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Le radici del Sacro Graal

Articolo di Katia Bernacci


La leggenda del Sacro Graal, la coppa usata da Gesù durante l’ultima cena, è una delle più affascinanti e misteriose della storia, un mito che è diventato quasi reale nell’immaginario collettivo. Si racconta che Giuseppe d’Arimatea, discepolo di Gesù, nel 63 d.C. lasciò la Terra Santa portando con sé una coppa contenente il sangue di Cristo. Dopo un lungo viaggio approdò in Inghilterra, a Glastonbury Tor, dove piantò il suo bastone e affidò il Graal a una discendenza di custodi. La coppa aveva poteri straordinari: dissetava, nutriva, guariva le ferite mortali, ma poteva anche infliggere morte e maledizione.
Durante il regno di Artù, il Graal fu nascosto in una fortezza sorvegliata da un cavaliere che, tradendo il suo compito per amore, perse la protezione della coppa. Ferito e incapace di morire, divenne il Re Pescatore, e la sua terra si trasformò in deserto. Solo un cavaliere innocente avrebbe potuto spezzare l’incantesimo. La profezia si compì con Parsifal, giovane inesperto che lasciò la madre per diventare cavaliere a Camelot. Egli assistette al misterioso rituale del Graal nel castello del Re Pescatore, ma rispettando il codice del silenzio non chiese la causa della sofferenza del sovrano. Quel silenzio segnò il suo fallimento. Solo dopo anni di erranza e pentimento, comprendendo il proprio orgoglio e la mancanza di compassione, Parsifal riuscì a guarire il re e restituire potere al Graal.
La leggenda si diffuse nel XII secolo grazie al poeta Chrétien de Troyes e ai monaci cistercensi, che identificarono il Graal con il calice dell’Ultima Cena. In un’epoca segnata da carestie, pestilenze e crociate, la ricerca del Graal divenne un simbolo di speranza, ma anche giustificazione per la guerra santa. Le radici del mito, tuttavia, affondano più indietro nel tempo: nelle saghe celtiche di eroi e guerrieri, trasformate dai poeti medievali in cavalieri scintillanti e codici cavallereschi. Così il Graal, originariamente idolo pagano o simbolo di fertilità, divenne reliquia cristiana, capace di rivelarsi solo a un cuore puro.
Molti luoghi sono stati associati al Graal, a Glastonbury, presso il “pozzo del calice”, si diceva che l’acqua rossastra fosse segno del sangue di Cristo. Altri racconti narrano della fuga dei monaci con la coppa fino a Nanteos Manor, dove sarebbe rimasta per secoli (una coppa di legno l’olmo è tutt’ora conservata nella Biblioteca Nazionale del Galles). Secondo altre tradizioni, il Graal fu custodito ad Avalon, a Muntsalvach o persino a Sarras, città misteriosa forse situata in Siria o in Oriente. Alcuni lo collegano a Costantinopoli, altri ai Catari di Montségur, altri ancora a Torino, insieme alla Sindone.
Gli autori medievali, come Robert de Boron, intrecciarono la leggenda con altri simboli sacri: la Lancia di Longino, la spada, il piatto di Giovanni Battista. Da queste tradizioni nacque la Tavola Rotonda e la ricerca cavalleresca di Lancillotto, Galvano, Galahad, Bors e Perceval o Parsifal. Solo pochi, puri o innocenti, poterono avvicinarsi al mistero. Agli effetti l’intreccio delle leggende rese la storia del graal quanto meno complessa e non così lineare come è stata raccontata in questo articolo.
Quali sono le radici del mito e perché si riteneva che questa coppa potesse essere così importante da dare addirittura l’immortalità o al contrario, la morte?
Prima del Medioevo pare che il graal fosse chiamato dai celti “il Calderone di Dagda, uno dei quattro tesori sacri portati dai Túatha Dé Danann in Irlanda e rappresentava la fonte inesauribile di nutrimento e vita. Chiamato “Coire Ansic”, cioè “non asciutto”, non si svuotava mai e garantiva abbondanza a chiunque vi si avvicinasse. Non era soltanto un recipiente di cibo o una cornucopia, ma la rappresentazione del potere divino e in alcune leggende poteva persino riportare in vita i guerrieri caduti, restituendo loro forza e vigore. Questo calderone incarnava l’idea che la vita fosse ciclica e che la morte potesse essere trasformata in rinascita e questa è una delle grandi tematiche che percorre le storie degli dèi del passato, anche di quelli situati in zone lontane. Nelle saghe gallesi e irlandesi, come quelle raccolte nel Mabinogion, compaiono altri calderoni magici che donano sapienza, guarigione e resurrezione, e che si rivelano solo a chi è degno di riceverne i doni. Per i Celti, il recipiente era anche immagine del grembo della Grande Madre, simbolo della terra e della fecondità, un ponte tra il mondo umano e quello divino. La visione del Graal nei Celti nasce dunque da questo immaginario, un oggetto divino, che manifesta la sua potenza mistica, un viaggio iniziatico verso la conoscenza e la trasformazione interiore e in quanto tale è anche manifestazione dell’unione tra i mondi di sopra e di sotto (anche nella cultura greca l’inferno, ad esempio, era considerato non un luogo di dannazione ma di trasformazione).
Quando i poeti medievali francesi e i monaci cristiani rielaborarono queste tradizioni, trasformarono i calderoni sacri in un calice cristiano, identificandolo con la coppa dell’Ultima Cena. Così il Graal mantenne la sua essenza celtica di recipiente che dona vita e verità, ma assunse un nuovo significato spirituale: rivelarsi soltanto a chi ha cuore puro e umile. In questo modo il Calderone di Dagda e la visione celtica del Graal si fusero con la tradizione cristiana, dando origine a una leggenda che ancora oggi continua a evocare il mistero della ricerca e dell’immortalità.


Nell'immagine, Apparizione del Sacro Graal tra i Cavalieri della Tavola Rotonda (miniatura da un manoscritto, Parigi, XV secolo)


Libro di riferimento:

I misteri del Medioevo”, Katia Bernacci, edizioni Diarkos 2025


Documento inserito il: 09/12/2025
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