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Libera Nos, Domine [ di Giulio Talini ]

Come la Peste Nera cambiò il volto dell'Europa medievale

IL TRIONFO DELLA MORTE

Tra il 1347 e il 1351 la Peste si portò via sul suo carro funesto una porzione paurosa della popolazione europea (secondo la gran parte delle stime, circa un terzo degli abitanti del continente). Era venuta a Messina a bordo di una flotta proveniente da Caffa, base commerciale genovese sul Mar Nero, dove il morbo aveva iniziato a diffondersi dall'esercito mongolo che la assediava. Nel giro di un anno il flagello aveva toccato quasi ogni angolo d'Europa, trasportato ovunque dai fiorenti commerci, i pellegrinaggi, i numerosi conflitti.
Le piazze e le strade delle città si riempirono di cadaveri. Solo a pochi fortunati infatti toccò una degna sepoltura: quasi tutte le vittime passarono all'altro mondo senza nemmeno il pianto dei cari. Si moriva in pochi giorni e ci voleva ancora meno per contrarre la malattia: le vie della “peste nera”, come quelle dell'Onnipotente, erano infinite. Alcuni vedevano nell'onda mortifera un segno della collera di Dio; altri parlavano di congiunzioni astrali; altri ancora puntavano il dito contro ebrei e lebbrosi. Oggi sappiamo che la causa della pestilenza era un bacillo, chiamato Yersinia pestis, trasmesso all'uomo dalla Xenopsilla cheopis, una pulce parassita dei ratti. Ma ciò che per la scienza medica contemporanea appare scontato, all'epoca non era neanche lontanamente immaginabile.
A turbare enormemente i medievali, al di là delle cause, era il fatto che né il denaro, né il potere, né le cariche politiche costituivano una valida via di scampo dal morbo. Re, nobili, vescovi, mercanti, contadini e perfino animali perivano indistintamente sotto la falce impietosa della Morte Nera, simile a una gelida livellatrice. Con sguardo ben più lucido e disinteressato, la storiografia più recente ha rivelato quanto diversificate e complesse furono in realtà le vicende seguite a questo cataclisma epocale, tutt'altro che omogeneo. Per dirla con Adriano Prosperi, “nella storia umana, niente, nemmeno la morte, è uguale per tutti”.

CACCIA ALL'UNTORE
Una trattazione che intenda descrivere gli effetti socio-economici della Peste Nera non può che prendere le mosse dalle interpretazioni che della piaga diedero i contemporanei e da coloro che furono additati come colpevoli. Potrà sembrare un aspetto tutto sommato marginale, vista la scarsa rilevanza della gran parte delle numerosissime spiegazioni dell'evento, dimenticate appena dopo esser state teorizzate. A ben vedere però è un tema non secondario per lo storico, non solo perché è in grado di mostrare il modo di pensare dell'uomo del Basso Medioevo, ma soprattutto perché aiuta a comprendere con chiarezza le conseguenze più “immediate” della pandemia.
Il Boccaccio, che la Peste la vide coi suoi occhi, enuncia nel suo Decameron le due tesi fondamentali sull'origine del morbo: “l'operazion de' corpi superiori” e la “giusta ira di Dio” per le “nostre inique opere”. La prima fa riferimento alle numerose teorie che ponevano l'accento su fenomeni astronomici, tra cui quella di alcuni dotti arabi secondo i quali la posizione dei corpi celesti poteva aver fatto in modo che i miasmi e le putrefazioni situate nelle profondità della terra fossero risaliti in superficie, provocando l'epidemia. La seconda ipotesi riguarda invece una punizione che Dio, per mezzo della Peste Nera, avrebbe inflitto a un'umanità profondamente lontana dai suoi precetti e dalla sua morale. Su queste e su molte altre possibili spiegazioni si affannavano dotti, filosofi e chierici di tutto rispetto, senza tuttavia addivenire ad una soluzione definitiva.
Ma quale fu l'opinione delle masse? L'idea che dietro alla Peste Nera ci fosse la mano di Dio ebbe inizialmente un successo notevole. Lo testimoniano l'aumento vertiginoso del numero di iscritti nelle confraternite religiose e i frequenti lasciti testamentari destinati all'abbellimento e alla ricostruzione di edifici di culto. Non è un caso che nelle liturgie fu introdotta l'invocazione disperata: “A peste, fame et bello / libera nos Domine”. Tuttavia il moltiplicarsi delle vittime, unitamente ai fallimenti della medicina e della preghiera, condussero a una esasperazione tale da far ricercare altri colpevoli. E, come sempre accade, furono presi di mira i più deboli, i “diversi”: lebbrosi e, soprattutto, ebrei.
Sui “perfidi Giudei” in particolare si riversò la gran parte della sete di sangue di intere folle prostrate dalla peste bubbonica. Un primo episodio, tragico, si verificò a Tolone, tra il 13 e il 14 aprile 1348, dove una quarantina di Ebrei vennero massacrati furiosamente. Nel giro di poco fatti di cronaca come questo divennero la normalità. Le minoranze ebraiche di tutta Europa tremavano sotto la minaccia dello sterminio, dell'espulsione o di processi dai tratti farseschi. Vani furono i tentativi del papa, Clemente VI, e delle autorità cittadine di affermare l'innocenza degli ebrei. Ad avere successo potevano essere solo coloro che cavalcavano in pieno l'inarrestabile ondata d'odio, facendo leva, in quegli anni di isteria collettiva, sulle paure più antiche e radicate nelle fasce basse della società, sulla naturale irrazionalità che conquista gli uomini in ogni catastrofe. Nell'intento riuscirono benissimo i Flagellanti, gruppi di individui che giravano per le città dell'Europa centrale frustandosi la schiena e incitando a trucidare gli ebrei. Le loro argomentazioni erano piuttosto semplici: gli infidi amici di Giuda, ancora sporchi del sangue di Cristo, avevano avvelenato i pozzi, dando inizio all'epidemia, e perciò meritavano la morte, unica via di purificazione. Per quanto drastiche, le prediche degli esponenti di tale movimento non potevano trovare terreno più fertile: se da un lato appagavano gli animi bollenti delle masse incolte perennemente alla ricerca di uno sfogo, dall'altro guadagnavano il consenso di alcuni esponenti delle classi più agiate che approfittavano delle persecuzioni contro gli ebrei per trarne profitto in termini economici, impadronendosi dei loro beni.
Eccezione d'onore, una volta tanto, fu l'Italia. Per capire in che senso però dobbiamo partire da quanto scrisse lo storico fiorentino Giovanni Villani (1276-1348), autore della “Nuova Cronica”, da lui lasciata incompiuta proprio perché caduto vittima del morbo. Come in quasi tutti i cronisti italiani che hanno raccontato la Peste Nera, il flagello fu da lui inquadrato in un più ampio sfondo apocalittico, fatto di cupi presagi come comete, terremoti, carestie. Di ebrei, tuttavia, neanche l'ombra. E non si trattava di un caso: il fatto che i cronisti italiani come il Villani omettessero o, in parecchi casi, confutassero le accuse ai “perfidi Giudei” riflette l'atteggiamento ben più tollerante che si registra in tutta la penisola italiana verso di loro. Le persecuzioni, i massacri, i processi rimasero nulla più che occasioni isolate, senza alcun seguito rilevante. Perché, verrebbe da chiedersi? I motivi potrebbero essere stati essenzialmente due. In primo luogo, l'Italia era una realtà frammentata, sia da un punto di vista etnico, sia sotto il profilo politico: come poteva un territorio privo di identità nazionale percepire come estranea una delle moltissime minoranze che lo abitavano? Secondariamente, ma non per importanza, gli ebrei e le loro attività economiche avevano tutte le carte in regola per integrarsi alla perfezione nella realtà cittadina italiana, fatta di commercianti e di traffici, di prestatori di denaro e di artigiani.
Culmine dell'ondata di abbrutimento furono l'ingresso nella cultura popolare di una serie notevole di inedite figure maligne e la riesumazione di leggende sepolte negli abissi della memoria. Sembra che fosse proprio il 1350, come spiega Jean-Claude Schmitt, l'anno in cui una serie di temi che separatamente avevano a che fare con la stregoneria si condensarono nello stereotipo della strega, destinato ad avere molta fortuna in Europa. Il collegamento immediato con la Peste Nera non è certo, ma altamente probabile. Il fenomeno, d'altro canto, parrebbe perfettamente coerente con la sete di sangue colpevole di quegli anni.
Ma non tutti si affannarono a dar la caccia agli untori. Alcuni, infatti, certi che prima o poi il carro funesto della Morte se li sarebbe portati via, abbandonarono i freni che la società medievale imponeva e, in una sorta di oraziano “carpe diem” portato alle estreme conseguenze, dedicarono i loro ultimi giorni di vita terrena ad assaporare il peccaminoso gusto della lussuria. Ancora una volta dobbiamo affidarci alle parole di Boccaccio: “Altri […] affermavano il bere assai e il godere e l'andar cantando a torno e sollazzando e il sodisfar d'ogni cosa all'appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male”.

LE CITTA' E LE CAMPAGNE: NUOVI RAPPORTI
Accanto alle conseguenze immediate del morbo troviamo dei cambiamenti duraturi che questo portò con sé. Dopo la Peste Nera nessun villaggio, città o regione rimasero gli stessi. Marx la inserì tra i punti salienti della grande Crisi del Trecento, da lui interpretata come il cominciamento del turbinio di eventi che avrebbe condotto al definitivo collasso del sistema feudale. Un po' in tutta Europa, in effetti, si registrano novità, in primis nei rapporti sociali ed economici. Ma, sebbene il pensiero marxista possa al riguardo trarre in inganno, i mutamenti furono di entità e importanza diverse, a seconda dell'area geografica.
In Europa centrale e orientale la nobiltà feudale reagì duramente ai malcontenti delle masse contadine, attraverso un deciso inasprimento del controllo sociale. Da questa si distinse la situazione nelle campagne e nelle città delle aree mediterranee, dove, da un lato, mercanti e banchieri, in cerca di maggiore sicurezza, volsero le loro mire alle zone rurali sostituendosi spesso alla nobiltà locale; dall'altro in molti casi le famiglie contadine, spinte dalla necessità, dovettero provvedere come prima cosa al loro sostentamento, praticando una produzione agricola finalizzata prevalentemente all'autoconsumo.
Di particolare interesse furono i mutamenti verificatisi nell'Europa atlantica e inglese, dove la Peste Nera, che si aggiungeva ai continui conflitti (per dirne uno: la Guerra dei Cento Anni) e al fiscalismo spietato praticato dalle autorità politiche, condusse ad un drastico indebolimento della nobiltà feudale, che dovette assistere impotente al ridimensionamento della sua autorità. Spostato il baricentro della realtà sociale, i vuoti di potere furono colmati prevalentemente da ricchi borghesi alla ribalta. Ai contadini, come di solito accade, toccò una sorte ben più misera. Stremati dalle continue pestilenze, dalla tassazione e dalle devastazioni della guerra si riunirono in gruppi, seguirono predicatori che promettevano il riscatto sociale e la vendetta e imbracciarono armi o, se non ne avevano, bastoni. Uno dei tumulti principali in quell'area d'Europa fu la Jacquerie francese del maggio 1358. Condotta da un certo Guillaume Charles, la massa di braccianti in rivolta partì dall'Ile-de-France e da lì si estese a macchia d'olio alle zone limitrofe. “Questa è la verità: vergogna a chi non vuole la morte dei nobili” mugugnavano quei contadini furibondi, secondo il racconto del Froissart. Ma il sogno durò poco: i signori delle campagne ebbero facilmente la meglio su quella banda di disperati, che morirono, pare, in 20000. E analoghe considerazioni potrebbero farsi con riguardo alla rivolta inglese del 1381 e a molte altre, tutte accomunate, oltre che da un esito poco felice, dal primo germe di una coscienza “di classe” che condusse il semplice lavoratore o contadino a richiedere condizioni lavorative migliori, salari più alti e una pressione fiscale ridotta.
Quel che all'epoca della Peste Nera nessuno poteva sapere era che il bacillo del morbo avrebbe continuato a serpeggiare indisturbato e silenzioso, colpendo periodicamente questa o quella città. Basti pensare a Firenze, piegata da altre epidemie nel 1363, 1371, 1374, 1390 e 1400. Se nei centri urbani, dove un gran numero persone si era insediato per sfuggire al morbo e alle guerre, ogni diffusione della pestilenza aveva conseguenze esiziali, nelle campagne, a poco a poco, il calo demografico lasciò vaste terre abbandonate. Ecco perché spesso accadeva che le autorità politiche cercassero di attirare contadini da altre regioni affinché questi si curassero delle zone rurali lasciate al loro destino per via della peste e, al contempo, di impedire che i coltivatori loro sudditi andassero a cercar fortuna altrove, abbandonando i rispettivi fondi. Tuttavia, la legge non influì minimamente sulle migrazioni e gli spostamenti del contado, ben lungi dal lasciarsi scappare ghiotte occasioni di arricchimento. La disubbidienza alle autorità non si spiega solo con la materiale difficoltà per le istituzioni politiche di mantenere intatti gli apparati giudiziari e militari: la Peste Nera, in un certo senso, mutò anche la mentalità. Il morbo alla lunga aveva decimato la popolazione europea, ma non solo i peccatori né tanto meno solo i poveri. Morivano tutti, indipendentemente da quanto importanti fossero. Questa morte beffarda si prendeva gioco dell'umanità intera e, in definitiva, ne svalutava l'importanza. Non è un caso che dopo la Peste Nera il tema delle arti figurative (che già esisteva) noto come “Trionfo della morte” divenne tra i più richiesti. Un celeberrimo esempio, sebbene di poco anteriore alla Peste del 1348, è l'affresco di Buonamico Buffalmacco, che si trova al Camposanto di Pisa: sotto la Morte, di aspetto terrificante, giacciono i corpi esanimi di villani, servi, imperatori, principi, pontefici: tante glorie e miserie terrene, un solo destino.

UN PASSO VERSO IL RINASCIMENTO?
La popolazione europea, dopo la Peste Nera (e i successivi strascichi), diminuì di quasi un terzo. Degli 80 milioni di individui che abitavano il continente agli inizi del XIV secolo ne morirono circa 25 milioni, con tassi di mortalità arrivati in alcune zone addirittura al 50%. L'Italia, che era una delle regioni più popolose d'Europa, passò dai 9,3 milioni di abitanti del 1340 ai 5,5 milioni di abitanti del 1400 (una diminuzione del 40,9%!). Una crisi “malthusiana” in piena regola, si potrebbe dire. Solo in poche aree, come nel Regno di Polonia o a Milano, gli effetti in termini demografici furono nulli o esigui.
Di fronte alle cifre, diventa una certezza: fu una catastrofe. Ma può essere sufficiente limitarsi a questa semplice constatazione, tenuto conto dei cambiamenti socio-economici che la Peste Nera provocò? A causa della pandemia, mutarono i rapporti nelle città e nelle campagne e, soprattutto, il modo di pensare comune. L'intero sistema sociale del Basso Medioevo fu messo in discussione per la prima volta, in tutte le sue componenti, e quel che stupisce è che a farlo furono principalmente gli umili lavoratori, i servi, i contadini, i braccianti. Gli ultimi, insomma. E sulla crisi delle millenarie certezze del mondo medievale si sarebbe poi costruita la rinascita. Meglio: il Rinascimento.


BIBLIOGRAFIA – Adriano Prosperi, “Dalla Peste Nera alla guerra dei Trent'anni” in “Storia moderna e contemporanea”, Einaudi, Torino, 2000;
– Giovanni Villani, “Nuova Cronica”;
– Giovanni Boccaccio, “Decameron” a cura di Vittore Branca, Mondadori, Milano, 1985;
– Jean-Claude Schmitt, “Medioevo superstizioso”, Editori Laterza, Bari, 1992;
– William H. McNeill, “La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall'antichità all'età contemporanea”, Einaudi, Torino, 1981;
– Camillo Di Cicco, “Storia della Peste da morte nera ad arma biologica”, Createspace, 2014;
– Catia Di Girolamo, “La peste nera e la crisi del Trecento” in “Il Medioevo” a cura di Umberto Eco, Vol. 7, pp. 147-156, Federico Motta Editore, Milano, 2009;
– “The Black Death. The History and Legacy Of The Middle Ages' Deadliest Plague”, Charles River Editors, 2014.

Nell'immagine Danza Macabra, il trionfo della morte.

Documento inserito il: 29/01/2015
  • TAG: medio evo, europa medievale, peste nera, pestilenza, superstizione, untori, ebrei, chiesa cattolica, medicina, scienza

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