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La relazione sullo “status” economico del Polesine negli anni 1936-'37 [ di Enzo Sardellaro ]

L'“Autarchia” secondo il Federale Cesare Carminati Brambilla.

La relazione del Federale marchese Cesare Carminati Brambilla*, che fu oggetto di un'ampia cronaca apparsa su “ Il Polesine Fascista” del 1937, è particolarmente interessante perché offre uno squarcio sulle condizioni dell'agricoltura nel Polesine alla metà degli anni '30, offrendo anche qualche dato che potrebbe essere ancora utile agli economisti (1). Nella parte iniziale della sua relazione, il marchese Carminati si soffermò sul concetto di autarchia, cogliendone con esattezza il significato e asserendo che essa “possibilmente” doveva cercare di rispondere alle “necessità alimentari della nazione”. Dopo il discorso del prefetto, si dà

“inizio all'esame delle attività economiche della nostra provincia, dando la parola al relatore marchese Gr. Uff. Cesare Carminati di Brambilla, il quale fa un'ampia disamina dell'agricoltura e dei problemi ad essa attinenti. Il relatore inizia col dire che l'ordine dettato dal Duce per l'anno XVI, è autarchia, in tutti i rami della produzione. All'agricoltura è affidato quindi l'importantissimo, anzi l'essenziale compito di produrre sul suolo della Patria, possibilmente, tutto quanto è necessario al fabbisogno alimentare della Nazione, in pace e in guerra”.

Ciò costituisce un'interpretazione tutto sommato corretta dell'idea di autarchia rurale così com'era stata concepita dai vertici del Fascismo e da Mussolini in particolare. Diciamo intanto che osservare, come fece il Marchese Carminati, che essa doveva rispondere “possibilmente” alle necessità alimentari dell'Italia “riduce” in qualche modo la portata di certe interpretazioni che furono date a suo tempo sull'autarchia, che fu essenzialmente intesa come una manifestazione della “volontà di potenza” del Regime Fascista. La cosa è stata sottolineata giustamente dagli studi economici contemporanei e in particolare da Nicola La Marca in un interessante articolo di molti anni fa su “Economia e Storia”. La Marca rilevava, alla stregua di Carminati, e usando più o meno gli stessi termini, che “ [...] in definitiva, autarchia non fu altro che un tentativo, provocato dai pressanti eventi dell'epoca, di sopravvivere e mirante soprattutto all'autosufficienza e non alla potenza economica. Quest'ultima circostanza del resto, appare già evidente nella seguente definizione dell'autarchia, fatto in quegli anni da Capanna, uno dei teorizzatori delle ideologie economiche dell'epoca: ' Agli scambi con l'Estero, nel regime autarchico, è riservata una funzione complementare. I mezzi necessari per il soddisfacimento dei bisogni essenziali della popolazione debbono essere forniti totalmente, 'se possibile', dalla produzione nazionale' [...]” (2). Come si noterà, i rilievi del marchese Carminati, più o meno, furono la parafrasi di quanto aveva sottolineato Capanna.

Altrettanto interessanti, ma indubbiamente cariche di maggiori implicazioni storiografiche, furono le successive asserzioni del Federale di Taglio di Po. Egli osservava, offrendo un punto di vista largamente condiviso dalla grande proprietà terriera dell'epoca, di cui si faceva interprete, che l'autarchia avrebbe funzionato in Italia solo se il governo avesse tenuto conto di una pregiudiziale di fondo, ovvero la salvaguardia delle rendite del proprietario:

“Ma perché l'autarchia, nel campo della produzione agricola, si possa veramente raggiungere, occorre si riesca finalmente a stabilire il giusto equilibrio fra il costo di produzione e il prezzo ricavabile dalla vendita del prodotto agricolo, poiché non è assolutamente possibile di raggiungere il massimo della produzione consentita dalle risorse delle nostre terre e dalle forze economiche nazionali se all'agricoltura non si assicura, oltre che il rimborso delle spese incontrate per la produzione un equo margine di utile, che sia di compenso e di sprone al suo non certo facile e agevole lavoro...”.

Con queste chiare e semplici parole, il marchese Carminati, esponente di spicco della grande proprietà terriera della Lomellina e poi del Polesine, metteva in guardia Mussolini circa le “premesse” fondamentali per la buona riuscita dell'autarchia: la salvaguardia delle rendite della proprietà, alla quale si dovevano assicurare essenzialmente il “rimborso delle spese” di produzione e un “equo margine di utile”. Che è quello che poi in realtà avvenne, anche se molti soldi “furono pagati a proprietari terrieri che non mossero mai un dito per giustificare la concessione di questi sussidi”. Sta di fatto che, nonostante fossero anni di cospicui investimenti nell'industria, l'agricoltura, in sé, possedeva tante e talmente grandi implicazioni politiche, sociali ed economiche che le sovvenzioni non potevano certamente mancare, né l' “appello-suggerimento” del marchese Carminati poteva correre il rischio di cadere nel vuoto, soprattutto perché, se la grande proprietà avesse disatteso le indicazioni governative, l'autarchia non sarebbe potuta nemmeno decollare.

A monte c'erano molte perplessità da parte dei grandi proprietari terrieri a dare il via a una seria politica autarchica, e la cosa fu a suo tempo chiaramente sottolineata da Paul Corner. Anzitutto, si sapeva che sarebbero stati necessari “pesanti investimenti per la meccanizzazione”, e pochi erano disponibili a tanta bisogna, come non molti, tra i piccoli proprietari se lo potevano permettere; inoltre, più in generale, si sarebbe assistito a una “sgradita” modificazione sostanziale dei rapporti di potere nelle campagne. Per salvaguardare i propri profitti, la grande proprietà riuscì a individuare delle soluzioni che la misero al riparo da eventuali perdite, ma, nel frattempo, una qualche modificazione nell'assetto della proprietà era più che prevedibile. Comunque sia, le sovvenzioni statali arrivarono, potendosi così iniziare a sperimentare l'autarchia. Ma con tutto ciò, le resistenze non mancarono ugualmente. “Se infatti molti proprietari terrieri accolsero con favore i miglioramenti a spese dello Stato, e apprezzarono la prospettiva di un aumento della rendita fondiaria come risultato delle migliorie, ben poche attrattive presentava per loro il progetto per la trasformazione fondiaria definitiva”, che avrebbe implicato la perdita del “controllo immediato di terre potenzialmente produttive” (3).

Per comprendere il senso di questa affermazione di Corner, occorre collegarsi al modo con cui la grande proprietà reagì di fronte all'autarchia, alla sottesa teoria della “sbranciantizzazione ” e infine alla conseguente formazione di una piccola e media proprietà, cosa che era stata una costante del programma del “Primo Fascismo”. Riassuntivamente, la grande proprietà salvaguardò molto bene i propri profitti, letteralmente scaricando il costo dell'operazione in atto sui coloni parziari, i mezzadri, gli affittuari e i braccianti. I primi “videro indubbiamente un inasprimento dei termini contrattuali”; e per quanto riguarda i braccianti, “nel periodo 1928-'38 i salari non superarono mai il livello del 1928”; “l'orario di lavoro era più lungo che nel 1920”, e infine il cosiddetto “pagamento in natura” “consentiva di retribuire la manodopera ad un livello persino inferiore a quello stabilito dai Sindacati Fascisti per i giornalieri” (4). Gli unici che ci guadagnavano in una siffatta situazione furono “i proprietari terrieri ben consolidati [...] godendo dei benefici di un regime che permetteva loro di incassare gli affitti e di mantenere, quando le circostanze erano sfavorevoli, un certo livello di redditività”.

C'è da chiedersi, e Corner se lo chiese , il perché di tanta condiscendenza nei confronti della “proprietà consolidata” e soprattutto della grande proprietà; insomma, come dice Corner, c'è da domandarsi il perché una simile “politica agraria sia stata permessa”. Le ragioni di fondo, a parere di Corner, furono politiche ed economiche ad un tempo. Se era pur vero che lo Stato Fascista puntava molto sullo sviluppo industriale, si trattava, fino a quel momento, essenzialmente dello sviluppo dell'industria pesante, a bassa richiesta di manodopera e, “dato che non c'erano posti di lavoro nell'industria, il regime era interessato a tenere la gente occupata in campagna” (Corner, p. 100). Inoltre, con il “rafforzamento del forte”, si trovavano anche i soldi per gli investimenti privati nell'industria, che era il settore privilegiato, “dal momento che soltanto i forti avevano una qualche forma di reddito inutilizzato”. Per tutte le ragioni finora dette, l' “appello” del federale di Taglio di Po sarebbe caduto su un terreno estremamente fertile. Specificando ancora meglio cos'era necessario il governo dovesse fare “pel trionfo dell'autarchia”, il Federale così proseguiva:

“[...] Occorre quindi, pel trionfo dell'autarchia, nel campo della produzione agricola come del resto in ogni altro settore produttivo, che gli opportuni organi governativi si preoccupino sempre più tempestivamente della ricerca dei costi della produzione e della rimunerazione del prodotto agricolo, ricerca che se pur non agevole è però, in ogni caso, assolutamente necessaria ed indispensabile per la giusta regolamentazione dei rapporti economici fra le categorie dei produttori e dei consumatori. In queste ricerche, e nelle conseguenti regolamentazioni dei rapporti fra le varie categorie che sta appunto la funzione essenziale, anzi, la ragione d'essere dell'ordinamento corporativo ideato e voluto dalla mente sovrana e antiveggente del Duce. Solo questa visione, e la perfetta conoscenza delle cose è la condizione per consentire la buona riuscita dell'edificio corporativo, alla cui sommità starà il prezzo veramente ed equamente remunerativo [...]”.

Come si può osservare, il ragionamento del Federale si muoveva intorno alla “sommità” del problema, ossia il costo della produzione e della “remunerazione” che doveva essere corrisposta al produttore. Di qui gli “organi governativi” dovevano fare delle accurate “ricerche” per vedere di trovare i sussidi adeguati, altrimenti tutto l' “edificio corporativo”, “ideato e voluto dalla mente sovrana e antiveggente del Duce” rischiava di crollare. Su questo particolare aspetto il marchese Carminati volle insistere, lanciando segnali invero poco rassicuranti ai “propugnatori” dell'Autarchia. Letto in filigrana, il “messaggio” apparentemente neutro del marchese, era invece carico, ad un tempo, di una minaccia velata (il crollo dell'edificio corporativo) e di “suggerimenti”, il principale dei quali era relativo al fatto che il governo avrebbe dovuto operare delle “ricerche” atte a individuare opportune “regolamentazioni fra le varie categorie”. Più che alla categoria dei “consumatori”, il marchese stava pensando alle necessarie “regolamentazioni” tra datori di lavoro e salariati all'interno delle Corporazioni, scopo precipuo, anzi “ragion d'essere dell'ordinamento corporativo”.

Il cenno del marchese Carminati allo strumento corporativo come “mediatore” tra le categorie interessate era la spia che, all'interno delle Corporazioni e nel Sindacato Fascista, i rapporti tra datori di lavoro e lavoratori erano estremamente difficili da gestire. Il Sindacato Fascista, da parte sua, non poteva agire efficacemente perché era stretto tra forze che tendevano a condizionarne l'azione in maniera molto significativa; e quanto alle Corporazioni le cose non andavano certamente meglio. Che poi la situazione si fosse risolta a favore dei datori di lavoro è un fatto, e senza un sostanziale intervento né del Sindacato né delle Corporazioni, che, di fatto, erano due istituzioni assolutamente “ingessate” e incapaci di oltrepassare il momento “consultivo”. Di conseguenza, come fece notare Cassese (5), le decisioni “forti” furono prese “fuori” dalle Corporazioni, attraverso canali, diciamo così, “tradizionali” e ben consolidati, che, di fatto, saltavano a pié pari sia il Sindacato Fascista sia le Corporazioni, perché, nonostante tanto discorrere di corporativismo e di contratti collettivi (sempre malvisti), nella concretezza dei fatti i contratti individuali non furono mai disconosciuti dal Regime, che in tal modo lasciava mano libera ai datori di lavoro: il che significa che il “suggerimento” del marchese teso a salvaguardare i redditi padronali era stato pienamente recepito. Per queste ragioni, ci sentiamo di concordare con Gustavo Corni, secondo il quale “ in Italia... la modernizzazione poté essere attuata solo in misura ridotta e a costo di un'ulteriore frattura fra agricoltura ricca e agricoltura povera, per il fatto che Mussolini non ebbe mai la forza sufficiente per scontrarsi con gli interessi del blocco sociale che gli aveva garantito il potere” (6).

Nella sua disamina sullo “status” economico del Polesine, il marchese Carminati toccò poi qualche altro punto degno di considerazione storiografica. Uno di questi era relativo alle “condizioni morali” del bracciante. Ma questo era un punto direi quasi canonico della critica padronale nei confronti della “bassa” morale dei lavoratori della terra e che possiede una vasta letteratura. Molto più interessante l'altro successivo, dove si metteva in risalto che, tutto sommato, non c'erano in Polesine, nella seconda metà degli anni '30, grossi problemi di assorbimento della manodopera, e che, più che altro, si trattava di una “migrazione stagionale”, che si concludeva sempre con il rapido rientro di essa. Qui il potente marchese Carminati fece un'affermazione che è sì suffragata dai dati, ma che suona oggi come una sottovalutazione a cui si stenta quasi a credere, specie perché veniva da un uomo di larghissima esperienza, che aveva conosciuto sia le tensioni sociali bracciantili prima della Lomellina e poi del Polesine (“non bisogna né esagerare né drammatizzare la situazione”); le ragioni per le quali il marchese “sorvolò” su un fenomeno gravissimo, foriero di continue lotte e tensioni nelle campagne, stavano probabilmente nel fatto che, altrimenti, egli avrebbe dovuto anche spiegare “perché” esisteva il fenomeno della migrazione stagionale, e quindi affrontare l'insidiosa questione dei contratti e dei salari dei braccianti.

Dagli studi emerge infatti il dato certo che la manodopera bracciantile polesana era soggetta, come quella di altre province, a una migrazione stagionale semplicemente perché il salario era molto al di sotto della soglia di sopravvivenza delle famiglie, che, si sottolinea, erano molto numerose. La provincia di Rovigo dette un contributo consistente a questa emigrazione interna (l'unica permessa), i cui risvolti sono stati ampiamente analizzati negli ultimi decenni. Soffermandoci un attimo sul fenomeno in esame. E. Scarzanella, studiando i dati dell'emigrazione interna dal 1929 al 1937-'38 (dati coevi a quelli forniti dal marchese Carminati) rileva, a proposito delle provincia di Venezia che “il reddito monetario necessario al mantenimento di una famiglia tipo (8 membri) valutato in oltre 6000 lire annue dall'Unione provinciale dei sindacati fascisti dell'agricoltura (base dicembre 1930) non era raggiunto né dalle famiglie dei salariati fissi, né da quelle dei mezzadri e dei piccoli fittavoli [...] eppure l'organizzazione sindacale fascista aveva valutato nel 1930, in oltre 20.000 disoccupati che dovevano trovare uno sbocco extra-provinciale”. I dati testé esposti da Scarzanella riguardano la provincia di Venezia. Però, a seguire, la studiosa sottolinea che “la stessa osservazione è valida per la provincia di Rovigo [...] (dopo Belluno è infatti la provincia col maggior numero di emigrati in rapporto alla popolazione)”. Nella sua importante analisi del fenomeno migratorio interno polesano, la studiosa aggiunge qualche altro dato estremamente significativo a fare intendere le ragioni di fondo del fenomeno: “ Fino dal 1929 [...] notiamo che gli spostamenti di manodopera dal Polesine avvenivano in netta prevalenza per 'lavori agricoli'. I lavoratori si recavano nelle province e regioni vicine (Piemonte e Lombardia) per partecipare ai lavori di monda e trebbiatura del riso e a quelli di mietitura del grano. Restavano assenti per brevi periodi, nei mesi in cui, tra l'altro, la disoccupazione in Polesine era meno elevata. Tali migrazioni quindi non servivano a diminuire significativamente l'eccedenza di lavoro sul mercato provinciale...” (7). Ma ecco il passaggio del Marchese Carminati su “La disoccupazione del bracciante”:

“ [...] In suo nome sempre si parla, ma non sempre appropriatamente e con perfetta cognizione di causa. Anche in questo campo non bisogna né esagerare né drammatizzare la situazione. Trattasi in parte in parte di disoccupazione stagionale. Nell'annata 1936-1937 la popolazione agricola della nostra provincia, specialmente nel basso Polesine, ha lavorato in alcuni comuni di questa zona durante i mesi estivi, si può dire che non vi erano assolutamente disoccupati validi o di buona volontà. Disgraziatamente in genere all'operaio nostro, e questo specialmente nel basso Polesine, difetta o questo o quel senso dell'economia, della previdenza e purtroppo anche, lasciatemelo dire, della morale, sensi e sentimenti tanto più necessari in una provincia a densità demografica elevata come la nostra. L'operaio nostro deve essere educato alla economia e alla distribuzione del suo reddito durante tutta l'annata [...]”.

Nella ricerca delle cause effettive della disoccupazione ,“in parte”, come diceva il marchese Carminati, “stagionale” ( quell' “in parte” costituisce l'implicito riconoscimento che esisteva “anche” una disoccupazione cronica in Polesine), il Federale, ben sapendo che gli agrari non avrebbero assolutamente allargato i cordoni della borsa, insisteva su un dato di fatto che, preso in sé, era, ed è tuttora, difficilmente smentibile; ossia che in Polesine, regione “prolificissima”, il “bracciantato” era troppo numeroso, per cui il problema diventava pressoché irrisolvibile. Cosicché, ne “I possibili rimedi”, egli spiegava:

“[...] La difficoltà d'impiegare il troppo numeroso bracciantato della prolificissima terra di Rovigo è sempre stato un serio problema anche negli anni decorsi, problema che certamente è di assai difficile, non direi soluzione, ma sia pure attuazione. La vera ragione è che, in Polesine, allo stato attuale della superficie utilmente coltivata e delle vigenti colture, siamo in troppi già oggi, e lo saremo anche ancor più domani. Rimedi a questo stato di cose? Non molti né di troppo facile attuazione [...]”.

Il Marchese diceva il vero; nel Polesine, nel 1936, tra fissi, avventizi e lavoratori dipendenti si contavano 61.560 unità; ed era battuto solo dalla provincia di Ferrara, che ne contava 83.866 (8).


Note
* Cfr. A. Ventura, Le campagne venete tra le due guerre mondiali, in Archivio Veneto, n. 138, a. CV, V serie, Vol. CIII, 1974, p. 167 sgg., p. 208: “Il marchese Cesare Carminati di Brambilla [fu] podestà di Taglio di Po, ispettore federale di zona, commissario del Consorzio di bonifica Isola di Ariano”.

1) Cfr. Il Polesine Fascista, 18 Dicembre 1937, XVI, p. 4. “Sotto i segni dell'Autarchia”. “Il Consiglio delle Corporazioni fa il punto sulla situazione economica della provincia. Il Prefetto e il Federale illustrano le mète da raggiungere”.

2) N. La Marca, Considerazioni sulla politica economica italiana fra le due guerre, in Economia e Storia, a. II, 1981, 1, p. 101.

3) P. Corner, Riformismo e Fascismo: L'Italia tra il 1900 e il 1940, Roma, Bulzoni, 2002, p. 97.

4) Ivi, pp. 91-92.

5) S. Cassese, Corporazioni e intervento pubblico nell'economia, in Il Regime Fascista, a cura di A. Aquarone e M. Vernassa, Bologna, Il Mulino, 1974, p. 399.

6) G. Corni, La politica agraria del fascismo: un confronto fra Italia e Germania, in Studi Storici, a. 28, 1987, 2, pp. 385 sgg.

7) E. Scarzanella, L'emigrazione veneta nel periodo fascista, in Studi Storici, a. 18, 1977, 2, pp. 171 sgg.

8) Per le statistiche cfr. G. Crainz, Padania. Il mondo dei braccianti da'800 alla fuga dalle campagne, Roma, Donzelli, 1994, p.210.
Documento inserito il: 28/12/2014
  • TAG: economia polesine, autarchia, cesare carminati brambilla, federale, ventennio, sanzioni, produzione agricola

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