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Garibaldi il nostro eroe

di Maria Cipriano

Giustamente è stato detto recentemente dal Professor Lucio Villari, docente di storia contemporanea all'università di Roma 3, che “Garibaldi è amato da tutti gli Italiani seri”, intendendo con questo che del Risorgimento non si può parlare a vanvera, contrariamente a quel che avviene a bordo della chiassosa giostra di revisionismi e riletture accusatorie che gli girano intorno. Riletture che possono fare sensazione in chi è a digiuno di argomenti, ma che crollano sotto il peso della scienza storica che, appunto in quanto scienza, non si lascia disarmare da fragili contestazioni.
Delle quattro colonne portanti del Risorgimento -Mazzini, Garibaldi, Cavour, Vittorio Emanuele II-, uomini diversissimi tra loro per natali, cultura, carattere, visione politica, intendimenti, modi di fare, ma mancando anche uno solo dei quali il Risorgimento non avrebbe potuto compiersi-, Garibaldi è certamente quello che, anche a livello mondiale, ha riscosso e riscuote tuttora le maggiori simpatie di massa a tutti i livelli: simpatie variegate ed eterogenee, provenienti cioè da parti diverse, da genti diverse, da persone anche molto diverse tra loro e addirittura opposte (si pensi ai fascisti e antifascisti), il che già di per sé costituisce sintomo della complessità e poliedricità del personaggio il quale, al contrario di Mazzini che fu difensore spesso intransigente delle proprie idee fino a chiudersi in sé stesso fuoriuscendo dalla mischia e addirittura finendo i suoi giorni in solitudine sotto falso nome, riuscì invece a mantenersi coerente pur calcando la scena fino all'ultimo, partecipando alla vita politica nazionale ed europea, vivendo in mezzo alle mille contraddizioni del suo tempo, esternando il proprio pensiero senza timore, anche a costo di esagerare talvolta -come lui stesso riconobbe- o di sbagliare, peccando d'ingenuità o di soverchia fidanza nel prossimo, come quando offerse indarno, ormai anziano e malato, il suo braccio alla Francia (fu l'ultimo suo intervento militare) sperando in una qualche riconoscenza relativa a Nizza e alla Corsica. Ne ebbe come remunerazione la proverbiale villanìa dei francesi. Contrariamente a Mazzini, facile al cruccio e al pessimismo, e a Cavour che perdeva la calma quando s'irritava, Garibaldi conservò sempre dentro di sé un ottimismo di fondo, quell'audace amore della vita che era un tratto fondamentale del suo carattere, un'innata socievolezza e generosità, l'apertura alla realtà unita alla capacità di trattare con gli uomini della più diversa estrazione, calamitandoli a sé con il suo carisma di capo, il suo coraggio intemerato e la sua trascinante oratoria. Sotto questo aspetto, a nessuno altri che a lui poteva riuscire l'ardua impresa della conquista del Regno delle due Sicilie, intorno alla quale mi pare significativo citare una frase della storica irlandese Lucy Riall: “Nella straordinaria successione di eventi che portò all'unificazione della penisola italiana, nessuna vicenda fu più spettacolare di quella cui si assistette nell'Italia meridionale. Dalla prima rivolta palermitana dell'aprile 1860 all'arrivo dei Mille, dalle sconfitte inflitte all'esercito borbonico a Calatafimi, Palermo, Milazzo fino all'ingresso trionfale di Garibaldi a Napoli, poche campagne militari sono state così sorprendenti, celebrate, o hanno avuto conseguenze a lungo termine così importanti.” Tutti i giornali americani decantarono l'impresa, paragonando Garibaldi a George Washington. Il giornale “New York Herald” parlò di “un evento che non ha l'uguale nei tempi moderni.” Giunsero volontari entusiasti da ogni dove, perfino dall'Algeria, dall'Egitto, dalla Turchia, dalla Serbia, dal Canada, dall'India e dalla Russia, e altri avrebbero dovuto arrivarne da ancora più lontano ma non fecero in tempo. Si formò un'intera compagnia di svizzeri provenienti da vari cantoni. Il clamore insomma fu mondiale, l'appoggio dell'opinione pubblica pressoché totale. E in effetti si trattò proprio di un'impresa leggendaria e asperrima, non solo per il contesto in cui doveva svolgersi, ma anche perché si aveva davanti un esercito di 100.000 uomini rinforzato da schiere di svizzeri e bavaresi, e perché da parte delle potenze europee non vi era né vi poteva essere nessun ragionevole giubilo nell'accettare un'Italia unita dalle Alpi al Mediterraneo.
In confronto a Mazzini, uomo di pensiero e sacrificio più che di azione, Garibaldi ebbe in dono quell'intelligenza versatile e quell'elasticità mentale data dalle sue estreme esperienze di vita, che gli consentì di non tramutare il Risorgimento in un avventurismo senza sbocco, in una rivoluzione naufragata, in un azzardo demagogico. Sotto questo aspetto, l'Italia precisamente gli deve ciò che altri gli hanno rimproverato, giacché fu proprio grazie alla rivoluzione mancata e alla lungimiranza sua di non farla scoppiare, che il Risorgimento poté perfezionarsi e imporsi all'Europa come un fatto compiuto irreversibile. Diversamente, avremo avuto con tutta probabilità una rivoluzione finita male, una guerra civile, più facilmente un'invasione straniera, con le conseguenze disastrose che ciò avrebbe comportato.
Cavour, l'anima economica del gruppo, che mise la Borsa a Torino e nel decennio della sua Presidenza del Consiglio fece raddoppiare il reddito pro-capite, membro di spicco dell'aristocrazia illuminata e del nascente ceto imprenditoriale, voleva un'Italia inserita nel “giro” economico dell'Europa delle potenze che contano, il che, esigendo una mentalità imprenditoriale e un concetto moderno di economia, servì a porre le premesse di quello sviluppo eccezionale dell'Italia -sviluppo imprenditoriale appunto- che non avrebbe mancato di dare i suoi frutti, che godiamo ancora oggi, e i cui semi furono posti allora, nonostante egli sia mancato purtroppo prematuramente alla nazione. L'avvedutezza di Garibaldi fu pertanto quella di capire che l'Unità d'Italia andava fatta a qualunque costo, né avrebbe potuto farsi senza Cavour e Vittorio Emanuele II. In ciò gli furono di ammaestramento proprio le sue esperienze rivoluzionarie in Sudamerica, tutte fallite, unite al fondato timore che le rivoluzioni portano fatalmente con sé fiumi di sangue, anarchia, prevaricazioni, e non di rado degenerano nel fanatismo e nella più bruta violenza: cose, codeste, dalle quali Garibaldi istintivamente rifuggiva. Non che Mazzini non capisse che senza i Savoia non si sarebbe concluso nulla, ma per principio non lo volle mai ammettere e ciò influenzò negativamente la vita politica italiana, che avrebbe preferito un Mazzini costruttivamente inserito nel Regno d'Italia piuttosto che appartato e solitario, confinato inutilmente a Lugano nella villa di una sua amica, e che pure a modo suo continuava a far sentire la sua voce agli italiani, come quando, nel marzo 1860, inviò la famosa Lettera ai Siciliani in cui li spronava a ribellarsi.
Al contrario di lui, Garibaldi seppe metabolizzare i fallimenti, come la sua travagliata vita dimostra, e in particolare la sua partecipazione al Risorgimento che non si arrestò di fronte a nessuna disillusione. Altri avrebbero rinunciato, ritirandosi a vita privata, deponendo la spada. Garibaldi no: non portava rancore, e, pur rimanendo fedele ai suoi ideali democratici, repubblicani e anticlericali, non tagliò i ponti con nessuno, non chiuse mai le porte in faccia a nessuno, e ciò sortì un effetto positivo nel popolo italiano, ben consapevole che l'uomo che più di tutti avrebbe potuto dividere l'Italia, preferì tenerla unita e la volle tenere unita. In questo gli dobbiamo infinita riconoscenza.
Quando il 7 settembre 1860 (prima ancora del definitivo crollo del Regno delle due Sicilie) egli entrò senz'armi e senza esercito trionfalmente a Napoli, reduce dalle travolgenti accoglienze di Salerno, fu acclamato con incontenibile entusiasmo dalla popolazione di ogni ceto, fra ali di militari borbonici che gli presentavano le armi (e della cui incolumità e libertà di decisioni si era fatto garante), e il clero in prima fila. Non bisogna dimenticare, a questo proposito, che proprio il clero meridionale ebbe una parte molto importante nel Risorgimento nazionale, non solo tramite “preti eccentrici” come il celeberrimo frate Pantaleo che gettò poi la tonaca alle ortiche e prese moglie, ma anche tramite veri uomini di Chiesa, i quali, pur conservando la fede in Cristo e nella tradizione canonica, si orientarono verso il Risorgimento fin dai suoi albori con le opere e lo scritto, armati del solo Vangelo. La rivolta della Gancia, in Sicilia, avvenuta il 4 aprile del 1860 per convincere Garibaldi a organizzare l'agognato sbarco nell’isola, fu ordita in un convento di Palermo con l’appoggio e la collaborazione attiva dei frati. Nonostante fosse un notorio “mangiapreti”, nessuno come Garibaldi fu attorniato nella sua lunga lotta per la riunificazione e l’indipendenza d’Italia da tanti religiosi, combattenti e non combattenti, che lo seguirono in quell'arduo cammino, sfidando i richiami aspri e severi della Curia. Il 14 maggio 1860, pochi giorni dopo lo sbarco a Marsala, egli inviò da Salemi che l'aveva accolto nello sventolìo dei Tricolori, il “proclama ai buoni preti”, in cui, richiamandosi alla vera religione di Cristo, concludeva con parole di incitamento alla liberazione dallo straniero che suonano ancora tragicamente attuali. E gli stranieri, si sa, erano sempre stati il sostegno del Regno borbonico.
Nominò Gregorio Ugdulena, insigne canonico della Chiesa metropolitana di Palermo, professore, teologo e uomo di Dio integerrimo, ministro della Pubblica Istruzione del Governo provvisorio (diventerà poi deputato del Regno d'Italia). Mentre schiere di preti e frati infiammavano il popolo in tutte le piazze dell'isola e Nino Bixio decantava per lettera alla moglie il patriottismo del clero siciliano, obbedì al saggio consiglio di monsignor Naselli, arcivescovo di Palermo, che lo avvertì di raggiungere la città non da Monreale, sufficientemente presidiata, ma deviando verso l'interno (come riferisce anche Don Santino Spartà nel libro “Anche i preti hanno fatto l'Unità d'Italia”). A Napoli, presenziò al solenne Te Deum di ringraziamento nel Duomo, e si recò a omaggiare le famose reliquie di San Gennaro, il cui sangue si sciolse mostrando il gradimento del Santo patrono. Nessun disprezzo per le tradizioni, dunque, vieppiù in un territorio pervaso di cattolicesimo fino al midollo come il mezzogiorno: ciò anche perché, contrariamente a quel che si pensa, egli non era ateo né materialista, anzi credeva in Dio, nello spirito, nell’anima e nella sopravvivenza dopo la morte. La sua era una fiera insofferenza nei confronti del Papa e del Papato, del potere temporale della Chiesa e di un clero nemico del popolo. Con lui decadde la barbara usanza del mezzogiorno borbonico di chiudere le donne in monastero contro la loro volontà. Alcune di queste infelici, fuggite dai conventi, accorsero a festeggiarlo.
Arsi di odio e di vendetta nei confronti del Nizzardo –era stato il suo gigantesco carisma, più dei nuovi cannoni rigati usati dall’Esercito Sabaudo nell’assedio finale di Gaeta, il principale responsabile del crollo del Regno delle Due Sicilie- i Borbonici, una volta capito che il Governo di Torino anelava sorprendentemente alla pacificazione, rimandando liberi i soldati, offrendo generosamente agli ufficiali e sottufficiali dell’ex esercito di Francesco II di passare in quello del Regno d’Italia conservando gradi e stipendio, nonché ai più capaci funzionari dell’ex Re sconfitto di riproporsi nel nuovo contesto, mettendo a frutto le proprie esperienze e competenze in pro della rinata nazione, ordirono contro di lui una campagna di denunce e calunnie, in modo da gettare nel discredito i Garibaldini e convincere i politici più moderati del Regno d’Italia a estrometterli dalla scena politica. Non era un mistero che Garibaldi predicava la distribuzione delle terre ai contadini e la soppressione del latifondo, che voleva arrivare a Roma per fare guerra al Papa, raggiungere Venezia, sbarcare in Istria e salire fino a Trento, sfidando l’Austria: e dunque rappresentava una mina vagante per il neonato Regno il quale, dopo l’impresa dei Mille, anelava assicurarsi perlomeno temporaneamente la pace con l’Austria e con il Papa, e tranquillizzare l’Europa. In questo clima di normalizzazione, non stupisce che i Garibaldini, se non furono proprio estromessi, furono comunque in parte emarginati dalla scena politica e tenuti a bada, il che fu la causa non secondaria delle turbolenze nel mezzogiorno, visceralmente legato a Garibaldi e alla sua idea di Risorgimento, dove l’aspetto sociale era assai marcato. Questo attaccamento era così forte, che la malavita meridionale, invece di sostenere i Borboni com’era sempre avvenuto anche ai tempi dei giacobini, di Napoleone e di Murat, aveva finito per dare man forte a Garibaldi (il più celebre brigante del tempo, Giosafatte Talarico, ammirato di lui, si rifiutò di ucciderlo pur dietro pagamento di una grossa somma), fiduciosa nelle promesse dell’eroe che nel nuovo Regno ci sarebbe stata un’amnistia generale e i fuorilegge avrebbero potuto rientrare nella società legale, in un'Italia rinata dalle fondamenta. A chi si scandalizza di questo aspetto e lo usa come arma contro il Risorgimento, bisogna ricordare che nel Regno Borbonico la malavita costituiva un normale “secondo stato”, essendo il principio di legalità più apparente che reale, non solo: ma le condizioni di profondo disagio sociale e ignoranza che affliggevano le campagne, costituivano una “fabbrica” a getto continuo di fuorilegge. In questa situazione, Garibaldi con il suo enorme ascendente riuscì in gran parte ad amicarsi questo “stato”, creando un clima di speranze, emozioni, entusiasmo, collaborazione, che viceversa si smorzarono quando all’eroe dei due mondi e al suo Esercito meridionale subentrò, dopo la caduta della fortezza di Gaeta, l’Esercito Sabaudo e quindi il Regno d’Italia. Ma ciò non deve far concludere frettolosamente che il Regno d’Italia che veniva a portare il principio di legalità, il rispetto delle leggi, i Carabinieri, i Prefetti e l'autorità di uno Stato di diritto, sia da deprecare, poiché esso fece la sua parte, così come Garibaldi e i garibaldini fecero la loro.
Nonostante questo, il dare addosso al conquistatore in camicia rossa e ai suoi uomini, accusati d’aver messo a soqquadro l’”ordinato e prospero” Regno delle due Sicilie, portandovi il disordine, l’anarchia e il sovvertimento dei costumi, d’aver anteposto malavitosi e banditi a onesti e probi cittadini, nonché di essersi appropriati di beni e danaro pubblico e privato (più che appropriarsene Garibaldi lo distribuiva), in un rosario di scelleratezze poco credibili, s'allargò ad accusare dopo di lui il Regno d'Italia e la presunta “piemontesizzazione” forzata. I nostalgici di Re Francesco II, lasciati quasi tutti a piede libero, non erano nuovi alla tecnica di scaricare altrove le proprie responsabilità. All'indomani dell'impresa dei Mille, l'inefficienza dei servizi segreti borbonici fu coperta ricorrendo a presunte regie potenti e occulte che avrebbero accompagnato Garibaldi fino a Marsala. Era umiliante, infatti, dover ammettere di essere stati giocati da qualcuno che, nell'iniziale ignoranza dell' Europa, procedeva con poco più di mille uomini ardimentosamente a tentoni in mezzo al mare, rischiando il tutto per tutto, seguendo i suggerimenti dell'ex militare borbonico Salvatore Castiglia salito a bordo, e che infine giunse a Marsala per un caso fortunato: la segnalazione che lì non c'erano navi borboniche. Così, quando le disgrazie del Regno delle due Sicilie divennero una vetrina aperta al pubblico, e città e paesi interi insorsero al seguito di Garibaldi assaltando gli uffici del vecchio governo e dando la caccia agli sgherri della polizia e ai funzionari pubblici, la vergogna e l'orgoglio ferito dei defenestrati fu il carburante della controffensiva che a tutti i livelli e con ogni mezzo, lecito e illecito e non di rado riprovevole, essi dispiegarono, dentro e fuori i campi di battaglia, nel furioso quanto vano tentativo di recuperare il perduto. Senza lesinare dispendi di sorta, nulla fu lasciato d'intentato a questo scopo. Perciò, la differenza con l'indolore passaggio dei poteri nell'Italia centrale, va vista in questo senso: che nell'Italia centrale non vi fu nessuna reazione da parte dell'esile classe dirigente pre-unitaria la quale semplicemente sfumò (tranne qualche piccolo strascico in Toscana), e anche la reazione del Papa andò tutta a concentrarsi non per riottenere l'Umbria e le Marche, ma per aiutare Francesco II a riprendersi il trono. Il Pontefice sapeva bene, infatti, che il crollo del Regno delle due Sicilie era l'anticamera della conquista di Roma e della fine del suo potere temporale. Conseguentemente, il mezzogiorno divenne il campo di battaglia del contro-Risorgimento, il luogo dove si concentrarono tutte le forze nemiche antigaribaldine e antisabaude, in un duello senza esclusione di colpi, aggravato dal duplice passaggio dei poteri: dai Borboni a Garibaldi, e da Garibaldi al Regno d'Italia. I disordini e le turbolenze di cui molti si scandalizzano oggi e mostrarono di stupirsi allora, in buona o malafede, non furono che l'inevitabile conseguenza della presenza di una classe dirigente che, lungi dal lasciarsi liquidare e dall'essere liquidata, lottò fino all'ultimo, forte di tutti gli aiuti palesi e occulti di cui poteva disporre, per rimettere Francesco II sul trono. Se a ciò si aggiungono il clima conciliativo cercato da Torino e le perdonanze del nostro Eroe, ansioso di mostrarsi magnanimo coi vinti e frenare gli odi della popolazione che in Sicilia non voleva nemmeno dare cristiana sepoltura ai militari borbonici per farne mangiare i cadaveri dai cani, si ha l'idea di quanto la reazione borbonica sia andata a infilarsi proprio laddove intravedeva vuoti e punti deboli, quali che fossero.
In conclusione: seppure in numero largamente minoritario e qualitativamente scadente, la reazione borbonica ammantata dei più vari pretesti (religiosi, politici, sociali, morali, economici) dette per qualche anno inevitabile filo da torcere al nuovo Stato, che però ne uscì vincitore, nonostante in molti sperassero ne sarebbe uscito abbattuto. Numerosi, in quell'occasione, furono i giudizi stranieri critici e addirittura ostili sparati in alto loco contro l'Italia, uniti a minacce di un intervento e a campagne di stampa contro il novello Regno accusato di seminare il terrore nel mezzogiorno e addirittura di macchiarsi di crimini peggiori di quelli dei Borboni, né si lesinarono offese scagliate dai più vari spalti contro la classe dirigente italiana, esposta a uno scandaloso fuoco di fila. Non fece eccezione il Parlamento inglese, dove il deputato scozzese MacGuire, che poco o nulla sapeva dell'Italia, ripeté arrogantemente ciò che aveva udito dal nunzio apostolico e dall'ambasciatore francese, entrambi preoccupati di preservare Roma minacciata: “Non vi può essere storia più iniqua di quella dei piemontesi nell'occupazione dell'Italia meridionale. In luogo di pace, prosperità e contento generale che si erano promessi e proclamati come conseguenza della raggiunta unità, non si ha altro che la stampa imbavagliata, le prigioni ripiene, ed una sognata unione che è in realtà uno scherno, una burla, un'impostura.” Invano il ministro Palmerston, che conosceva l'Italia e parlava l'italiano, cercò di spiegare come stavano le cose al di là degli isterismi, ma non ebbe successo e venne aggredito verbalmente in Parlamento. Tutta l'ala conservatrice inglese, facente capo a Benjamin Disraeli, intimo della Regina Vittoria, che odiava l'Italia, il Risorgimento e Garibaldi (Disraeli fu uno dei pochissimi a non riceverlo, assieme a Marx, durante il suo viaggio a Londra nel 1864), poteva finalmente sfogare l'astio a lungo represso contro la rinascita dell'ingombrante nazione al centro del Mediterraneo. Del resto MacGuire era un campione di profetismo, e infatti aveva detto: “Per me, io non credo nell'unità dell'Italia e la ritengo una smodata corbelleria. L'Italia è come un castello di carte che al primo urto sicuramente andrà in pezzi. E' più facile unire tutte le nazioni d'Europa in un'unica nazione che unire l'Italia del nord a quella del sud.” Infatti, come si è visto, è accaduto l'esatto contrario.
Da questo attacco destabilizzante a tutto tondo, il novello Regno d'Italia sarebbe uscito a pezzi se l'immensa forza ideale, morale e spirituale del Risorgimento non avesse fatto da usbergo inattaccabile a ogni tentativo di distruggerlo. Ciò anche e soprattutto per la volontà della maggioranza dei meridionali, bisogna dire, senza di che l'Unità sarebbe stata compromessa, essendo il mezzogiorno il suo snodo fondamentale, frangendosi il quale tutto sarebbe andato perduto. Ettore Fabietti, autore di tanti libri sul Risorgimento durante il Ventennio, nel suo libro “I Carbonari”, a proposito dei meridionali aveva scritto: “I proscritti e i fuggitivi, testimoni delle sventure d'Italia, cercarono scampo in tutti i paesi d'Europa, persino a Tunisi, ad Algeri e in Egitto. Uomini onorandi per altezza di mente, avendo tutto perduto, si piegarono a mestieri manuali, nessuno a bassezze e delitti, e tutti accreditarono al cospetto degli stranieri la causa d'Italia.” Ebbene, questo spirito non cambiò di certo quando l'esplodere del brigantaggio, l'”arma segreta” di cui già i Re Borboni si erano serviti brutalmente in passato per recuperare il trono, mise i meridionali fedeli all'Unità d'Italia (cioè la stragrande maggioranza) nella difficile condizione di dover in qualche modo spiegare la situazione, chiamandosene fuori e suggerendo disperatamente qualche rimedio, anche con azioni eclatanti, come fece il paese di San Marco Argentano in provincia di Cosenza che invitò solennemente Alexander Dumas, grande sostenitore di Garibaldi e dell'Unità d'Italia nonché celebrità internazionale, proprio per sottolineare pubblicamente la propria estraneità a qualsiasi conato anti-unitario. In quest'aspra lotta, non basterebbe un libro per rievocare i meridionali che, spesso da soli, resistettero o contrattaccarono, al grido di “Viva l'Italia! Viva Garibaldi! Viva Vittorio Emanuele!”. Tra i personaggi e gli episodi innumerevoli, don Giulio Porto, parroco di Faicchio in provincia di Benevento, che, per le sue denunce contro il brigantaggio, venne rapito dai briganti e massacrato a stilettate. Vincenzo Pastore, un ragazzino di 14 anni che, a guardia delle pecore, riferiva nel paese (Gioia sannitica in provincia di Benevento n.d.r.) i movimenti sospetti, fu rapito e fatto fuori con una coltellata alla gola dai briganti. Don Luigi Amato, parroco di Valleluce in provincia di Frosinone (che allora era nel Regno delle due Sicilie) fu rapito, seviziato e liberato dietro riscatto di ben 3.000 ducati. Quanti meridionali furono ammazzati dai briganti? Quanti paesi e villaggi furono saccheggiati e incendiati dai briganti? Ve n'è un elenco interminabile. Quanti danni all'economia meridionale causò il brigantaggio? Quanto costò allo Stato la lotta al brigantaggio soltanto in premi, sussidi, pensioni, vitalizi e risarcimenti a tutte le innumerevoli vittime? Impegnati a fare i conti delle povere vittime dell'esercito piemontese, molti parlamentari, giornalisti, la stampa internazionale e le commissioni d'inchiesta si lasciarono travolgere dal piagnisteo a senso unico della propaganda nemica, finendo per fare il suo gioco senza manco accorgersene.
Ma il brigantaggio era solo la punta dell'iceberg, poiché i nemici del Risorgimento maneggiavano un'arma ancora peggiore: quella della calunnia, del linciaggio morale, dell'invettiva infamante, cioè un'arma di disturbo e sobillazione ben più subdola ed efficace al fine di guastare la festa, avvelenare l'aria, ammorbandola di sospetti che, in seno a certuni, potevano diventare certezze. Cominciarono con il falsificare l'andamento militare in Sicilia, parlando di un manipolo di masnadieri e straccioni facilmente volto in fuga dall'esercito. Continuarono con un rosario concatenato di calunnie sparse a raffica, dicendo che “Torino stava rubando tutto”, che i “plebisciti erano truccati”, che i “piemontesi” volevano ridurre alla fame i militari borbonici costringendo all'elemosina i meridionali, chiudendo le chiese, imprigionando i sacerdoti, impedendo le funzioni religiose, violando i conventi, facendo arrivare i protestanti, il tutto unito a voci artatamente sparse di un imminente ritorno di Re Francesco II quale vindice della cristianità ferita e del buon ordine antico. Non si pensi dunque che le calunnie dell'oggi siano nate oggi, no! Che esse erano già nate allora, con ogni dovizia di particolari, e gli emuli odierni che dicono d'aver scoperchiato questa e quella “nuova verità”, sono solo dei ripetitori, persino più grossolani e disaccorti di chi li ha preceduti. Nè la marea di fango risparmiò lo stesso esercito borbonico combattente -a cui più di una volta il nemico garibaldino e sabaudo concesse l'onore delle armi-, accusato di essersi venduto per danaro, d'aver tradito per oscuri e torbidi fini, o addirittura di aver abbandonato il campo di battaglia senza combattere. Valga per tutte la misera fine del generale Francesco Landi, lo sconfitto di Calatafimi, sommerso dall'accusa infamante che in breve lo portò alla tomba di aver ricevuto danaro dal Piemonte, costringendo il figlio Michele a inoltrare una supplica direttamente a Garibaldi in cui, con parole accorate e a nome di tutto il parentado, lo pregava di smentire pubblicamente quest'infamia, cosa che naturalmente il nostro Eroe fece subito, ma che pure non bastò a placare il livore in quanto si arrivò ad accusare lo stesso Garibaldi di aver mentito in faccia al mondo. Né si salvarono alcuni parenti stretti del Re, tra cui il Conte di Siracusa Leopoldo di Borbone suo zio, fratello di suo padre, da tempo simpatizzante del Risorgimento, ma sul quale si rovesciò l'accusa di aver abbandonato il Sovrano nel periglio quando da tempo gli aveva suggerito quelle mosse di apertura alla causa nazionale che egli non aveva voluto attuare. Proprio il conte di Siracusa, nell'intento di risparmiare l'inutile guerra in corso che sapeva persa in partenza, scrisse una pubblica lettera al nipote Francesco II, in cui in modo chiaro e drammatico così esordiva: “Sire, se la mia voce un giorno si levò a scongiurare i pericoli che sovrastavano la Nostra Casa, e non fu ascoltata, fate ora che, presaga di maggiori sventure, trovi adito nel vostro cuore e non sia respinta da improvvido e più funesto consiglio. ” E ancora: “Sire, salvate la Nostra Casa dalle maledizioni di tutta l'Italia! Seguite il nobile esempio della Regale Congiunta di Parma che, allo irrompere della guerra civile, sciolse i sudditi dall'obbedienza e li fece artefici dei propri destini!
Si fece tutt'altro. Tutto tentò di travolgere l'ira nemica con l'onda d'urto della menzogna, arrivando ad accusare il celebre professore e giurista Liborio Romano, membro di un'antica e illustre famiglia aristocratica di Lecce, di essere un traditore del Re, un camaleonte e addirittura il capo dei camorristi, mentre da sempre, per tradizioni familiari risalenti al 1820, era un patriota carbonaro che per il Risorgimento aveva patito carcere, persecuzioni ed esilio con il padre e coi fratelli. A lui il Re Francesco II tardivamente si rivolse in quelle tragiche emergenze, supplicandolo di entrare nel governo quando, il 26 giugno del 1860, le cose a Napoli precipitarono. Sull'onda delle vittorie garibaldine in Sicilia e di un entusiasmo che aveva invaso tutto il mezzogiorno continentale dove alcune città avevano già proclamato da sole l'annessione al Piemonte prima ancora del giungere di Garibaldi, scoppiò un tumulto popolare che, gridando “Italia e Vittorio Emanuele” s'avvicinò pericolosamente a Palazzo Reale, direttamente minacciandolo. Era la fine. Liborio Romano fu convocato la notte del 27 giugno dall'atterrito Re. Perfino i lazzari -la torma di decine di migliaia di mendicanti laceri e senza dimora di Napoli, da sempre superstiziosamente fedeli ai Borbone-, avevano voltato la faccia, preparandosi ad attaccare e saccheggiare il Palazzo Reale. Tutti aspettavano Garibaldi, tutti inneggiavano a colui che ormai era considerato l'eroe invincibile. Perfino i camorristi l'avevano eletto a modello di “eroe plebeo”. Liborio Romano, a cui si chiedevano impossibili miracoli, dopo un ancor più violento tumulto scoppiato a luglio a seguito di un tentativo di repressione della polizia borbonica che entrò violentemente in case e negozi sfasciando i ritratti di Garibaldi, di Re Vittorio e stracciando coccarde tricolori, pensò d'istituire un corpo di polizia misto, composto anzitutto da elementi non borbonici, devoti alla causa unitaria, e, onde evitare furti, saccheggi e delitti da parte della criminalità organizzata, dei guappi e dei lazzari di cui la città rigurgitava, di rinforzarlo con coloro che, in quelle circostanze eccezionali, potevano tenere a bada la delinquenza essendo essi stessi delinquenti, organizzati e armati, capaci di addentrarsi nel cuore della Napoli popolare che conoscevano a menadito, sapendo come muoversi. E bisogna riconoscere che questa contestata decisione che scandalizzò anzitutto Torino (con cui Liborio era in contatto via telegrafo, essendo un fedelissimo di Cavour), fu proprio quella che si dimostrò utile, il che non significa che i camorristi improvvisatisi “poliziotti” non ne combinarono qualcuna delle loro, ma comunque servì a evitare il saccheggio, l'anarchia e il caos generalizzato in una città di 500.000 abitanti, dove tutto poteva succedere.
Una volta uscito mestamente da Napoli il 6 settembre 1860, il Re Francesco II, che aveva i suoi sostenitori e disponeva ancora di un esercito di 50.000 uomini, cominciò a pianificare in modo sistematico la controffensiva, la quale non doveva limitarsi alla continuazione regolare della guerra, ma doveva creare comitati borbonici clandestini ovunque fosse possibile crearli, e cioè laddove si poteva far maggiormente leva su di una popolazione particolarmente arretrata, isolata, smarrita dagli eventi e che poco li aveva capiti, impaurita dal nuovo, visceralmente ancorata alle proprie tradizioni, a cui Garibaldi poteva esser presentato come Lucifero e il Re Vittorio come l'AntiCristo. Ma su questa via che mirava alla guerra civile come controdimostrazione di fronte all'Europa delle accoglienze fatte dal meridione all'Eroe dei due mondi, non si raccolsero i successi sperati, perché i moti legittimisti, capitanati di volta in volta da preti fanatici, possidenti nostalgici o militari borbonici sbandati, se pur ci furono, furono puntualmente snobbati dalle città e dai centri maggiori dove si era innalzato un Tricolore che mai si abbassò, e pertanto rimasero un fatto obiettivamente limitato e marginale, passeggero e frammentato, circoscritto a villaggi o paesi con poche centinaia o, al massimo, poche migliaia di abitanti. Fu però l'aggressività e la violenza, anzi l'inaudita ferocia, il segno distintivo immediato che li fece balzare alla ribalta delle cronache, perché proprio questa innescava la reazione contraria. Né ciò avvenne a caso: che fu proprio la violenza sapientemente aizzata nei punti giusti, a dare agio ai mandanti di poter gridare contro gli invasori “piemontesi” quando questi reagivano, accusati di ammazzare i meridionali, fucilando, incarcerando e perseguitando chi altro non chiedeva che di riavere il proprio legittimo Sovrano. Il clamore mediatico della violenza doveva sopperire alla scarsità numerica dei rivoltosi. La situazione infatti si aggravò ai primi atti di contrattacco e repressione. Ma soprattutto precipitò, quando, non sortendosi gli agognati risultati e rimanendo la rivolta legittimista relegata a frazioni, villaggi e piccoli centri, neanche in questi sostenuta all'unanimità, essa confluì nel giro di poco nel brigantaggio: il che avvenne e poté avvenire solo grazie al fondamentale apporto logistico, organizzativo e finanziario del governo Pontificio, disposto a pagare 6 carlini al giorno (più del triplo di quello che poteva sperare di guadagnare un contadino) a chiunque si fosse aggregato alle bande che via via andavano costituendosi. Troppo importante era la posta: se cadeva il mezzogiorno, sarebbe caduto il “mito” del Risorgimento e l'odiato Regno d'Italia, e anche la Roma papalina sarebbe stata salva. Il salto di qualità dai moti legittimisti al brigantaggio fu perciò l'inevitabile scelta di campo strategica che si delineò nella primavera del 1861, anche se ancora non del tutto chiara al Governo di Torino. L'interrogatorio del brigante Michele Tommaso di Gioia, avvenuto nel dicembre 1861 (centinaia di briganti si consegnarono e non pochi collaborarono fornendo informazioni), svelò i retroscena dell'ampia regìa occulta che ci stava dietro, ancora non del tutto nota nella sua reale portata alle autorità di Polizia del Regno d'Italia. Fu proprio lui a spiegare che anche i moti legittimisti, lungi dall'essere spontanei come fin lì si era creduto, erano invece stati programmati e decisi a tavolino dalla medesima regia.
Ma che il brigantaggio, per quanto abilmente diretto, potesse piegare il Regno d'Italia, fu una pia illusione. Ciò nonostante servì, oltre a devastare l'economia, a far scoppiare il finimondo: nel Parlamento di Torino. Nella stampa. Nella pubblica opinione. Nei governi stranieri. Il 15 maggio 1861 Liborio Romano, proclamando che “la mia famiglia è l'Italia”, scriveva una lunghissima lettera a Cavour in cui lo supplicava di salvare il meridione dai gravissimi mali di cui Torino non aveva colpa alcuna ma che adesso era suo dovere risolvere proprio con quei mezzi che il grande statista piemontese aveva già indicato: la pazienza, l'educazione, l'alfabetizzazione, le opere pubbliche, il risanamento morale e civile, la lotta alla corruzione e all'illegalità, le provvidenze sociali.
Il 24 agosto 1861, il Presidente del Consiglio Bettino Ricasoli, ai cui nervi saldi e calma fermezza tanto dobbiamo, emanava una circolare diretta ai rappresentanti del Re d'Italia all'estero, mettendo in chiaro la situazione con la consueta lucidità, affinché gli stranieri potessero riceverne un quadro obiettivo, scevro dalle strumentalizzazioni delle forze interessate. In essa, tra l'altro, si legge:”Il vero brigantaggio (il brigantaggio anti-risorgimentale n.d.r.) esiste nelle provincie che sono intorno a Napoli, ha per base la linea del confine pontificio, tiene le sue forze principali nella catena del Matese e di là poi si getta su quelle due provincie (Campobasso e Isernia n.d.r.) e in quelle di Avellino, Benevento e Napoli distendendosi lungo l'Appennino fino a Salerno, e perdendo sempre più intensità quanto più si discosta dalla frontiera romana dove si appoggia e si rinforza d'armi, d'uomini e danaro...” Per quanto Ricasoli fosse un fervente cattolico, nella circolare non lesinò esplicite accuse alla Chiesa di Roma, accusata senza mezzi termini di essere mandante e complice del brigantaggio assieme al deposto Re di Napoli al fine di cercare di abbattere il Regno d'Italia: “E' manifesto che la complicità e la connivenza della Curia Romana col brigantaggio deriva da solidarietà di interessi temporali, e che si cerca di tenere sollevate le provincie meridionali e d'impedire si stabilisca in esse un governo regolare.
Un esempio significativo del clima di pericolosa tensione, amplificato dalle forze di parte, che nelle provincie napoletane precedette e seguì la proclamazione del Regno d'Italia, è la mozione d'inchiesta che fu presentata al Parlamento il 20 novembre 1861 dal deputato napoletano Marzio Francesco Proto Carafa Pallavicino, Duca di Maddaloni, tirata recentemente in ballo dal deputato 5 stelle Di Maio per aggiungere altra acqua al pozzo del contro-Risorgimento, e intorno alla cui buona o malafede gli storici non sono ancora unanimi. Si trattava di una dura filippica, irta di imprecisioni e contraddizioni, dunque a mio parere in perfetta malafede, non già avverso Garibaldi, ritiratosi a Caprera con quattro vettovaglie e al solito senza un soldo, contro cui il prudente Maddaloni si guardò bene dal parlare perché troppo universalmente amato, ma avverso il Governo “piemontese” in generale, facilmente vulnerabile e accusabile proprio perché gravato dall'immane responsabilità di gestire un'eredità per molti versi ingestibile, e fatto segno proprio in quel tempo alle più indecenti accuse con una libertà generosamente concessa ai critici e ai detrattori che rasentava l'arbitrio e la vera e propria falsificazione dei fatti.
Essendo stato il Duca di Maddaloni a suo tempo un fautore del Risorgimento che aveva scontato con l'esilio dal 1848 al 1857, a maggior ragione la mozione da lui presentata nel momento più delicato del cambio dei poteri, all'indomani della morte del grande statista piemontese, apparve inaccettabile, al punto che fu in blocco respinta, nonostante nel Parlamento apertamente si scontrassero opinioni di tutti i tipi. Ma il Duca di Maddaloni sapeva quale fosse la gravosa eredità di ordine pubblico, sociale ed economico che si parava dinanzi anche al più abile dei governanti, e, com'è testimoniato da una lettera scritta pochi mesi prima all'amico Giuseppe Massari di Taranto, fedelissimo del Cavour e anche lui deputato al Parlamento, nulla lasciava presagire il repentino suo mutarsi d'animo al punto da scagliare con tale acrimonia addosso al Regno d'Italia, ancor prima di vederlo all'opera in più ragionevole lasso di tempo, una valanga di accuse, la più parte false o pretestuose, come quella di aver soppresso la Zecca di Napoli, di aver chiuso il Collegio militare la Nunziatella (la cui chiusura fu temporanea ed è infatti tuttora operante, tenuto in palmo di mano perfino da questa repubblica), o al punto da millantare falsi meriti, come quello che i Borboni avrebbero protetto l'insigne fisico parmense Macedonio Melloni nonostante le sue idee nazionali, quando invece il Melloni dai Borboni fu destituito da tutte le cariche proprio a causa di queste idee, nonostante l'umile supplica inoltrata al Sovrano, senza contare che non fu mai messo nelle condizioni di ben operare nell'Osservatorio Vesuviano da lui stesso ideato, per incuria e negligenza delle autorità. Così, i contenuti della lettera scritta in aprile all'amico Massari, lettera in cui Maddaloni rinnovava il voto dell'Unità d'Italia in un salutare affrancamento dalla corruzione e il malgoverno dei Borboni e del Papa, nella mozione di novembre mutano di verso e di tono. E, dopo aver affermato sprezzantemente che “Napoli, la città più nobile della penisola, è stata aggiogata a Torino, la città più povera e meno nobile d'Italia la cui storia conta meno di quella di Andria” (cosa alquanto difficile per una Torino che stava costruendo nientemeno il traforo ferroviario del Frejus), pretende di fissare la capitale a Napoli, lasciare Roma al Papa, e ricostituire l'esercito borbonico liberando gli alti ufficiali napoletani internati a Ponza che erano proprio i fedelissimi che avevano in un primo tempo seguito il Re spodestato nel suo esilio a Roma ma poi erano voluti tornare, e verso i quali il Governo poteva dunque permettersi di avanzare riserve o sospetti, ritardando il loro rientro a casa per ovvie ragioni di sicurezza.
Non pago di ciò, Maddaloni, dopo aver tuonato contro l'ateismo dei “piemontesi” (in realtà italiani di tutte le regioni), contro la licenziosità di spettacoli teatrali prima proibiti (e per spettacoli licenziosi erano da intendersi la Mandragola di Machiavelli e il Ballo in maschera di Verdi, tanto per fare un esempio), contro la miseria dilagante (in una città dove i garibaldini avevano trovato sacche enormi di degrado cui certo non bastavano distribuzioni di danaro e vettovaglie), contro l'incompetenza dei funzionari “mandati da Torino” (che nominò, per esempio, il grande scienziato calabrese Raffaele Piria, diseredato dallo zio per le sue idee Risorgimentali, membro ordinario del consiglio superiore della Pubblica Istruzione), contro il Codice Penale piemontese fermo al Medioevo e all'epoca dei remi in confronto a quello del Regno delle due Sicilie (mentre era stato modificato nel 1859 con importanti innovazioni, e già nel 1839 contemplava il principio di emenda del reo e dell'umanità nel trattamento dei detenuti), contro la chiusura delle scuole (quando proprio nel 1860 fu fondato il “Vittorio Emanuele II”, il primo di una serie di Licei storici e prestigiosi di Napoli, tuttora operanti, che nel giro di pochi anni, causa l'aumento vertiginoso degli iscritti, si moltiplicarono nei vari quartieri della città), contro la chiusura della Scuola d'Arte di Napoli (che invece restò aperta tanto da annoverare il grande pittore pugliese Gioacchino Toma, ex garibaldino, tra i suoi illustri insegnanti), e lungi dal denunciare le atroci malefatte dei briganti e i loro saccheggi (il saccheggio dei paesi di Trivigno e di Vaglio in provincia di Potenza, di Aliano e Calciano in provincia di Matera, dove furono scannati senza pietà tutti coloro che non volevano sottomettersi ai loro ordini), gli incendi per costringere la gente a issare il vessillo borbonico e stracciare il Tricolore, gli stupri e i sequestri di persona perpetrati all'ombra di sordide manovre straniere, parla invece delle malefatte dell'esercito “piemontese”, e, in linea con la colorita anedottica che i borbonici facevano abilmente circolare all'epoca onde seminare riprovazioni a senso unico, inserisce nella mozione un accenno ai fatti di agosto accaduti a Pontelandolfo e Casalduni, citando un episodio che pare mirato a suscitare un determinato effetto (alcune donne di Pontelandolfo che si lasciano morire tra le fiamme mentre pregano davanti alla croce di Cristo sotto i tetti che crollano, maledicendo i bersaglieri che le volevano salvare), dimentico però che le voci circolanti avevano accusato i “piemontesi” d'aver ammazzato anche le donne.
Il che basta a dimostrare, come risulta dalla sorprendente conclusione della sua mozione in cui arriva a caldeggiare un intervento armato dell'Europa, che la sua arringa non era una critica espletata in buona fede dentro il Parlamento dove i pareri discordi erano normalmente discussi, ma rappresentava il voltafaccia di qualcuno che, paventando in quei tumultuosi frangenti il ritorno di Francesco II, persuaso dai suoi agenti provocatori che davano per certo questo ritorno, convinti che l'Europa sarebbe intervenuta, temendo di non poter essere perdonato una seconda volta dopo essere stato perdonato una prima quando gli era stato condonato l'esilio, vedendo le ambasce in cui si dibatteva il neonato Regno, assediato dalle ingelosite potenze europee, accusato dai giornali stranieri, minacciato in vario modo dalla Francia, dall'Austria, dalla Russia e dall'Inghilterra, scosso dai mille problemi di un Sud spagnolesco che il Regno d'Italia ereditava senza colpa ma di cui si rovesciava su Torino la colpa, piagato dai briganti che sequestravano, taglieggiavano, seppellivano vivi, incendiavano, tagliavano orecchie per avere riscatti, facevano sbranare dai cani i prigionieri e decapitavano donne e bambini giocando a palla con le loro teste, disperando si potesse venir fuori da un tale marasma, abiurò al Risorgimento per accodarsi alla schiera dei suoi irriducibili nemici, dimettendosi dal Parlamento del Regno d'Italia e riavvicinandosi pubblicamente a Francesco II e al Papa che l'ospitava a Roma: salvo poi, quando il finale fu ben diverso grazie al pugno di ferro usato in questa bolgia dal Governo italiano, rientrare a Napoli circondato dalla disistima generale, finendo così anonimamente i suoi giorni. “Il nostro valorosissimo esercito è costretto a combattere contro un nemico indegno di lui.” dirà amaramente il Presidente del Consiglio Ricasoli in Parlamento.
Dopo la prematura morte di Cavour, avvenuta all’indomani della proclamazione del Regno d’Italia, morte che non fu una fortuna per il novello Stato, coloro che lo sostituirono (Ricasoli, Rattazzi, Farini) pur essendo uomini capaci, non ebbero né la sua elasticità mentale, statura e fiuto politico, né la sua insuperata autorevolezza. Lo spauracchio di Garibaldi e dei garibaldini agitò i loro sonni, causando una rigidità eccessiva che fu male accolta dalla popolazione meridionale, legatissima all’eroe dei due mondi. Alcuni telegrammi inviati da Rattazzi alle novelle autorità locali meridionali chiedevano informazioni sullo stato d’animo della gente, sulle eventuali trame occulte garibaldine annidate tra la popolazione, e su qualsiasi altro segnale d’inquietudine da ricondursi all’eroe in camicia rossa. In siffatto clima di pur debole rivincita, i borbonici ancora fedeli al deposto Re continuarono a seminare i germi della discordia, del sospetto e del discredito sul Risorgimento, sull'impresa dei Mille e sul Regno d'Italia, inaugurando un filone incredibilmente germogliato ai nostri tempi. La stessa mozione del Duca di Maddaloni, pur ricusata dal Parlamento, trovò modo di essere pubblicata lo stesso, spargendo in giro le sue velenose accuse che cagionavano malumore e scompiglio nella pubblica opinione, il che era ciò che i borbonici precisamente volevano, mentre Francesco II, non pago delle batoste militari ricevute, organizzava assieme al Papa veri e propri centri di reclutamento della peggior feccia in circolazione, la quale mai avrebbe trovato nel Regno d’Italia una collocazione diversa dalla galera e dal plotone d’esecuzione, e affluì tutta contenta nelle file del contro-Risorgimento col miraggio di bottini e saccheggi a danno della nascente borghesia meridionale che ben prometteva, tutta schierata col Regno d’Italia, la stessa avverso la quale i Borboni avevano sempre nutrito la più fiera diffidenza perché veicolo di progresso, emancipazione, benessere, e dunque libertà. Gli atti nefandi compiuti dai briganti, uniti al fondato sospetto di manovre straniere, non poterono non scatenare l’ira del Governo e del popolo italiano, cosicché la decisione di reagire con ogni mezzo per sradicare questa cancrena, che, tra le sue prodezze, sabotava e danneggiava le nuove costruzioni del progresso civile (ferrovie, strade, scuole, uffici pubblici), parve la cosa più sensata da farsi. Che poi in Parlamento si siano levate voci che deprecavano gli eccessi, chiedevano commissioni d'inchiesta, chiamavano i militari a render conto del proprio operato, e si siano confrontate in tono anche acceso proposte e soluzioni divergenti (il deputato abruzzese Silvio Spaventa arrivò a sfidare a duello il collega calabrese Giovanni Nicotera, entrambi eroi del Risorgimento) in dibattiti cui spesso assisteva dagli spalti la gente comune prendendo fervorosamente le parti degli e degli altri, ciò va a merito del Regno d’Italia, dove c’era, appunto, una notevole libertà di parola considerati i tempi, nonché un'elevata vitalità politica. Perciò, il brigantaggio che i celebratori odierni definiscono come lotta sociale che ben difficilmente si sarebbe potuta attuare senza una guida politica che mai comparve all'orizzonte, ma seguendo vescovi ottuagenari, famiglie nobiliari nostalgiche e mercenari stranieri sanfedisti, non fu che l’adunata della peggior accozzaglia di banditi e malviventi che la storia ricordi, e quelli che non lo erano lo diventarono, se non scapparono prima, come in molti casi avvenne. Non per nulla gli ex militari di Francesco II, checché lui sperasse il contrario, non vi ebbero che una parte irrisoria, nessun alto ufficiale borbonico volle immischiarsi con essi o assumerne il comando tant'è che si dovette ricorrere a mercenari stranieri, il che fu la ragione principale per la quale né Francesco II né la sua consorte poterono più rivedere Napoli.
In quanto ai fuorilegge che avevano seguito Garibaldi sperando nel perdono giudiziale, quando si ritrovarono in una monarchia costituzionale, liberale e borghese che aveva come suo cardine la legalità e dunque non intendeva elargire amnistie a cuor leggero –fosse anche ai seguaci di Garibaldi-, molti reagirono mettendosi al servizio dei Borboni smaniosi di vendetta. Carmine Crocco, uno dei briganti più famosi, fu uno di questi: dopo una vita turbolenta, aspra e difficile (il padre sbattuto in carcere innocente, la madre finita in manicomio per la disperazione, la miseria sopravvenuta) si era dato alla macchia diventando un fuorilegge, ma si schierò subito a fianco di Garibaldi per l'Unità d'Italia, combattendo con valore e agitando il Tricolore, speranzoso in un inserimento legale nel vagheggiato nuovo Regno. Partito l’eroe, di fronte al Governo liberale-borghese che difendeva la proprietà privata e osservava un Codice di leggi civili e penali, comportandosi come un normale governo dell’Europa occidentale evoluta, vide disattese le promesse e le speranze, e, trovando pronto accoglimento presso gli agenti dei Borboni e del Papa che non aspettavano altro, ingaggiò una lotta armata anti-unitaria che fu un rosario di delitti i più efferati compiuti contro i suoi stessi compaesani, i quali non di rado si difesero da soli, assestando a lui e alla sua banda di circa 1000 uomini qualche strepitoso smacco, come quando la città di Potenza che doveva insorgere contro gli “invasori piemontesi” non insorse affatto (era invece insorta due volte durante il Risorgimento), o come quando l'intero paese di Avigliano in provincia di Potenza lo respinse eroicamente in blocco, con i contadini e gli artigiani in prima fila.
Abbandonato infine anche dai suoi, mentre tentava di fuggire ignominiosamente con l'aiuto dei francesi che per anni l'avevano protetto costruendo il suo mito a uso e consumo del popolino, fu catturato e condannato a morte dalle autorità del Regno d'Italia. Ma, nonostante tutta la nazione lo volesse sul patibolo, su pressione dei francesi la pena gli venne commutata nell'ergastolo: qui, stanco e pentito, egli dettò le sue memorie al paziente capitano-psicologo del Regio Esercito Eugenio Massa che lo seguiva. “In questo luogo ho trovato solo brava gente che mi ha aiutato.” ammise infine, lasciandolo scritto ai posteri (in carcere imparò anche a leggere e a scrivere). Nella tardiva sua resipiscenza, si rese conto che il Regno d’Italia non poteva rinunciare al principio di legalità aprendo le porte ai masnadieri o avrebbe messo in atto un precedente pericoloso, e il suo pentimento, testimoniato dal comportamento in carcere che mai dette luogo a problemi nel corso di 29 anni (si dava anzi da fare per aiutare tutti), può ritenersi sincero, così come il proclamato riconoscimento del Regno d'Italia e il dispiacere per l'assassinio di Re Umberto I.
Il reinserimento dei malviventi nella società era del resto una delle tante idee precorritrici di Garibaldi, ma tutt'altro che facile da attuare nelle condizioni di endemica delinquenza in cui versava il mezzogiorno. Il nostro eroe riuscì dunque con le sue eccezionali capacità a tenere a freno e soggiogare “il secondo stato”, buona parte del quale certamente sperò in una nuova Italia di redenzione in cui rifarsi una vita, in taluni casi riuscendoci. Ma sempre di banditi si trattava. E lo dimostra il fatto che quelli di loro che davvero si pentirono, come Francesco De Carlo (che si era fatto una famiglia, una casa e un lavoro, e pagò con la vita la sua redenzione e adesione al Regno d'Italia, attirato in un malvagio e cruento tranello antropofago dai briganti Cipriano la Gala e compari, suoi ex compagni di carcere, che oggi l'anti-Risorgimento magnifica e le cui “magnifiche gesta” l'avvocato Antonio Vismara da Vergiate eternò in un libro scritto nel 1865 dopo aver letto gli incartamenti del processo da cui emergevano le terribili verità che li riguardavano), non passarono poi nelle file della reazione borbonica per compiere altri orrendi delitti, ma restarono nel Regno d’Italia per costruire e aiutare a costruire, senza più macchiarsi di quelle colpe che Garibaldi aveva loro generosamente perdonato nella luminosa grandezza e nell’ardore trascinante del Risorgimento d’Italia.

Nell'immagine, Garibaldini meridionali prigionieri: Gioacchino Toma, Fedele Albanese, e altri. Immagine tratta dal volume diG. Toma, “ Roma o morte”.
Il generale Enrico Cialdini inviò ai borbonici un minaccioso avvertimento che se avessero torto un solo capello a un garibaldino prigioniero, l'avrebbero pagata cara i militari borbonici prigionieri.
Documento inserito il: 19/04/2016
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