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Lincei del Settecento: Ianus Plancus, il cardinale Davia e la storia naturale newtoniana

di Davide Arecco


Stato, scienza e Chiesa in Italia fra XVII e XVIII secolo

Nel 1623, esattamente quattro secoli fa, usciva, a Roma, il libro che sanciva la nascita in Italia e in Europa del metodo scientifico moderno, Il Saggiatore di Galileo, dedicato alla disputa di natura meteorologica ed astronomica sulle comete. A pubblicare il volume, fu il tipografo linceo Giacomo Mascardi. Lo stesso Galileo era da oltre dieci anni un membro di punta della Accademia dei Lincei, anzi era stato lui a riorientare in direzione scientifico-matematica il quadro di interessi della cerchia, in un primo momento ancora incline a lasciarsi sedurre dalle ricerche magico-naturalistiche, di area dellaportiana. L’esperienza lincea, si sa, ebbe termine, di fatto, con la morte del suo fondatore – il Marchese di Acquasparta Federico Cesi, nel 1630 – e con il processo a Galileo di due anni dopo, sia pure con l’ultimo frutto tipografico rappresentato dall’edizione latina del Tesoro messicano, a opera di Francesco Stelluti (1651). Quest’ultimo – medico, zoologo, botanico e mineralogista di Fabriano – fu di fatto assieme a Fabio Colonna l’ultimo linceo del XVII secolo.
Un tentativo istituzionale di ricostituzione dei Lincei – la cui accademia scientifica era stata la prima, negli spazi della nostra penisola – venne fatto, in modo non così effimero ed artificioso come pure alcuni hanno detto, nel 1745, a Rimini, dal cenacolo scientifico guidato dal naturalista felsineo Giovanni Simone Bianchi (1693-1775), fondatore come Ianus Plancus di una autentica scuola, gran mecenate delle arti e raccoglitore di rimarchevoli collezioni scientifiche, nei suoi palazzi patrizi. La figura e le iniziative di Bianchi furono inoltre di importanza incalcolabile, nel traghettare la cultura scientifica italiana post-galileiana in direzione della nuova scienza inglese di Newton.
Letterato, teologo, canonista, una volta terminati gli studi ad Orvieto, Bianchi viaggiò molto e fu a Roma, Napoli, Ferrara e Milano, in contatto, fra gli altri, con Giusto Fontanini e Agostino Orsi, nonché con esponenti dell’Inquisizione, di fronte ai quali – fingendo di criticarli: classica strategia libertina – difese in più occasioni i rinnovati orientamenti dell’indagine scientifica. Poeta arcade, ed autore di sonetti talvolta licenziosi, indole arguta e polemica, Bianchi fu in eguale misura devoto sia a Minerva sia a Venere: scienze e lettere lo interessavano entranbe, a fondo. Fu colto lettore tanto di Plauto, Terenzio e Cicerone (i classici latini da lui più amati), quanto di Petrarca e Machiavelli, tra i moderni. Figlia della nuova sensibilità sei-settecentesca era di certo in Bianchi – il quale restava per il resto uno scrittore dal gusto stilistico ancora legato agli stilemi del Barocco – la concezione di un uso sociale di scienze e tecniche. Nelle pagine della Storia medica (1751), trattato di neurofisiologia cartesiana, Bianchi mostrò di sapere valorizzare il concreto operare di pratici e di chirurghi (anche parigini). L’approccio doveva essere sperimentale, come gli aveva insegnato il suo maestro nei temi di anatomia comparata ed embriologia, Malpighi, all’Università di Bologna nel 1717. Bianchi era al pari di Malpighi soprattutto un baconiano, fautore di un enciclopedismo, meno radicale di quello di Diderot, ma ugualmente ed esplicitamente anti-peripatetico e anti-dogmatico. Cattolico ma con forti e malcelate simpatie verso la religione protestante inglese, Bianchi fu uno spirito enciclopedico, sul fronte anche degli interessi intellettuali, oltremodo versatili ed ampi: spaziava infatti dall’idraulica all’antiquaria, dalla botanica alla zoologia, dall’archeologia alla numismatica.
Quando Bianchi non era ancora il doctor gloriosus dei suoi anni grandi, quindi durante la fase del suo apprendistato scientifico, i principali centri di cultura e luoghi del sapere – nella Rimini del primissimo Settecento – erano il convento domenicano, la scuola ignaziana e l’accademia fondata dal felsineo Giannantonio Davia (1660-1740), vescovo della città, dal 1698 al 1726, e cardinale, per volere di Clemente XI, dal 1712. Fisico e matematico di rango, anche lui allievo di Malpighi, Davia fu uno dei più grandi eruditi italiani a cavaliere tra il XVII e il XVIII secolo. Possedeva ricchissime collezioni: libri (acquistati da ogni parte d’Europa), strumenti matematico-scientifici, medaglie ed opere d’arte antiche, nonché un gabinetto di storia naturale – incluse curiosità, rariora et mirabilia – tra i meglio attrezzati e più numerosi dell’intero continente. Dottissimo, in ogni ramo dello scibile, amico di Leprotti e dei migliori medici del tempo, il cardinale Davia intraprese una carriera tutta o quasi solo romana: prefetto della Congregazione dell’Indice, partecipò a tre conclavi e da quello del 1730, contrariamente alle previsioni di Montesquieu, fu eletto papa Clemente XII.
Davia fu intellettuale e uomo di scienza di assoluto prim’ordine, fra l’altro il primo a intuire le doti culturali di Bianchi. Quest’ultimo cominciò a dare prova del suo sapere nell’accademia fondata a Rimini dal cardinale, quando era il vescovo della città. Davia favorì in Bianchi quella formazione scientifica estesa alla botanica, alla fisica ed in generale allo studio della natura fenomenica, che era caratteristica delle Facoltà mediche del tempo. Fu Davia a consigliare a Bianchi il viaggio a Padova, nel 1721. I due si ritrovarono poi nuovamente a Rimini, nonostante i frequenti soggiorni di Bianchi a Bologna e Verona (1723), a Roma e Napoli (tra il 1725 ed il 1726), a Firenze e a Pisa (prima nel 1727, e poi nel 1735). Alla morte del cardinale, fu proprio il Bianchi a celebrarlo, con una relazione delle esequie dall’esteso – e utilissimo ancora oggi, malgrado il taglio inevitabilmente encomiastico – apparato biografico, stampato a Venezia nel 1740.


Le altre fonti italiane a stampa e manoscritte

I documenti settecenteschi di prima mano su Bianchi e Davia non mancano, ma vanno cercati con pazienza nei fondi antichi e negli archivi dei nostri centri bibliotecari. Di Bianchi si discorre nel carteggio di papa Benedetto XIV, con il cardinale de Tencin, mentre altre informazioni ci giungono dalle Memorie di Goldoni, dalle Novelle letterarie e dai Memorabilia di Lami, nonché dal Discorso sul fine e utilità dell’accademie (1776) dell’abate giansenista Giovanni Cristofano Amaduzzi (1740-1792). Ques’ultimo, cultore di aritmetica pitagorica, e seguace della teologia naturale newtoniana e lockiana, fu per volere di Clemente XIV docente di eloquenza greca alla Sapienza di Roma e, dietro segnalazione di Bianchi, sovra-intendente alla Stamperia di Propaganda Fide. Di altrettanto rilievo è l’insieme dei commerci epistolari di Bianchi, in rapporto fra gli altri con Alberoni, Haller, Algarotti, Morgagni, Vallisneri, Moro, Cotugno, Perelli, Maffei, Spallanzani, Voltaire, Séguier, Boscovich, Valsalva, Beccari e Leprotti: la crema della cultura scientifica – iatrica, biologica, geologica, fisica ed in generale newtoniana – della prima metà del Settecento. Molto meno utile, perché troppo auto-celebrativa e retorica, l’autobiografia latina stampata anonima da Bianchi, a Firenze, nel 1742 (e poi riedita ancora nove anni più tardi).
Su Davia, invece, disponiamo – oltre che di relazioni epistolari e dispacci manoscritti, di molti ambasciatori piemontesi, liguri e veneziani negli Stati della Chiesa dal 1713 al 1739 – delle lettere a Zambeccari (1715-1728) e a Manfredi (1709-1738) custodite nella Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna (Mss. B 235, 935), ove si conservano anche il Fondo Malvezzi de’ Medici (Cart. 12, n. 17) e la corrispondenza di Davia con Trionfetti (Cart. 27, n. 7). Altro materiale di notevole rilevanza – le Lettere ed osservazioni storico-geografiche scritte da Davia ancora al Manfredi, tra 1716 e 1720, nonché quelle al (futuro) pontefice Lambertini – sono alla Biblioteca Universitaria di Bologna. Una base imprescindibile per ricostruire poi la storia della erudizione storico-ecclesiastica e della cultura scientifico-letteraria, nella prima metà del XVIII secolo, nel passaggio cioè dal razionalismo ai veri e propri Lumi, sono, come noto, le biblioteche private, fondamentali al pari dei carteggi. Il Catalogo della Libreria di Davia è, ancora una volta, presso l’odierno capoluogo felsineo (presso l’Opera Pia Bargellini): una nutritissima collezione di testi scientifici, fisici, matematici, letterari e religiosi.


Il contesto dell’epoca e i suoi protagonisti (1660-1775)

Figlio di uno speziale, Giovanni Bianchi si formò, presso i Gesuiti, studiando diritto, logica, geometria euclidea e letteratura greca. Si laureò nell’ateneo bolognese il 7 luglio 1719. A partire dal 1720, cominciò a mettere assieme nella natia Rimini il primo nucleo di un gruppo scientifico che si allargò, presto, sino a Siena e alla Toscana. Dal 1741 al 1744, incaricatovi dal Granduca, Francesco Stefano di Lorena, Bianchi fu il professore di anatomia umana all’Università di Siena. L’anno dopo, egli rientrò in Rimini, per rifondarvi i Lincei. L’accademia visse, per almeno un ventennio, pertanto sino al 1765, con ventuno membri e trentuno dissertazioni, documentate, sue e dei suoi soci. Tra le mura lincee, Bianchi si consacrò a studi di teratologia (1749) e quindi ad osservazioni sui terremoti ed aurore boreali. Gestendo in prima persona il triangolo accademico Rimini-Bologna-Siena, fu per Bianchi naturale confrontarsi con il galileismo, tra vecchi e nuovi Lincei. Dalle sensate esperienze, come aveva raccomandato il Grande Pisano, si doveva procedere, ora, in direzione delle necessarie dimostrazioni. Anche nella rete dei suoi scritti e contatti accademici, dunque, Bianchi fu alfiere del passaggio dall’empirismo baconiano di inizio Seicento allo sperimentalismo galileiano, rivissuto, da lui e dai suoi sodali, nell’ambito della storia naturale soprattutto. Lo scopo ultimo era salvaguardare e celebrare il trionfo del metodo scientifico di Galileo, in particolare, tra Rimini e Bologna, pertanto entro spazi socio-culturali e politico-religiosi soggetti all’autorità della Chiesa romana. In una sua, giustamente famosa, lettera al Muratori, Bianchi affermò di desiderare «che i giovani, fino che sono in una certa età, non si divagassero tanto nella lettura di molti libri, ma vorrei che, avendo coltivato lo studio delle lingue erudite, cioè della greca, della latina e anche della nostra vulgare, stassero intenti a studiare unicamente per alcuni anni il bel libro della natura, i cui caratteri sono gli angoli, i triangoli, i quadrati, i circoli, le ellissi, i coni, i cubi, i cilindri e l'altre figure tutte, sì piane che solide. con gli esperimenti e con le osservazioni prese dalla notomia, dalla buona chimica, dalla astronomia e e da tutte l'altre arti utili al genere umano, si pongono certi fondamenti per le scienze tutte, senza de' quali è vano ogni nostro sapere».
Al Muratori, il Bianchi magnificava l’universo squadernato dal Saggiatore galileiano, questo «grandissimo libro [...] scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intendere umanamente parole; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto». I medici, traducendo in fatti il magistero di Galileo, dovevano, infine, rivolgersi ad un’arte iatrica pratica, non ad una «anatomia cartacea», analoga alla «astronomia cartacea», già condannata senza appello da Galileo. E’ molto significativo che Bianchi scelga come interlocutore di questa programmatica dichiarazione di intenti metodologici Muratori: questi, già allievo di padre Bacchini, e tra i principali corrispondenti della cultura settecentesca, sia negli antichi Stati italiani, sia al di fuori di essi, era il Galileo della storiografia, il promotore di una azione profonda ed innovatrice in seno alla cultura dello stivale, da porre in moto, proprio seguendo l’esempio della nuova scienza. Questa, iniziata dal galileismo, era stata poi portata avanti, specie dai newtoniani: il migliore e più aggiornato fronte scientifico d’Inghilterra e di Europa, che gli studiosi italiani di cose naturali avevano adesso il compito e il dovere d’impiantare al di qua delle Alpi.
Altro frutto dei rinati Lincei furono le osservazioni sul mare che Bianchi aveva iniziato già nel 1734 e che in accademia condusse a compimento. Il De conchis liber dedicato ai forammiferi e dato alle stampe dal Pasquali in laguna aveva, d’altra parte, fatto conoscere Bianchi alla Repubblica delle Lettere europea, con larga eco di pareri favorevoli. Ulteriore aspetto del galileismo di Bianchi è da vedere nella sua adesione al corpuscolarismo: non peraltro l’atomismo democriteo, ma il giardino di Epicuro – un Epicuro conosciuto, quasi sicuramente, attraverso la lettura di Diogene Laerzio – il cui mondo fu aperto al dotto riminese anche dai libri fieramente anti-aristotelici di Gassendi, Descartes, e dei geometri newtoniani anglo-britannici. Per anni, Bianchi lesse attentamente le loro pagine e si convertì, in via definitiva, alla meccanica razionale newtoniana dei fisici e matematici inglesi. Nella investigazione medico-anatomica, la cosa equivaleva per lui a rinunciare ad Avicenna e Galeno, per abbeverarsi alla fonte di un rinnovato sapere, quello inaugurato dal De humani corporis fabrica del fiammingo Andrea Vesalio nel 1543, e completato, poco dopo metà del Settecento, dal malpighiano Morgagni in area veneta, tra Padova e Venezia.
Nel corso del soggiorno a Siena, Bianchi aveva curato la ristampa del Phytobasanos di Fabio Colonna (1567-1650), trattato di botanica divenuto raro. Lo aveva annotato e vi aveva premesso una sua biografia di Colonna ed una storia dell’Accadernia dei Lincei, con l’elenco degli accademici: il libro fu stampato a Firenze nel 1744. Fu probabilmente anche riconsiderando i meriti scientifici dei Lincei ch’era maturata in lui l’idea di ripristinarla, come effettivamente fece nella sua casa riminese, nel novembre del 1745, aggregandovi gli allievi migliori e chiamando a farne parte vari studiosi, di più discipline. Bianchi assunse per sé il titolo di Lynceorum restitutor perpetuus, indicativo del suo gusto di antichista, così come la medaglia fatta eseguire a ricordo del rinomato accadimento.
Bianchi trovò ed ebbe il suo mentore, come detto, nel cardinale Davia. Questi, laureatosi – in utroque iure – nella sua Bologna, prima magistrato della città, e poi venturiere in terra veneta, fece la sua parte, in veste di soldato, alla presa dell’Isola di Santa Maura, strappata nel 1684 al Turco. Si trasferì a quel punto a Roma: fu poi nunzio apostolico a Bruxelles (1687), Colonia (1690), Cracovia (1696) e Vienna (1697). Fine diplomatico ed ambasciatore della Santa Sede, grande conoscitore dei salotti europei, uomo di corte e raffinato conversatore, amante del bel mondo e dei costumi nobili, Davia entrò in contatto con l’astronomia, negli anni giovanili, trascorsi anche presso l’Università di Torino. Fatto ritorno a Bologna, vi stabilì un fruttuoso sodalizio, con l’ambiente scientifico, specie con l’astronomo galileiano Geminiano Montanari. Un legame che è testimoniato anche dal Dialogo fisico-matematico sulle forze d’Eolo, trattato montanariano del 1686, poi pubblicato a Parma (1694) dal veronese Francesco Bianchini e dedicato ai moti vorticosi dei fluidi: di fatto, uno dei primissimi lavori moderni di idrodinamica, in largo anticipo su Eulero e d’Alembert.
Il 1681 fu nella vita di Davia l’anno di svolta: egli intraprese infatti il proprio Grand Tour, in Francia a Parigi e poi, attraversata la Manica, in Inghilterra. A Londra, fu accolto e presentato, alla Royal Society, da Robert Hooke, l’allora dimostratore sperimentale dell’accademia inglese. Ritornò in patria a dicembre, nominatovi ufficiale delle acque a Bologna. Tre anni dopo, si arruolò in qualità di ingegnere militare, in Morea, imbarcandosi su una delle quattro galee armate da Cosimo III. Partì da Napoli, transitò per Corfù e marciò nell’entroterra, con il contingente granducale, sino alla presa di Prévesa: una vittoria, insieme, toscana e veneziana. Portatosi nella Roma papale, Davia si dedicò a scienze e collezionismo, stringendo legami proficui con gli accademici laziali. Nel 1687, divenne, all’interno della curia romana, un diplomatico e uomo politico ascoltatissimo, sempre in bilico tra il (nascente) cattolicesimo illuminato ed il rigorismo del Sant’Uffizio. Sia pure senza mai eccedere, il prelato felsineo avallò, allora, l’operato della Congregatio secreta virorum doctorum catholicorum orthodoxorum ad accusationem Iansenistarum, che monitorava, in particolare, la situazione in corso a Malines e a Lovanio. Prudente e all’occorrenza critico, Davia mediò tra giansenisti belgi e autorità pontificia. Assai apprezzato dalla curia romana, fu consacrato vescovo di Tebe nel giugno del 1690, e inviato in Polonia, alla corte di Re Giovanni III, per sanarvi il dissidio in atto tra il partito francese e quello asburgico, legati il primo a Re Federico Augusto II di Sassonia ed il secondo al Principe di Conti. Dopo essersi accertato della loro abiura del luteranesimo, Davia assecondò i sassoni, e favorì la vittoria della fazione di Augusto II. Quindi Davia si trasferì temporaneamente in Slesia e ritornò a Rimini, prottetovi dal nuovo papa, Innocenzo XI, continuando a interessarsi della tolleranza verso le popolazioni cattoliche delle zone tedesche. Allo scoppio della Guerra di Successione spagnola, egli era in Austria e si mantenne neutrale in linea con il suo pontefice. Presso la corte imperiale, Davia si prodigò in favore del casato degli Hannover ed entrò, per questo, in rapporti con Leibniz. Alla metà di luglio del 1705, Davia riparò a Wiener-Neustadt e, l’anno seguente, fece ritorno in Emilia. Tanto l’Imperatore quanto il Papa si dichiararono nel complesso contenti di lui e della sua azione.
Il periodo compreso tra il 1711 e il 1724 vide Davia impegnato, in visite pastorali e sinodi, ma anche in ritrovati e prepotenti interessi, di tipo scientifico e tecnico, incoraggiato dal rimarchevole sviluppo culturale dei milieux felsinei. Davia allacciò strette relazioni intellettuali con l’Istituto delle Scienze di Bologna, la principale accademia negli Stati della Chiesa, allora in prima linea nell’opera di introduzione in Italia – non solo centrale, ma anche settentrionale (a Treviso, con Iacopo Riccati) e meridionale (qui, grazie a Celestino Galiani, il cappellano maggiore del Regno di Napoli) – della nuova scienza ottica e gravitazionale newtoniana, proveniente dalla Gran Bretagna. Davia donò vari suoi strumenti e pregevoli, quanto utili, apparecchiature all’Istituto delle Scienze. Collaborò poi, in campo astronomico, alle osservazioni dei newtoniani Bianchini e Manfredi, arricchendo la sua gran biblioteca scientifica personale e tenendo a battesimo il giovane Bianchi. Prima ancora di esser fatto cardinale, egli era già notissimo, anche all’estero, presso i dotti e illuministi europei della società di antico regime.
Passato a Roma, Davia vi diventò presto un punto di riferimento per molti scienziati, fornendo loro protezioni ed appoggi per aggirare la censura. Del resto, egli poteva agire dall’interno. Divenne in un breve arco di tempo amicissimo del Galiani, sostenitore e del newtonianesimo e della teologia naturale anglo-britannica (quella di Derham e Hawksbee, che proprio Galiani fece voltare in italiano a Firenze, nel 1716: una stampa clandestina che appartiene appieno alla storia della scienza, nonché, congiuntamente, a quella del nostro primo Illuminismo cattolico). Sempre indulgente, nei confronti dei giansenisti romani ed europei, il cardinale potenziò e rinvigorì gli studi scientifici ed umanistici, nel mondo universitario romano, chiamando fra gli altri ad insegnare Leprotti, un filosofo naturale e medico tuttora da riscoprire, corrispondente fidato pure di Bianchi. A quest’ultimo, Davia manifestò il suo amichevole supporto nel dare vita ad una istituzione accademica in Rimini, destinata a essere, un lustro soltanto dopo la morte del cardinale, il gruppo scientifico dei nuovi Lincei. Infine, Davia, nel 1715, fu nominato dal papa, col sostegno della corte imperiale, prima legato pontificio a Urbino, e poi protettore del Regno d’Inghilterra. Nella città urbinate, il cardinale conobbe infatti re Giacomo III ed i seguaci della causa stuardista (che, tra Olanda e Francia, aveva conquistato anche Bianchini, prima del suo viaggio inglese, nel gennaio 1713). Da quel momento, Davia fu in strette relazioni, di carattere religioso e politico, con il movimento giacobita, che annoverava sostenitori in Irlanda ed in Scozia, in Piemonte e negli Stati pontifici, in Austria e nelle Colonie inglesi d’America: le stesse in cui – già a fine Seicento, ad Harvard e nel New England – aveva preso precocemente piede il verbo scientifico galileiano, confermato da quel newtonianesimo britannico del quale Davia, Bianchini ed infine lo stesso Bianchi furono apostoli, entusiasti ed insieme cauti, nel nostro maturo e sconosciuto Settecento.


Nell'immagine, Frontespizio del De conchis Liber (1739) di Giovanni Bianchi.


Bibliografia

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Documento inserito il: 05/11/2023
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