Cookie Consent by Free Privacy Policy website Tutto storia, storia contemporanea: La strage di Villerbasse e l'ultima condanna a morte eseguita in Italia per reati comuni
>> Storia Contemporanea > Il secondo dopoguerra

La strage di Villerbasse e l'ultima condanna a morte eseguita in Italia per reati comuni

di Umberto Diana


Nei diritti penali di tutto il mondo la pena capitale fu da sempre riservata alla riparazione di delitti di efferata violenza e, per fortuna, nei tempi attuali essa é considerata più sinonimo di vendetta che di effettiva giustizia.
Anche in Italia l'applicazione della pena di morte ha seguito un tortuoso cammino giuridico che ha visto la sua regolare comminazione nel Regno fino al 1869, quando venne abolita fino al 1926 quando il regime fascista la reintrodusse per suggellare il clima repressivo che lo distingueva, Finalmente il Luogotenente del Regno Umberto II ne limitò l'applicazione ai soli reati militari ma fu costretto, nel maggio 1945 dalle pressioni anglo americane, a reintrodurla per arginare la grande quantità di odiose vendette che insanguinarono il paese all'indomani della Liberazione.
La pena capitale viene espressamente vietata dall'articolo 27 della nostra Costituzione del 1948, ma rimarrà applicabile nel Codice Militare di guerra fino addirittura al 1994 quando anche per i reati commessi in periodo bellico venne sostituita dalla pena dell'ergastolo che diventa pertanto la pena massima cui si può essere condannati in Italia a seguito di qualunque reato commesso sia in tempo di pace che in tempo di guerra.
Può essere interessante osservare come lo Stato della Città del Vaticano abbia provveduto solo nel 2001 con Giovanni Paolo II a rimuovere dalle sue Leggi Fondamentali l'istituto della pena di morte anche se non veniva applicata dal lontano 1870.
Nel nostro paese l'ultima esecuzione per reati comuni venne sentenziata nel 1946 per punire un efferato fatto di cronaca nera passato alla storia come "La strage di Villerbasse".


LA CRONACA

Il 20 Novembre 1945 l'avvocato 65enne Massimo Gianoli, dirigente AGIP e proprietario della Cascina Simonetto posta a Villerbasse in Provincia di Torino, stava cenando servito dalla domestica Teresa Delfino. A fianco della casa padronale il fattore Antonio Ferrero in compagnia di sua moglie ed altre quattro persone ed un bimbo di due anni era intento a festeggiare la prossima nascita di un nipotino.
Improvvisamente quattro banditi Francesco La Barbera, Giovanni Puleo, Giovanni D'Ignoti e Pietro Lala fecero irruzione nel casale.
Occorre dire che Pietro Lala all'epoca degli eventi si faceva chiamare Francesco Saporito, aveva per qualche tempo lavorato come garzone all'interno della cascina e può essere pertanto considerato il basista della banda conoscendo luoghi ed abitanti.
Il loro intento era naturalmente di compiere una rapina poiché erano al corrente che il proprietario era solito tenere con sé ingenti somme di denaro.
Nella concitazione del momento, a Pietro Lala cadde la maschera con la quale i malviventi si erano coperti il viso e venne pertanto riconosciuto dai commensali sequestrati.
I criminali decisero allora che era inevitabile sopprimere tutti i malcapitati e ad uno ad uno li portarono in cantina dove, dopo averli colpiti a bastonate, li gettarono ancora vivi in una profonda cisterna per la raccolta dell'acqua piovana dove trovarono una morte orribile preceduta da una lunga agonia. Solo una delle vittime, ex partigiano, tentò una reazione riuscendo a ferire al volto La Barbera, senza peraltro riuscire a fermarne la furia.
Venne risparmiato solo il bambino e gli assassini fuggirono dopo avere sottratto 200.000 lire, un paio di orecchini d'oro, quattro salami, tre paia di calze di nylon e dieci fazzoletti.
La banda si sciolse e Giovanni D'Ignoti riprese a Torino la vita di tutti i giorni mentre gli altri rientrarono in Sicilia dove Lala fu ucciso in un regolamento di conti di stampo mafioso che nulla aveva a che fare con la strage compiuta in Piemonte.
Nel frattempo il ritrovamento del bimbo e l'assenza dei dieci abitanti della cascina allarmarono naturalmente i vicini che allertarono le autorita' competenti le quali in un primo momento pensarono ad un rapimento di massa a fini estorsivi, ma il 28 Novembre il giovane mugnaio Enrico Coletto durante un sopralluogo si calò nella cisterna e rinvenne i dieci cadaveri.
Occorre sottolineare un risvolto politico della vicenda: essendo i fatti avvenuti nell'immediato dopoguerra, la giurisdizione era della polizia anglo americana e non dell'autorità italiana e gli alleati partirono immediatamente con la fallace convinzione che si trattasse di una strage compiuta per una vendetta partigiana attribuibile a circoli comunisti della zona che intendevano procedere ad un non chiaro regolamento di conti con l'avvocato Gianoli.
Venne a questo scopo decretato lo stato d'assedio nel circondario di Villerbasse e rastrellato con l'impiego di mezzi corrazzati l'intero territorio collinare alla ricerca di una inesistente cellula terroristica.
Per fortuna a dicembre del 1946 la "tutela" cessò e l'autorità italiana poté riappropriarsi delle indagini.
Il primo indizio importante rinvenuto dai carabinieri che agivano sotto il comando del giovane tenente Armando Loso fu una giacca recante la scritta Caltanisetta che portò gli investigatori a supporre dell'origine siciliana degli assassini, fatto che però in un primo momento portò all'arresto di persone completamente estranee, come un ex partigiano siciliano che aveva combattuto a Vilerbasse prima di fare ritorno a Caltanisetta che riuscì non con pochi sforzi a dimostrare la sua innocenza.
Con un attento lavoro che oggi si definirebbe di "intelligence", gli inquirenti si imbatterono in un certo signor Domenico Napoli presso la cui abitazione furono trovati abiti compatibili con quelli trovati sul luogo del delitto ed appartenenti ad un suo amico certo D'Ignoti nella cui soffitta di Rivoli venne rinvenuto un frammento di tessera annonaria che combaciava perfettamente con quella persa dai banditi sul luogo della strage. Naturalmente l'individuo fu arrestato e abilmente gli venne fatto credere che i suoi complici fossero già caduti nelle mani dei carabinieri e che quindi una completa confessione avrebbe potuto agevolare la sua posizione.
Lo stratagemma funzionò ed in pochi giorni gli altri colpevoli furono assicurati alla giustizia.


IL PROCESSO E LA CONDANNA

Il 5 Luglio 1946 a Torino si aprì il processo penale in un clima difficile per il Paese, appena passato da Regno a Repubblica e anche giudizialmente tutto era "work in progress".
La Costituente cominciava i suoi lavori ma sul fronte del diritto penale vigeva il Codice Rocco e anche se nel 1944 il Luogotenente del Regno Umberto II aveva abolito la pena capitale per reati non militari, nel maggio 1945 essa era stata reintrodotta per punire reati di particolare efferatezza con lo scopo di frenare il dilagare di vendette e regolamenti che erano esplosi all'indomani della Liberazione.
Gli accusati durante il dibattimento tennero atteggiamenti odiosamente sprezzanti nei confronti dei giudici, che quindi volentieri si avvalsero di questa " finestra giuridica " per comminare loro il massimo della pena possibile, quella capitale.
La difesa non riuscì ad ottenere alcuna attenuante che potesse impedire l'esito nefasto, e neppure il disperato ricorso alla Grazia Presidenziale ottenne risultati: Enrico De Nicola, Capo provvisorio dello Stato, si guardò bene dal concederla respingendo l'istanza dopo appena due giorni dalla sua presentazione, ritenendo che l'epilogo della vicenda fosse il giusto contrappeso a quanto commesso dai rei.
Il 4 Marzo 1947 venne predisposta la "cerimonia" dell'esecuzione attraverso la fucilazione dei condannati.


L' ESECUZIONE

Essi furono tradotti al Poligono di tiro dello Stura alla presenza di un folto gruppo di testimoni convocati dal Tribunale in qualità di macabri notai e non mancò il rischio di aggiungere una undicesima vittima alla strage in quanto una testimone, la signora Leopoldina Ferrero a causa della tensione e della violenza degli avvenimenti, ebbe una crisi cardiaca da cui si salvò solo per il tempestivo intervento dei medici militari presenti sul luogo.
Uno dei più grandi giornalisti italiani del secolo scorso, Giorgio Bocca, venne inviato come giovane redattore di un giornale di provincia ad assistere alla fucilazione e scrivere il relativo articolo di cronaca: egli avrà a dire in seguito che gli avvenimenti di quella mattina lo segnarono per il resto della sua vita.
Nei momenti precedenti l'epilogo, La Barbera e Puleo lanciarono slogan in favore della Sicilia libera ed in onore di Finocchiaro Aprile, un separatista che inneggiava nell'800 all'indipendenza dell'isola, il D'Ignoti invece urla le proprie preghiere tenendo nervosamente tra le mani un Rosario.
I condannati furono legati mani e piedi alle sedie e furono uccisi dalla scarica sparata dai 36 uomini del plotone di esecuzione dell'Arma dei Carabinieri i cui fucili sono per metà caricati a salve, in modo da non avere mai la certezza di avere effettivamente ucciso e fare insorgere un eventuale rimorso di coscienza.
E' questa l'ultima condanna a morte eseguita in Italia per reati comuni, il giorno successivo a La Spezia furono fucilati per crimini di guerra, l'ex questore Emilio Battisti, l'ex maresciallo Aldo Marelli e l'ex SS italiano Aurelio Gallo, riconosciuti responsabili della deportazione nei campi di concentramento nazisti di migliaia di persone.


Nell'immagine, in primo piano, con le catene alle mani e ai piedi, i tre condannati a morte per la strage di Villebasse poco prima della fucilazione.

Documento inserito il: 30/06/2025
  • TAG:

Note legali: il presente sito non costituisce testata giornalistica, non ha carattere periodico ed è aggiornato secondo la disponibilità e la reperibilità dei materiali. Pertanto, non può essere considerato in alcun modo un prodotto editoriale ai sensi della L. n. 62 del 7.03.2001.
La responsabilità di quanto pubblicato è esclusivamente dei singoli Autori.

Sito curato e gestito da Paolo Gerolla
Progettazione piattaforma web: ik1yde

www.tuttostoria.net ( 2005 - 2023 )
privacy-policy