni Sessanta e fino agli inizi degli Ottanta, ha portato l’Italia sul baratro di una guerra civile “politica”, con morti e scontri di piazza. E' stato un periodo caratterizzato dall'esasperazione dei conflitti tra forze politiche extraparlamentari, forze dell'ordine e forze istituzionali andando a creare nel Paese un clima di paura ed incertezza.
Cosa spinse verso questa situazione? Innanzitutto il Paese visse tra il 1958 e il 1963 il boom economico, rapido nei progressi ottenuti e che vide iniziare la migrazione lavorativa verso le zone più industrializzate del Paese non andando più all’estero. Gli italiani erano più ricchi del periodo post bellico, compravano elettrodomestici e servizi, si spostavano in macchina ed andavano in vacanza. Tutto questo benessere si scontrava con la vera realtà del “Mondo Paese”: nonostante tutte queste novità, ci fu una forte empasse politica ed istituzionale che portò per la prima volta (in maniera intensa) la gente in piazza a manifestare e protestare vivamente. Le manifestazioni c’erano anche prima, ma non di questo tipo: a partire dal 1966, sulla scia delle proteste nelle Università americane contro la guerra in Viet Nam (la prima fu quella di Berkeley), la società capitalista sospinse gli studenti a manifestare, occupando per la prima volta gli atenei nazionali (la prima fu la facoltà di Sociologia a Trento) che protestavano contro il caro-tasse accomunati da un sentimento anti-casta ante litteram. Sono proprio gli studenti a scaldare gli animi e la piazza: è il vento del Sessantotto che soffiava sull’Europa: in Francia (il famoso “maggio francese”), in Germania occidentale, Cecoslovacchia (la “Primavera di Praga”) ed infine nel nostro Paese.
L’anno fu caratterizzato dalla rivolta contro un sistema mondiale obsoleto e da cambiare, perché il Sessantotto vide la rinascita di un movimento anticonformista e teso alla socializzazione, soprattutto nelle università. Nacquero i primi movimenti femministi e di difesa dei diritti dei più deboli. Agli studenti si affiancarono i lavoratori (e viceversa) nell’”autunno caldo” 1969, cercando un riscatto sociale, rifiutando il sistema aziendale e il modello capitalista che li sfruttava a scapito del fattore umano. “Partecipazione”, “uguaglianza”, “sciopero”, “riscatto sociale” e “pacifismo” sono state le parole chiave del Sessantotto. Si ascoltavano Bob Dylan e Joan Baez, la musica di protesta e le teorie politiche di Herbert Marcuse.
A partire però dal 1969 la situazione si esasperò: le proteste si fecero più esagitate, la violenza dilagò ed iniziarono gli scontri di piazza tra manifestanti, polizia, e tra i manifestanti stessi di orientamento politico diverso. Spuntano le prime armi, le pistole P38, esplosero le prime bombe.
La prima rivolta studentesca avvenne a Roma il 1° marzo 1968, quando gli studenti romani staccatisi dal gruppo riunitosi a piazza di Spagna (luogo del raduno della manifestazione) cercarono di occupare la sede della facoltà di Architettura di Valle Giulia, nei pressi dei Parioli e Villa Borghese, scontrandosi con le forze dell’ordine: alla fine degli scontri si contarono 478 feriti tra gli studenti, 148 tra le forze dell’ordine, 228 studenti fermati e 4 arrestati. Questi scontri videro, forse per la prima ed unica volta, insieme studenti di destra, che fecero scoppiare gli scontri, e di sinistra contro la polizia. Gli scontri sono passati alla cronaca come la “battaglia di Valle Giulia”. Quelli successivi faranno espellere i neofascisti dal Movimento studentesco poiché il loro partito di riferimento, il Movimento Sociale Italiano, li aiutò nelle occupazioni e non voleva loro intromissioni nelle manifestazioni.
La “strategia della tensione” non è stata un unicum, ma un insieme di fatti, situazioni ed eventi. Si scoprirà che sarà parte dello Stato stesso a istigare alcuni soggetti a fare attentati e a seminare il pericolo, salvo poi proteggerli e alla fine scaricarli. Sono l’intelligence deviata, le lobby, i gruppi di dominio economici, servitori dello Stato poco limpidi. Per difendere lo Stato dal nemico, nascono i primi gruppi extraparlamentari terroristici: a sinistra il gruppo “XXII ottobre”, a destra “Centro Studi Ordine Nuovo”. Ne nasceranno almeno un centinaio fra piccoli e grandi fino al 1980.
“Strategia della tensione” fa rima con “bombe”. Il suo inizio coincise con la strage di piazza Fontana, a Milano, il 12 dicembre 1969, quando alle ore 16:37, all’interno della locale sede della Banca Nazionale del Lavoro, un ordigno esplose causando 16 morti e 88 feriti. Quel giorno scoppiando altri ordigni a Milano (vicino alla Scala, presso la locale Banca Commerciale) e a Roma (ancora una sede della BNL colpita e l’Altare della Patria). Da quel momento in Italia crebbe il timore concreto che l’ordine e la sicurezza venissero meno e la gente iniziava ad avere paura. Del resto i fatti in Grecia con i Colonnelli di due anni prima e la forza delle dittature fasciste ancora al potere in Spagna e Portogallo non facevano fare sogni tranquilli agli italiani. Non a caso, questa paura si trasformò in errori giudiziari. Pietro Valpreda e Giuseppe Pinelli furono i casi più eclatanti: i due anarchici, politicamente deboli, furono subito incolpati (a giorni di distanza) di aver collocato la bomba nell’istituto bancario milanese. Pinelli, di professione ferroviere, morirà in maniera rocambolesca il 15 dicembre 1969 precipitando dal quarto piano della Questura di Milano. Responsabile fu indicato l’allora Commissario di Polizia Luigi Calabresi, accusato di averlo spinto al suicidio insieme ai suoi uomini, mentre all’inizio si pensava si fosse suicidato perché colpevole. Calabresi, isolato istituzionalmente, verrà ucciso da un commando di “Lotta continua”, un movimento extraparlamentare di sinistra, il 17 maggio 1972.
Gli italiani così conobbero la parola “terrorismo” che li accompagnò per oltre un decennio. Il terrorismo aveva due matrici: sinistra-marxista e neofascista che sebbene siano nate in epoche vicine, sono lontane come ideologia ed azioni (sequestri e singoli attentati contro stragi e violenza) e molto vicine per quanto concerne il loro scopo: sovvertire il sistema. Cercando di farlo, non ci riuscirono.
Tra il luglio 1970 ed il febbraio 1971, Reggio Calabria fu teatro di un'aspra rivolta sedata con l'arrivo in città persino dei carri armati dell'esercito per sedare le rivolte sorte dopo lo spostamento del capoluogo regionale dalla città dello Stretto a Catanzaro dopo le prime elezioni regionali del 7 giugno. In quei sette mesi, tra scioperi, proteste e fatti misteriosi, fondamentale fu la figura del sindacalista della CISNAL Francesco “Ciccio” Franco, missino della prima ora e leader del Comitato d'Azione. I fatti di Reggio contarono 2 morti, 230 feriti e oltre trecento arresti. Tra i fatti cruenti dei moti di Reggio, vanno ricordati la strage di Gioia Tauro del 22 luglio 1970, con l'attentato dinamitardo al “Treno del Sole” che costò la vita a sei persone e causò 66 feriti. Altro fatto grave fu la morte dei cinque anarchici reggini in un incidente stradale dalle dinamiche ancora oggi poco chiare il 26 settembre 1970, con questi (di età compresa tra i 18 e i 26 anni) in possesso di materiale che metteva in risalto i legami tra ambienti neofascisti durante i moti e legami “neri” con frange della 'ndrangheta.
Il 1° dicembre 1970 venne approvata la legge 898 ("Fortuna-Baslini") che introdusse il divorzio, poi confermata con il referendum abrogativo del 12 maggio 1974, ma l'evento più importante di quell'anno (senza nulla togliere ai precedenti) furono i fatti della notte dell'Immacolata.
Per capire cosa successe la notte dell'Immacolata, bisogna scrivere un nome pesante nella storia militare italiana: Junio Valerio Borghese.


Junio Borghese, ìl “principe nero” con la paura comunista

Prima di parlare del tentato golpe dell'Immacolata, bisogna focalizzarsi su un eroe di guerra (per i repubblichini) della Seconda guerra mondiale, Junio Valerio Borghese. Erede della nobile famiglia romana dei Borghese (era un Borghese papa Paolo V), fu lui l'ideatore dei fatti della notte fra il 7 e l'8 dicembre 1970. Militare di carriera, era soprannominato il “principe nero” per il suo fervido fascismo, soprattutto dopo la caduta di Mussolini.
Borghese a sedici anni entrò in marina, diventando un esperto di sommergibili e, promozione dopo promozione, passò da guardiamarina a sottotenente di vascello in pochi mesi. Nel 1933 divenne tenente di vascello e poté guidare le prime missioni: Etiopia e Spagna furono i suoi primi banchi di prova.
Con l'inizio della Seconda guerra mondiale assunse il comando del sommergibile “Sciré”, opportunamente attrezzato per il trasporto di SLC (Siluri a Lenta Corsa, più noti con il nome di Maiale). La notte del 18 dicembre 1941 dallo Sciré si staccarono i mezzi d'assalto, che causarono l'affondamento delle corazzate inglesi “Valiant” e “Queen Elizabeth” nel porto di Alessandria d'Egitto, uno dei maggiori successi italiani nel conflitto e che valse la principe Borghese la Medaglia d'Oro al Valor Militare.
La svolta avvenne con la caduta del regime fascista e la sua adesione alla RSI, mantenendo il comando della Decima Mas presa il maggio 1943. La flottiglia perse molti elementi umani dopo la caduta del regime, ma combatté fino alla fine del conflitto in difesa della RSI e dell'alleato tedesco.
Celebre è stato rapporto tra alti in grado ed il resto della flottiglia: uguaglianza nell'abbigliamento, pena di morte per chi si tirava indietro di fronte al nemico o per chi disonorava la divisa.
Nel maggio 1944 la “Decima” si trasformò in “Divisione Fanteria di marina Decima”, ma non fu mai un'unità organica a causa della Germania che non voleva che l'Italia potesse riavere grandi unità militari. Operò anche in terra, iniziando una serie di rastrellamenti partigiani e di antifascisti.
La Decima Mas fu sciolta il 26 aprile 1945, Borghese liberò tutti i militari e fu preso in consegna dalla polizia che lo arrestò. Uscì dal carcere sei mesi dopo, ma fu arrestato un'altra volta per l'avvio del processo.
Junio Valerio Borghese fu prosciolto per crimini di guerra, ma accusato di collaborazionismo con i tedeschi e condannato a due ergastoli per aver ordinato ai suoi di compiere attività di rastrellamento, deportazione ed uccisione degli arrestati: il crimine più grave commesso dagli uomini di Borghese fu l'eccidio di Valmozzola del 12 marzo 1944, quando morirono due elementi della Decima Mas dopo un assalto al treno. Per rappresaglia, furono uccisi otto partigiani.
Nel 1949, i due ergastoli si tramutarono in una condanna a 12 anni anche grazie all'amnistia di Togliatti, poi ridotti a tre visto ciò che Borghese fece per la difesa dell'Italia.
Tornato in libertà effettiva, Borghese si avvicinò alla politica e sin dal 1951 aderì al MSI (Movimento Sociale Italiano), il partito nato il 26 dicembre 1946 e che riuniva in sé i reduci della Repubblica sociale. Nel 1953 ne divenne presidente onorario, per poi uscirvi quindici anni dopo perché il partito non lo rappresentava più nelle idee e nelle azioni. Si era, come dire, imborghesito e aveva abbandonato l'ala rivoluzionaria tanto cara al “principe nero”. E quindi Borghese il 13 settembre 1968 fondò un suo partito politico di matrice neofascista e di valenza extraparlamentare: il Fronte nazionale. Vi aderirono molti ex repubblichini e chi, come Borghese, non si trovava più nel partito della Fiamma. Il nuovo partito era nato con la volontà di Borghese di trasformare il Paese in un nuovo soggetto di valenza autoritaria, forte e credibile all'estero e militarizzato all'interno. Ed essendo autoritario, i partiti politici non erano previsti. Il Fronte ebbe simpatie di altre formazioni di spicco dell'estrema destra nazionale di allora, come Avanguardia Nazionale e Movimento Politico Ordine Nuovo, ma volle anche fare breccia nel cuore (politico) di militari ed industriali. Ovviamente il Servizio Informativo della Difesa (SID) si mise a controllare il partito di Borghese, ritenendolo l'unico veramente capace di fare i fatti e non solo le parole.
Borghese era visceralmente anticomunista e il suo essere anti-sovietico lo portò a legarsi con l'Office of Strategic Services (OSS), i servizi segretari americani antecedenti la CIA, che lo protesse durante le fasi finali della guerra e durante le fasi del processo. Negli Stati Uniti d'America la situazione politica italiana era sempre stata di interesse, poiché nel nostro Paese c'era il partito comunista più forte dell'Europa occidentale e dalle parti di Washington non si voleva assolutamente che l'Italia avesse , un giorno, esponenti del PCI al governo.


I fatti della notte dell'Immacolata

Gli “anni di piombo”, come detto, hanno causato paura e tensioni. Una delle paure degli italiani, non proprio estreme, è stata quella di alzarsi la mattina e trovare i carri armati sotto casa, un ritorno alla dittatura. Nel periodo 1969-1974 la paura di un golpe militare era quasi all’ordine del giorno.
La storia insegna che nulla è casuale, tutto ha un inizio ed una motivazione. Le bombe e l’insicurezza non nacquero per caso, ebbero una profonda ragion d’essere. Anche se non è mai stato confermato, nel maggio 1965 in un hotel di Roma, il “Parco dei Principi”, l’Istituto militare “Alberto Pollio” organizzò uno strano convegno che ebbe come core la “guerra rivoluzionaria”. Per tre giorni, un simposio di militari, esperti di settore e giornalisti si incontrò e parlò di comunismo e delle lotte per contrastarlo. Al convegno si parlò di una nuova guerra mondiale “nascosta”, che vedeva contrapposti il capitalismo e il comunismo, dove l’ultimo stava attuando una politica di sabotaggio psicologico e segreto, tramando e facendo pressione psicologica sulla politica internazionale. L’Italia era al centro di questa lotta e la “distensione” propugnata da Nikita Kruscev un decennio prima avrebbe portato ad un rilassamento della situazione e i comunisti avrebbero potuto conquistare il potere, attraverso la persuasione e la forza. Tutto ciò non doveva accadere, ma bisognava essere pronti in caso di allarme, e per fare questo era necessaria una “controguerra”, segreta e psicologica, come stava facendo proprio il nemico. Dagli atti di quel convegno appaiono in maniera non esplicita i piani di quella che sarà la successiva “strategia della tensione”. Al convegno parteciparono anche esponenti del neofascismo di quegli anni che saranno, chi più o chi meno, coinvolti negli atti di terrorismo: Pino Rauti, Guido Giannettini, Stefano delle Chiaie, Mario Merlino, Pio Filippani Ronconi.
Ma torniamo ai fatti della notte tra lunedì e martedì 7 e 8 dicembre 1970. Come si fa un colpo di Stato? Innanzitutto lo si fa senza sbandieramenti, nel silenzio e nell'ombra. Junio Valerio Borghese pensò a come muoversi, anche al momento dell'azione: 7 dicembre, come l'attacco degli aerei giapponesi alla base americana di Peal Harbour che spinse gli USA, nel 1941, ad entrare in guerra al fianco degli Alleati nella Seconda guerra mondiale. Chiamandosi l'attacco kamikaze “operazione Tora Tora”, le gesta degli accoliti di Borghese furono chiamate con il nome in codice dell'operazione militare nipponica contro la base hawaiana.
Un colpo di stato non si organizza in quattro e quattr'otto, ma fu pensato fin dal 1968 e prevedeva l'occupazione armata di diversi luoghi del potere istituzionale italiano. Il centro nevralgico fu Roma, ma anche a Milano operarono dei fedelissimi di Borghese, tra cui il colonnello Amos Spiazzi.
Attuandosi un regime autoritario, gli oppositori sarebbero stati fatti trasferire (erano pronte, per l'occasione, delle navi a Civitavecchia per portare via oppositori e sindacalisti) e ci sarebbe stata una caccia all'oppositore, il Capo dello Stato Saragat sarebbe stato rapito e il capo della polizia, Angelo Vicari, ucciso. Inoltre era necessario creare del caos in città: militanti di Avanguardia Nazionale avrebbero dovuto far saltare in aria ponti e strade ed altri esponenti del movimento di delle Chiaie avrebbero dovuto occupare il Viminale.
Come si sarebbero disposti gli uomini di Borghese? Al Viminale furono prese le armi e le munizioni, alla Difesa c'erano il colonnello Giuseppe Lo Vecchio e i suoi uomini, mentre i forestali si mossero, guidati dal maggiore Luciano Berti, in direzione della RAI. I forestali impiegati erano quasi duecento, ed erano partiti in un autocolonna di quattordici veicoli (comprese motociclette) dalla città reatina di Cittaducale in direzione via Teulada.
I punti nevralgici del piano erano presso un cantiere del costruttore edile Remo Orlandini nel quartiere Montesacro, zona nord est della città, la palestra di via Eleniana sede dell'AssoParacadutisti dell'ex tenente dei paracadutisti Sandro Saccucci, la sede romana di Avanguardia Nazionale di via Arco della Ciambella (vicino al Pantheon). Il comando “politico” delle operazioni era presso l'ufficio di Mario Rosa, ex maggiore dell'esercito e segretario organizzativo del Fronte nazionale, in via Sant'Angela Merici, nei pressi di via Nomentana. A capo del settore “politico” c'erano Borghese, Rosa, il generale dell'Aeronautica in pensione Giuseppe Casero, il colonnello dell’Aeronautica Giuseppe Lo Vecchio ed il capitano dei Carabinieri Salvatore Pecorella.
A capo della parte “operativa” c'era Orlandini ed un affarista legato al Partito repubblicano americano, Hugh Fenwich. Le colonne che convergono verso la capitale partirono da cinque punti diversi: 200 uomini presso la palestra di Saccucci, altri dalla sede di Ordine Nuovo, i giovani di Fronte delta presso la città universitaria, la sede di Europa civiltà, la colonna di 14 autoveicoli partiti da Cittaducale con 187 fra ufficiali e cadetti verso i Colli Albani ma che sui Colli non ci arriveranno mai perché ad un certo punto vireranno verso Roma e verso la RAI. A capo di loro il maggiore Luciano Berti, ex repubblichino e condannato per collaborazionismo.
Alle ore 20.30 si diede il via alle operazioni e alle 23 circa molti luoghi prestabiliti erano stati occupati, al largo di Civitavecchia si erano mosse delle navi provenienti dalla Sardegna con l'intento di caricare oppositori e sindacalisti (l'elenco era da tempo stilato) e condurli tra l'isola di Ponza e la Sardegna, ma alle ore 01:40 ci fu il contrordine.
Quando tutto era pronto per il colpo di Stato, non se ne fece niente. Motivo? Borghese avvisò tutti gli interessati di tornare indietro e di non occupare i luoghi prestabiliti. Lo stesso “principe nero” aveva ricevuto una telefonata da parte di una persona ancora oggi ignota che disse che il golpe non era più da attuarsi.
I congiurati si ritrovarono poi il 17 gennaio 1971 presso la sede del Fronte nazionale e volarono gli stracci: Borghese fu accusato di non aver portato a termine le operazioni e venne esautorato.
Gli italiani il giorno dopo non si accorsero di nulla. Lo scoprirono tramite un articolo pubblicato il 17 marzo 1971 (poco più di tre mesi dopo) sul quotidiano romano “Paese sera” e fu uno shock nazionale.


“Paese sera” sganciò la bomba...giornalistica. Trame nere sopra e sotto la Nazione

Gli italiani, come detto, non seppero nulla del tentativo del golpe fino a quando il quotidiano romano vicino al PCI, “Paese sera”, mercoledì 17 marzo 1971 uscì con un titolo clamoroso: “Scoperto un complotto di estrema destra. Un piano eversivo contro la repubblica”. Il Paese seppe tramite il quotidiano romano che qualcuno aveva tramato contro l'ordine nazionale. Se, in proporzione, il “piano Solo” (1964) fu un avvertimento, il “golpe Borghese” poteva essere lo strumento per far tornare l'Italia nell'incubo della dittatura e rendere il Paese come la Grecia, dal 21 aprile 1967 in mano ad un regime dittatoriale con a capo i colonnelli. Ma chi c'era dietro questo piano? Cosa volevano fare gli eversivi? Che fine avrebbe fatto l'Italia?
A prendersi cura del caso fu il Pm romano Claudio Vitalone che promosse i primi arresti: il 18 marzo furono tratti in arresto Mario Rosa, Sandro Saccucci e Remo Orlandini. Il 19 marzo fu spiccato un mandato di arresto nei confronti di Borghese, ma il “principe nero” fu irreperibile poiché scappato in Spagna. L'ex comandante della Decima Mas non tornò più in Italia poiché morì a Cadice il 26 agosto 1974 in circostanze mai del tutto chiare. Il “principe nero” durante un'intervista per la tv svizzera quando era latitante, non rinnegò mai i fatti del suo tentativo di colpo di Stato, sostenendo che il suo era un piano contro il caos, il disordine e l'anti-nazionalismo che, a suo avviso, era dilagante nel nostro Paese, soprattutto contro il comunismo.
Le prime indagini alzarono il coperchio su una situazione ingarbugliata: coinvolgimento dei servizi segreti, paura del comunismo, un golpe tentato solo con l'idea di rafforzare la sicurezza nel Paese con leggi speciali. La domanda cui ancora oggi nessuno sa, e saprà mai, rispondere è: chi ha chiamato Borghese intimandogli di far annullare il colpo di Stato?
Le indagini di Vitalone portarono ad una certezza: tentato o meno, il piano Borghese se fosse stato portato a termine avrebbe potuto trasformare l'Italia in un regime dittatoriale. Senza se e senza ma. Borghese sapeva quello che faceva o era manovrato da qualcuno? Chi c'era dietro veramente?
Le indagini si chiusero in breve tempo ed il processo poteva iniziare. Ma la paura nel Paese crebbe ancora di più: la bomba di piazza della Loggia a Brescia (8 morti, 101 feriti), il rapimento del magistrato Mario Sossi da parte delle Brigate Rosse, l'inizio del processo per la strage di piazza Fontana, i fatti di Pian del Rascino, il “golpe bianco” di Sogno, la strage del treno “Italicus” (12 morti, 44 feriti), l'ennesima crisi di governo. La “strategia della tensione” stava toccando l'apice della sua paura. Il 25 febbraio 1972 Orlandi, Saccucci e gli altri imputati furono scarcerati, il 1 dicembre 1973 anche la posizione di Borghese fu archiviata e poté tornare in Italia anche se non volle mai farlo. Tutta l'accusa crollò: la notte dell'Immacolata del 1970 non successe nulla.
O forse sì?


Il dossier del SID, le registrazioni, la riapertura e la nuova chiusura del processo

Il 15 settembre 1974 si aprì una nuova pagina del “golpe dell'Immacolata”: l'allora Ministro della Difesa, Giulio Andreotti, consegnò alla procura di Roma un rapporto del SID (Sistema Informativo Difesa) in tre parti pervenutogli da Gianadelio Maletti che rivelava notizie scottanti sul golpe, grazie alle registrazioni effettuate dal capitano Antonio Labruna che, sotto mentite spoglie, riuscì ad “intervistare” e registrare le dichiarazioni di alcuni coinvolti nel tentativo di golpe. In particolare, il capitano dei Carabinieri Labruna riuscì ad incontrarsi con Orlandini in Svizzera, dov'era riparato dopo la scarcerazione presentandosi come uno vicino a loro ed interessato a conoscere le dinamiche del gruppo eversivo e voleva sapere più cose possibili sul tentato golpe. Ad aiutare Labruna ci pensò il colonnello Romagnoli, superiore dello stesso membro del SID. Labruna incontrò anche gli extraparlamentari vicini al Fronte Nazionale, Nicoli e degli Innocenti. Gli incontri e le registrazioni furono fatte tra il 16 gennaio 1973 e il 17 giugno 1974. Remo Orlandini disse che Miceli aveva incontrato Borghese e parlarono del suo piano eversivo. Quindi Miceli sapeva e non disse niente: Andreotti lo scaricò e lo sostituì con l'ammiraglio Casardi, oltre ad una ventina di militari e ammiraglio facenti parte del SID senza motivazioni specifiche.
Orlandini gli disse tutto del golpe, in particolare il trafugamento delle armi dal Viminale: le armi furono poi tutte sistemate al loro posto, salvo una pistola che fu poi ricollocata in un momento successivo.
Il 13 giugno 1974, intanto, Amos Spiazzi venne arrestato: il generale si mosse da Verona, la sera del 7 dicembre, verso Sesto San Giovanni.
Il dossier fece riaprire le indagini il 10 ottobre 1974, quando vennero spiccati ventitré ordini di arresto, coinvolgendo ancora le persone precedenti più Miceli e Adriano Monti, un medico reatino molto vicino al “principe nero”. Quest'ultimo negò sempre le accuse, fu scarcerato l'anno successivo per motivi di salute ma fuggì all'estero per dieci anni.
Il 5 novembre 1975 venivano rinviati a giudizio 78 persone. Il processo iniziò il 30 maggio 1977 presso l'aula bunker del Foro Italico e vide coinvolte sessantotto persone.
Gli imputati dovettero rispondere dei crimini di insurrezione armata, cospirazione politica mediante associazione, tentativo di sequestro di persona, furto, detenzione e porto abusivo di armi ed esplosivi.
Dalle indagini si scoprì che tra il 12 aprile e l'11 maggio 1969 Borghese si incontrò con alcuni imprenditori di Genova per costituire un “gruppo di salute pubblica” per salvare il Paese dall'avanzata del comunismo e che lo stesso Miceli in un'informativa scrisse che il SID non seppe nulla del golpe e che non vi partecipò.
Venne fuori anche il vero ruolo di Adriano Monti, una sorta di “ambasciatore” di Borghese in alcuni ambienti politici internazionali, tanto che a Madrid incontrò Otto Skorzeny, ex militare delle SS noto per aver tirato fuori dal carcere di Campo Imperatore Mussolini e membro dell'intelligence tedesca legata alla “Rete Gehlen”. Skorzeny era in contatto direttamente con gli Stati Uniti d'America e disse a Monti che dagli Usa c'era l'ok per il golpe, ma a capo del nuovo governo che si sarebbe costituito sarebbe dovuto andare Andreotti.
Monti era in contatto con l'ambasciata americana in Italia tramite l'affarista Hugh Fenwich, vicino al Partito repubblicano. Fenwich era legato al braccio destro dell'allora Segretario di Stato americano (l'equivalente del nostro Ministro degli Esteri) Henry Kissinger, Herbert Klein, il quale approvò il piano Borghese ma solo se gli Usa non fossero “scesi in campo” direttamente, salvo per la presenza solo delle forze di pubblica sicurezza italiane, l'istituzione dopo il golpe di un governo presidenziale con un politico che piacesse agli americani, esclusione del PCI dal panorama politico italiano. Agli Stati Uniti la riuscita del golpe era tutta in chiave anticomunista, vista la situazione politica e sociale esistente allora nel nostro Paese. Borghese, dalle indagini, si scoprì che aveva stretti rapporti con i servizi segreti americani e inglesi, che nella parte finale della guerra lo aiutarono in maniera importante. Quello più stretto fu con quelli americani, anche se per loro l'idea di un golpe in Italia non era una cosa possibile e non approvarono l'idea del “principe nero”. Ma Borghese voleva portare al termine la sua idea e quindi adoperò un canale “parallelo” usando uno dei suoi sodali, il medico reatino Adriano Monti, vicino ad Avanguardia Nazionale, e parlò anche con Fenwich.
L'allora ambasciatore americano in Italia, Graham Martin, inviò al Dipartimento di Stato un telegramma urgente da far pervenire al presidente Nixon in cui lo si avvertiva che in Italia si stava programmando un colpo di Stato per sovvertire l'ordine politico italiano. La paura del diplomatico americano fu che il suo fallimento avrebbe portato l'Italia a virare verso sinistra, ma nonostante la forza di Fronte nazionale e il legame con le altre forze eversive del Paese, il “principe nero” non era considerato un problema visto che aveva poco consenso tra le forze armate italiane. La sentenza di primo grado, formulata il 14 luglio 1978, assolse trenta dei settantotto imputati e per i restanti quarantotto caddero le accuse più gravi. Dieci anni a Remo Orlandini, otto a Rosa, De Rosa e al colonnello Lo Vecchio, cinque anni a delle Chiaie e al colonnello Spiazzi, quattro a Sandro Saccucci. Furono assolti perché “il fatto non sussiste” Vito Miceli, Giuseppe Casero e Adriano Monti. Assolto anche Berti: il fatto che i forestali erano diretti da Cittaducale verso via Teulada era stata una coincidenza.
Si scoprì che diedero il loro avallo anche la mafia e la 'ndrangheta e la loggia P2. Miceli diventerò poi deputato per il MSI per tre legislature consecutive (1976-1987).
Il processo si concluse il 29 novembre 1984 quando la Corte d'Assise assolse con formula piena i 46 imputati di cospirazione parlando del tentativo di golpe come un “conciliabolo” di vecchi nostalgici. La Cassazione confermò tutto il 24 marzo 1986.
Il 7 novembre 1991, Guido Salvini, magistrato della Procura di Milano, durante una serie di indagini sulle bombe della “strategia della tensione” convocò Antonio Labruna e lo stesso ex capitano dei carabinieri (dal 1967 al 1976 in forza al SID) gli fece una dichiarazione.
gli consegnò altre otto registrazioni con i “frontisti” Nicoli e degli Innocenti, oltre ad una relazione approfondita su Avanguardia Nazionale e una relazione di Guido Giannettini, ex dirigente del SID, sul tentativo fallito di Borghese. A parte le otto registrazioni, non si ebbero novità rilevanti se non il fatto che quella notte l'Italia, se tutto fosse andato per il (secondo gli eversivi) verso giusto, l'Italia avrebbe cambiato impianto istituzionale. Quindi “colpe da operetta” per nulla.
Le nuove registrazioni erano contenevano nomi più compromettenti, come quello di Giovanni Torrisi e di Licio Gelli, rispettivamente ammiraglio (e successivamente capo di stato maggiore della Marina Militare e di capo di stato maggiore della Difesa) e leader della loggia massonica P2.
Quattro anni dopo, lo stesso magistrato inviò alla Commissione parlamentare stragi una documentazione che spiegava il complesso piano eversivo in cui comparvero membri della P2 e della criminalità organizzata: Gelli avrebbe dovuto rapire Saragat, la mafia siciliana avrebbe dovuto controllare la Sicilia ed uccidere il capo della polizia Angelo Vicari, in cambio di un'amnistia per una serie di processi. Questo fu detto da Buscetta e poi confermato da Calderone e Liggio durante il maxi-processo alla Mafia del 1986.
Ma Orlandini nelle interviste con Labruna era stato attendibile? Certo, in quanto si scoprì che dall'armeria del Viminale una pistola mitragliatrice era stata davvero sostituita ed era diversa dall'originale.
Maletti e Labruna sono stati quindi indagati per aver manipolato le registrazioni, ma il tutto cadde in prescrizione nel 1995.


Farsa o cosa?

Gli “anni di piombo”, come detto, hanno causato paura e tensioni. Una delle paure degli italiani, non proprio estreme, è stata quella di alzarsi la mattina e trovare i carri armati sotto casa. Il “piano Borghese” è stato in piena “strategia della tensione”, il periodo più cupo del secondo dopoguerra italiano, che vide impegnati estremisti di destra (che volevano compiere un colpo di Stato per trasformare il Paese in un regime vicino agli spagnoli, portoghesi, greci e ai regimi dittatoriali sudamericani, Cile e Argentina in primis. Anche servizi segreti e frange dello Stato “paralleli”, oltre alla massoneria e alla criminalità organizzata) contro lo Stato e le forze di sinistra, erano impiegati in un sorta di “giustizia proletaria” affinché venisse scalfito il tandem Stato-capitale per arrivare ad una rivoluzione operaia con la presa del potere. Un tratto comune per le forze extraparlamentari: la lotta allo Stato, anche se le forze neofasciste lo combatteranno a partire dal 1978 in avanti.
Il nostro Paese era il più problematico dal punto di vista sociale e politico di tutta l'Europa occidentale, con il più forte partito comunista, con la svolta di aprire al centrosinistra (solo a PSI e PSDI) e la paura che il PCI andasse, nel breve periodo, al governo. Per non parlare della situazione internazionale: la “primavera di Praga”, il “maggio francese”, l'intervento americano in Viet Nam ed il caso “Watergate”, i colpi di Stato in Libia, Somalia, Bolivia e Cile, la nascita del gruppo terrorista tedesco RAF, l'acuirsi della crisi nord irlandese, la guerra del Kippur (Quarta guerra arabo-israeliana).
Tornando al nostro Paese, se le stragi di piazza Fontana e della Questura di Milano videro accusate le forze anarchiche o di matrice di sinistra, con la strage di Brescia e dell'”Italicus” il terrorismo nero ci mise la faccia, essendo lui il mero esecutore delle due stragi per puri fini terroristici. Una sorta di “salto di qualità” da parte delle forze neofasciste.
Il “piano Borghese” è ancora, a distanza di quasi cinquant'anni, uno dei (tanti) misteri dell'Italia degli anni di piombo e della “strategia della tensione”. Fa sorridere il fatto che una telefonata abbia posto fine ad un progetto di colpo di Stato pensato da almeno due anni e che era stato preparato per filo e per segno. Ma la cosa che lascia ancora sgomenti è che, a distanza, di quasi cinquant'anni dai fatti, non si sa ancora con certezza chi sia stato a telefonare al principe Borghese.
Oggigiorno quando si pensa all'azione di Borghese si pensa subito ad una farsa, ad un “golpe da operetta” come detto da molti, poiché a volerlo furono dei nostalgici di un periodo storico che si pensava morto e sepolto, ma che in Italia aveva ancora molti accoliti (negli anni Settanta si contarono ben undici sigle neofasciste, di cui una solo parlamentare).
Eppure nell'analizzare ciò che c'era dietro l'idea di Borghese, si capisce che fu una cosa seria ed impegnativa, nonostante si sia fermato a pochi istanti dall'attuazione per colpa di una telefonata misteriosa: militari che tramavano contro lo Stato, imprenditori ed affaristi senza scrupolo, neofascisti, Otto Skorzeny “garante”, la CIA e gli Stati Uniti d'America che erano a conoscenza di tutto. Insomma, “golpe da operetta” fino ad un certo punto.
Borghese ne uscì male e il suo prestigio fu intaccato, perché non appena fallì scappò all'estero presso una Stato a lui vicino (la Spagna di Franco) lasciando i suoi collaboratori in Italia ad affrontare la situazione.
La storia, si sa, non lavora con i “se” e con i “ma”, se non trattando fatti certi. Ma chissà cosa sarebbe successo se il gruppo di Borghese avesse portato a termine il colpo di Stato e se Borghese fosse diventato poi capo dello stato dittatoriale o sarebbe stato esautorato da qualcuno tempo dopo. Domande senza una risposta, ma che potrebbero entrare dalla porta principale dell'ucronia.
Sappiamo che l'Italia di quei tempi era più problematica di quella attuale, tra una crisi sociale importante, attentati e omicidi illustri, una situazione politica che vedeva il MSI ottenere tra il 1968 ed il 1972 un incremento dei voti del 4.2%, la DC che temeva di essere superata da destra dal partito di Almirante ma che tra il 1968 ed il 1983 nonostante perse ben 6 punti percentuali rimase il partito di maggioranza relativa, nonostante il PCI ne guadagnò cinque nello stesso periodo, un Partito comunista forte e consapevole di poter arrivare al governo se la situazione nazionale non sarebbe migliorata, tanto che nello stesso periodo in questione prese il 5% in più dei voti.
Gli anni di piombo ai tempi dell'”operazione Tora Tora” erano solo all'inizio e terminarono con gli arresti dei membri dei NAR dopo i fatti della stazione di Bologna (2 agosto 1980) tra il 1981 ed il 1982. Nel mezzo: stragi, attentati dinamitardi, bombe sui treni, omicidi e una situazione davvero traballante e pericolosa. Nonostante siano passati ormai diversi anni da quel periodo buio della nostra Repubblica, il “golpe Borghese” (o, a dir si voglia, il tentato golpe Borghese) è a tutti gli effetti parte integrante della nostra storia, nonché una delle pietre miliari dei misteri italiani del secondo dopoguerra.
E ancora oggi irrisolti. Con cattiva pace delle vittime, dei loro famigliari e della Repubblica italiana.

Nell'immagine, una delle ultime foto del principe Junio Valerio Borghese.


Bibliografia
Adalberto Baldoni, Anni di piombo. Sinistra e destra: estremismi, lotta armata e menzogne di Stato dal Sessantotto a oggi, Sperling&Kupfer, Milano, 2009;
Gianni Flamini, Il partito del golpe: le strategie della tensione e del terrore dal primo centrosinistra organico al sequestro Moro, Bovolenta, Ferrara, 1985;
Nicola Rao, La fiamma e la celtica. Sessant’anni di neofascismo da Salò ai centri sociali destra, Sperling&Kupfer Editori, Milano, 2006;
Nicola Rao, Il sangue e la celtica. Dalle vendette antipartigiane alla strategia della tensione. Storia armata del neofascismo, Sperling&Kupfer, Milano, 2008;
Ugo Maria Tassinari, Fascisteria. Storie, mitografia e personaggi della destra radicale in Italia (1965-2000), Sperling&Kupfer, Milano, 2001;
Luca Telese, Cuori neri. Dal rogo di Primavalle alla morte di Ramelli. 21 delitti dimenticati degli anni di piombo, Sperling&Kupfer, Milano, 2006;
Sergio Zavoli, La notte della Repubblica, Nuova Eri-Mondadori, Milano, 1992.

Sitografia
Nicola Tonietto, Un colpo di stato mancato? Il golpe Borghese e l’eversione nera in Italia, Diacronie. Studi di Storia Contemporanea: Stato, costituzione e democrazia, 29 giugno 2016
http://www.studistorici.com/2016/09/29/tonietto_numero_27
Manuela Sirtori, La genesi del terrorismo di sinistra, www.e-storia.it, anno III, numero 1, marzo 2013


Trasmissioni televisive
Il golpe Borghese - Storia di un’inchiesta in “La storia siamo noi”, condotto da Giovanni Minoli


Trasmissioni radiofoniche
Golpe Borghese, muove il re nero, in Wikiradio, Enrico Deaglio, www.youtube.com/watch?v=VEJsBW444So
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