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La magia nel 'De occulta philosophia di Enrico Cornelio Agrippa', II parte

di Francesco Servetto


«Solo per voi, figli della dottrina e della sapienza, abbiamo scritto quest’opera. Scrutate il libro, raccoglietevi quella intenzione che abbiamo dispersa e collocata in più luoghi; ciò che abbiamo occultato in un luogo, l’abbiamo manifestato in un altro, affinché’ possa essere compreso dalla vostra saggezza. Noi non abbiamo scritto che per voi, che avete lo spirito puro e atto a condurre un ordine retto di vita, la cui mente è casta e pudica, di cui la fede illibata teme e riverisce Iddio, le mani sono monde di peccati e di delitti, i costumi integri. Voi soli troverete la dottrina che noi abbiamo riservato solo a voi; gli arcani velati dai numerosi enimmi che non possono essere resi trasparenti senza l’intelligenza occulta. Se voi conseguirete questa intelligenza, allora l’intera scienza dell’inespugnabile disciplina magica penetrerà in voi e in voi si manifesteranno quelle virtù già acquisite da Ermete, da Zoroastro, da Apollonio, e dagli altri operatori di cose meravigliose. (De occulta philosophia, Libro III, cap. LXV).


Un manuale scritto in maniera chiara e stringata: se si guarda al De occulta philosophia, l’aspettativa di un moderno lettore, per via dell’abitudine a tenere sempre un ritmo sbrigativo nell’approccio alla conoscenza pronta all’uso, non può che essere tradita. La differenza abissale tra lo scopo commerciale che sostiene la stragrande maggioranza delle pubblicazioni odierne, spesso esaltate da titoli ammiccanti, a volta quasi esche per sprovveduti analfabeti funzionali mossi da una spiritualità a buon mercato o da un nozionismo da social, e l’intento che sostiene un autore del XVI secolo come Agrippa non può che essere un ostacolo per chi si cimenti nella lettura dell’opera. L’idea di magia che traspare dalle pagine, secondo la divisione tripartita tanto diffusa anche in altri lavori di filosofi del tempo, come per il frate veneziano Zorzi o per Marsilio Ficino, descrive una graduale risalita verso la sommità del mondo sovra celeste per la quale non bastano né occhi né altri strumenti sensibili. Gli incantesimi, gli aneddoti, ma anche le operazioni che qua e là accompagnano il lettore verso il terzo libro, uniti al potere dell’astrologia e all’applicazione delle scienze matematiche, erompono in un fascio di coscienza che solo chi ha compreso le corrispondenze tra macro e microcosmo può percepire.
Immersi in una luce occulta, si manifestano come spiriti eletti i veri depositari del sapere, di quella prisca philosophia tracciata alla maniera di un sentiero che si trasforma in scala verso l’ineffabile, con metodi talvolta sapientemente modulati in artistici trompe-l’oeil. Agrippa è chiaro: i legami tra le scienze matematiche e la magia sono necessari, indissolubili. La misurazione è strumento di indagine, è la grammatica delle cose. Numero, peso, armonia, movimento: ciò che si trova nel mondo inferiore ha fondamenta matematiche, è inscindibile da esse e tramite esse può e deve essere conosciuto. Parafrasando Platone, il mago tedesco afferma che proprio tramite le scienze matematiche è possibile produrre operazioni simili a quelle naturali. Non partecipando alla verità né al divino, esse sono viste come corpi non dotati di una coscienza, come gli automi di Dedalo o le statue parlanti di Mercurio o il piccione ligneo volante di Archita. La geometria e l’ottica sono gli strumenti che li mantengono in attività, giacché non si può parlare di una vera e propria vitalità. Ecco spiegato il segreto dei già citati specchi magici, ad esempio, «che proiettano le immagini nell’aria e le fanno apparire simili ad ombre, come insegnano Apollonio e Vitellio nei loro libri della Prospettiva e degli Specchi». Non teme le critiche il filosofo di Nettesheim; dichiara di essere egli stesso in grado di produrre «due specchi reciproci, in cui, quando il sole spunta, è possibile vedere distintamente quanto esso rischiara entro la circonferenza di parecchie leghe».
Il popolo ignorante è spinto a credere che dietro ogni manifestazione dell’ingegno umano si nasconda un qualcosa di demoniaco. Le stesse strutture megalitiche o le stupefacenti opere architettoniche degli antichi, avverte, non devono essere confuse con opere estranee alla competenza umana. Esempio tranchant è il magnetismo, verso cui l’ingenuo si approccia con stupore, timorato di trovarsi di fronte ad un incontrollabile potere gestibile in chissà quale modo. Le scienze matematiche, con il loro potere di astrazione, applicate alle cose celesti hanno la proprietà di svelarne le strutture e, primi tra tutti, gli agenti in campo non possono essere che i numeri. Già in Severino Boezio essi sono dichiarati struttura del tutto, chiave di comprensione delle meccaniche naturali e celesti; tutto ciò che esiste segue le loro leggi, essi hanno proprietà inattaccabili, nascondono connessioni che generano effetti percepibili nel mondo naturale e conoscibili in quello celeste. Se tutto è sottoposto al «regime dei numeri», come le cose elementali sono sottoposte alla trasmutazione, quelle celesti non possono prescindere dalle occulte forze di essi.
Per Pitagora il numero associa virtù alle cose, in Proclo il numero «sussiste sempre e si ritrova in tutto: nel nome, nelle proporzioni, nell’anima, nella ragione e nelle cose divine»; per Temistio, Boezio, Averroè di Babilonia, come del resto per Platone, non è concepibile la vera filosofia senza la conoscenza del numero razionale e formale, da cui deriva le proporzione, strumento infallibile. Agrippa passa in rassegna una serie di autori del passato per i quali la dignità del numero è al massimo grado: Girolamo, Agostino, Origene, Ambrogio, Gregorio Nazianzeno, Atanasio, Basilio, Ilario, Rabano Mauro e Beda. Ecco che il mago tedesco traduce in esperienza uno dei tanti poteri attribuiti i numeri.
Racconta dell’erba detta pentafillo che resiste ai veleni grazie alla proprietà del quinario, mette in fuga i demoni, contribuisce all’espiazione delle colpe «e una delle sue foglie, presa nel vino due volte al giorno, guarisce dalla febbre effimera, mentre tre foglie combattono la febbre terzana e quattro la febbre quartana e lo stesso effetto è ottenibile coi semi d’eliotropo o girasole, presi a dosi di tre o di quattro grani». La verbena mischiata al vino è indicata per le febbri terzane, se viene tagliata alla terza articolazione, per le febbri quartane se tagliata alla quarta. Anche in questo caso l’idea è che entri in gioco la proporzione, con i suoi occulti poteri. Agrippa sospende il giudizio quando riporta esempi del genere. A tratti, il suo enciclopedismo lo pone come un compilatore che osservi dal di fuori. Appare utile, ai fini dell’opera, questo posizionarsi come uno scrutatore mentre, di contro talvolta, quando l’empirismo entra in gioco, è chiaro che lo stesso mago tedesco conosce i fatti perché vi ha preso parte. Intento del filosofo deve essere giungere alla capacità di mettere in relazione i numeri naturali con i propri corrispondenti divini, armonizzandoli nella stessa dimensione, come le parti dello spirito sono tra loro in connessione, suddivise in parti secondo la loro media aritmetica. È interessante lo spirito con cui Agrippa affronta i poteri occulti del numero, ma in generale della magia stessa.
In una lettera all’abate Tritemio lamenta l’abbondanza di libelli e di trattati che si propongono di illustrare i concetti della magia, ma non possono essere presi in considerazione dallo studioso serio. Non risparmia critiche, né edulcora la propria disapprovazione con artifici retorici. Afferma, infatti, che «l'unica causa di tutto ciò è stata la depravazione dei tempi e degli uomini, grazie alla quale degli pseudo-filosofi, dei maghi indegni del nome, poterono introdurre delle esecrabili superstizioni e dei riti funesti, ammucchiare a dispregio di dio e per la perdizione degli uomini i loro infami sacrilegi contro la religione ortodossa, ed infine pubblicare questa quantità di libri che vediamo circolare dappertutto e che bisogna condannare, ed ai quali è dato indegnamente per titolo il molto rispettabile nome di magia». La lettera in questione è datata 1510, quando l’opera era ancora manoscritta e incompleta. In questi anni il nostro è un giovane intellettuale mosso dall’ardore della ricerca, in bilico tra l’incoscienza dell’età e il senso di responsabilità verso i propri simili che si traduce in spinta divulgativa e, per nostra fortuna, la corrispondenza testimonia le gravose insidie disseminate sul periglioso cammino sapienziale.
Nel 1514, un amico lo mette in guardia dal non eccedere con l’entusiasmo. Saputo che su un muro della sua dimora campeggia un ritratto di Ermete Trismegisto, lo esorta a stare attento, a non fidarsi troppo di questo dio bugiardo e ingannatore, che potrebbe condurlo sui carboni ardenti, alludendo ai noti roghi dal cattolico intento purificatorio tanto di moda in quegli anni. Nel 1523, nonostante l’opera circolasse ancora manoscritta, la sua fama è tale che, come ricorda il pitagorico Arturo Reghini nella sua illuminante disamina, un conoscente gli scrive di «avere visitato l'università di Pavia e di avervi trovato il ricordo vivente di Agrippa e della sua profonda scienza circa i misteri della natura; di avervi veduto il trattato della magia naturale, sorgente di tutte le conoscenze». Nonostante essa abbia fortunata diffusione, d’altro canto il mago tedesco ribadisce, ancora una volta che la chiave interpretativa della stessa non è disponibile per chiunque, ma l’ha riservata ai soli amici fidati. Due lettere del 1527 a padre Padre Aurelio da Acquapendente tornano sull’argomento, aggiungendo che la magia di cui si parla nel De occulta philosophia non può rendere offesa a Dio. Il mago non tema di affrontare i misteri della natura né gli arcani dello spirito. A nulla possono le intenzioni disoneste dei falsi alchimisti, né le ciarlatanerie di sedicenti indagatori dell’occulto: l’operatore che sa districarsi nel labirintico territorio della magia è insito nell’uomo, è conoscibile e tramandabile da spirito a spirito, e perché ciò accada è evidente che la predisposizione d’animo giochi un ruolo non trascurabile.
Agrippa lascia intendere che il processo di iniziazione, a cui il destinatario dell’epistola sarà ammesso, è il modo per comprendere la chiave di interpretazione dell’opera. Essa è l’intelletto, quell’intelletto puro, incorrotto, che ha superato le insidie della carne, che ha coscienza di sé e si è unito alle virtù più alte, alle occulte questioni divine e ai segreti della natura. Come potrebbe un essere che abbia «perduto sé stesso nella cenere e nella polvere mortale, […] trovare dio stesso?». In altri termini, «In qual modo apprendere le cose spirituali, immerso come è nella carne e nel sangue?». È necessario attraversare un processo di morte della carne e dei sensi per attraversare i segreti corridoi della conoscenza più recondita e alta; l’anima deve distaccarsi dal corpo, non il contrario perché ciò accada. I pochi in grado di giungere a tali vette possono ottenere la deificazione, se già non sono nati divini. Ciò può avvenire per opera di «un beneficio della natura, e da un dono genetliaco del cielo», ma anche il semplice mortale può aspirare a tanto, se si affida all’arte, alle opere dell’ingegno. Lo stesso Agrippa parla di sé come di una persona immersa nell’alveo carnale, si considera legato alla dimensione umana, estraneo alle divine illuminazioni dei pochi, eppure chiede di essere considerato una sorta di sentinella, di guardia posta all’ingresso del mondo con lo scopo di indicare la via da perseguire.
Nel III capitolo del III libro dà un’indicazione dei propri intenti, sostenendo che «nella dignificazione dell'uomo consiste la chiave di tutte le opere magiche, la cosa arcana, necessaria e segreta per operare in quest'arte». Per il Bruckner la chiave di comprensione è platonica, una sorta di illuminazione interna da ricondurre all’immaginazione, per il Naudé, come per il Prost, essa non sarebbe altro che un’affermazione priva di concretezza, un’indicazione data per autoesaltazione. Per il Reghini tutto ciò non regge. Lo sperimentalismo è sottaciuto, il tutto è ricondotto ad un’analisi filosofico-ideale che contrasta con la biografia di Agrippa stesso. L’affermazione del mago secondo cui discepolo e maestro devono trovarsi insieme perché sia trasmissibile la conoscenza a livello spirituale, l’unico metodo degno in questo caso, testimonia una decisa presa di posizione, un marcare il territorio a cui non ci si può sottrarre. Come le parole non bastano a descrivere, si pensi il caso di un cieco a cui si tenti di spiegare cosa sia la luce, così la mera speculazione filosofica dialettica non ha applicazione in tali ambiti. Il carattere esoterico si staglia non curante delle intenzioni altrui. Esso protegge, preserva, mantiene intatta la conoscenza.
Se la Chiesa ha dovuto fare i conti con il progresso della conoscenza scientifica, accettando evidenze che l’avrebbero messa in ridicolo se contrastate ad libitum, così, secondo Reghini, dovrà accadere lo stesso per la metafisica. Il salto di quattro secoli tra l’esoterista italiano e il mago di Nettesheim ha, come risaputo, consegnato all’umanità una considerazione delle discipline occulte, nel migliore dei casi, non lusinghiera; tuttavia, né scienza né religione hanno posto il vessillo definitivo sulla verità. Possedere testi sacri non diventa automaticamente la prova di possedere una «sapienza iniziatica», ma possono esistere forme di sapienza non scritte né codificate in dottrine perché, riprendendo le parole di Reghini, l’essenziale «è sopra razionale, e si raggiunge, non col pensare, ma col dominare e trascendere il pensiero, non con le opere, ma con l'«opera».
Il sentimento religioso che traspare dagli scritti agrippini è magnifico, nel senso che si pone come quel grimaldello senza il quale diventa completamente inutile tentare di perseguire gli scopi della filosofia naturale più nobile. Il mago tedesco è, ovviamente, disturbato dalle chincaglierie dottrinali che la sua stessa amata religione ha propagandato, sia in spontanei moti pseudo-eretici, sia nelle studiate cerimonie ufficiale sacramentali. Lo studioso può cogliere facilmente l’idea di fondo che sostiene il progetto del De occulta philosophia e anche del De vanitate: esso è come un giardino nel quale sono catalogate e raccolte numerose specie, all’apparenza diverse tra loro, tutte, tuttavia, unite da una caratteristica comune, la connessione con il sacro, il potere di tenere unito l’uomo alla propria natura divina. Ecco che acquistano valore l’ermetismo con i suoi rimandi teologico-religiosi, così come discipline quali la cabala e l’alchimia possono contribuire al laboratorio spirituale del mago. È un susseguirsi di indizi sparsi nei secoli, nelle culture.
Le formule evocative, di cui è trattato nel terzo libro, si trasformano in vettori sacri, in strumenti divinamente intrisi: esse non sono la ripetizione mera e banale di suoni, tantomeno svelano a chiunque le ascolti la modalità per ripeterle. Neoplatonicamente, si aggrappano alla deificazione umana insita nelle profondità del microcosmo, dell’organismo nobilitato, dal filosofo conscio della propria essenza, manovratore in primis della propria interiorità. La volontà acquista, come per altre dottrine orientali, il potere di controllare le forze della natura. Il mago è mago e non più uomo che si serva della magia, non recita il ruolo di mago, ma lo introietta nel proprio intelletto e ne usufruisce consapevolmente, tanto che la consapevolezza suprema di cui è protagonista lo scolpisce divino nel fango del corpo mortale, trasmutandone idealmente le componenti, che appaiono vivide e lucenti, nonché incorruttibili, come scolpite su bianco marmo seguendo la perfezione della proporzione. Tanto il linguaggio della natura è strutturato in termini matematici, così l’astrazione che consente l’indagine sul sovra celeste, si serve delle arti del quadrivio per rendere all’uomo il manico della vanga con cui portare alla luce supreme verità.
La teologia cristiana, scoglio contro cui suo malgrado rischia di sbattere, non è in realtà delegittimata, anzi: l’intelletto possiede il potere di comprendere la magia solo perché è illuminato dalla scintilla divina, cristianamente ravvisabile nel potere trinitario. Agrippa si difende a spada tratta contro le polemiche di quelle che definisce «teologastri». Un chiaro esempio si trova nel Liber de Triplici Ratione Cognoscendi Deum: «Ogni studio e amore della sapienza proviene dallo Spirito Santo per mezzo di nostro signore Gesù Cristo; la vera sapienza è la stessa cognizione di dio, illustrazione della mente, correzione della volontà, appetizione della retta ragione, una certa legge di vita che santifica l'animo dell'uomo, e dispone la via a dio, dimostrando che cosa occorre fare e che cosa omettere; la quale sapienza, noi con altro vocabolo chiamiamo Teologia. Questa sapienza, e vera cognizione di dio, anzi vero e proprio contatto essenziale di Dio, migliore della cognizione, si trasmette nell'Evangelo per ispirazione divina».
Forte dell’approvazione imperiale e del conseguente permesso di stampare l’opera, nelle lettere agli amici dimostra incredulità e insofferenza verso quei sedicenti inquisitori, come se ne trovano tra i monaci, nonché disprezzo verso il fondamentalismo ottuso tipico di chiunque non sappia maneggiare ciò in cui crede (sopravvissuto e moltiplicatosi ai giorni nostri a livelli patologici).
Emblematica l’epistola ai magistrati della città di Colonia (Ep. VII, 26): «Non lasciatevi sbalordire da una falsa interpretazione di questa parola magia, che è spaventevole soltanto per il volgo, e su cui questi ipocriti sicofanti stanno imbastendo le loro accuse di bestemmia e di eresia. Il mio libro non contiene che cose, le quali non hanno nulla da spartire con la fede cristiana e con le sante scritture; ed è solamente, come voi sapete, mettendosi in opposizione con queste che ci si espone a peccare. Se dovesse essere diversamente, allora condannate tutto quello che non è fede e Vangelo; condannate Aristotile, Averroè, che questa gente ha sempre per le mani nelle sue scuole, condannate il loro Tommaso ed il loro Alberto; condannate tutti i loro dottori infeudati ai precetti della filosofia pagana. Quello che offende la delicatezza dei miei contradittori sono i nomi sospetti di magia e di cabala. Basta questo perché questi asini ignoranti condannino quel che non conoscono».
Eterno, sempre valido, il percorso sapienziale con le sue diramazioni e il dipanarsi di trame complicate per le quali è necessario spendersi oltre ogni fatica assume, tra i vari pregi, un valore consolatorio, tanto che cinque secoli dopo esso può essere ammirato dal ricercatore, idealmente rafforzato dallo sventolio di un vessillo spirituale che riprende l’antico adagio per aspera ad astra.


Nell'immagine, il Pentagramma.


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Documento inserito il: 10/06/2025
  • TAG: misticismo, magia bianca, filosofia naturale, filosofia occulta, esoterismo, ermetismo, prisca philosophia, scienza rinascimentale, Enrico Cornelio Agrippa

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