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Geta: un imperatore troppo mite per gli intrighi di corte [ di Carlo Ciullini ]

Era stato un secolo straordinario: probabilmente il periodo più bello, per Roma.
Una epopea d'oro, quella delle adozioni imperiali aliene da compromessi familiari e fondate solo su scelte meritocratiche, quale mai c'era stata in precedenza, né più si sarebbe ripetuta.
La libera scelta, da parte degli imperatori, dei loro successori in base alle peculiari virtù e capacità manifestate dal soggetto, indipendentemente dai legami di parentela, si rivelò la carta vincente gettata dall'Urbs sul tavolo dei destini del mondo.
A partire da Nerva, nel 96 dopo Cristo, e fino al 180, anno della morte di Marco Aurelio, si susseguirono quasi novant'anni di “felicitas temporum”, come definì quell'epoca Tacito: un periodo di lunga prosperità, di comune sentire, di diffusa laboriosità e, sopratutto, di saldissima pax nell'ecumene intero.
Prima e dopo questo lasso di tempo benedetto dagli dei e dagli uomini, i principes e le loro casate diedero invece il peggio di sé, contribuendo ad alimentare tristemente, nei secoli, la squallida fama dei negletti imperatori di Roma.
La teoria di coloro che, con il proprio comportamento, infangarono il manto purpureo simbolo del potere imperiale, è lunga e rinomata: Caligola, Nerone, Galba, Otone, Vitellio e, infine, Domiziano.
Dopo l'ultimo, debosciato Flavio, con l'avvento di Nerva prese il via il governo dei principi illuminati, ciascuno dei quali seppe scegliere al meglio chi lo avrebbe seguito sul trono: Nerva optò per Traiano, questi per Adriano, poi Antonino Pio, infine Marco Aurelio (assieme a Lucio Vero).
Una lista di uomini validi, capaci di grandi opere, assennati, dal forte carisma e riccamente dotati di latinissima virtus.
Ma, per un bioritmo storico ineluttabile, anche ciò che sembra imperituro è destinato a cedere il passo al cambiamento e a nuove realtà: l'età d'oro degli Augusti ispanici e degli antonini si arenò con la scomparsa di Marco Aurelio, l'“imperatore filosofo”, uomo la cui profondità di spirito mai avrebbe dovuto suggerirgli di far cadere sul degenere figlio Commodo la scelta per la sua successione se, in tale circostanza, non fosse stato più forte l'immeritato affetto paterno.
Un figlio che, nei suoi dodici anni sul trono imperiale, evidenziò appieno la propria indegnità a governare.
Tutto era finito, dunque? La Roma migliore si eclissava per sempre?
Dopo l'eliminazione cruenta di Commodo, malvagio nell'animo e troppo impegnato a fare il gladiatore piuttosto che a ben regnare, con il subentro del grande Settimio Severo ci si illuse forse che gli inetti anni commodiani rappresentassero una triste parentesi, una eccezione fastidiosa confermante la regola virtuosa dei buoni imperatori.
Ma con la morte nel 211 di Severo stesso, il quale aveva saputo adeguatamente rinvigorire l'impero dopo i dodici, miserrimi anni del successore di Marco, la realtà amara si palesò appieno nella figura di Caracalla, erede al trono dopo la scomparsa del padre.
Caracalla, tuttavia, non regnò solo: parte iniziale del suo governo fu condiviso con un altro giovane imperatore, di un anno più piccolo di lui. Si trattava di Geta, suo fratello minore.
Settimio Severo, insediando al comando dello Stato i due figli maschi, tentò in tal modo di porre solide basi al potere della dinastia, originaria di Leptis Magna, nella Tripolitania (l'odierna Libia).
Invero, la successione in seno ai Severi risultò alquanto articolata, attraversata come fu da quattro fasi distinte: dal 198 Settimio associò al trono il piccolo Caracalla (che aveva dieci anni), in una diarchia che divenne poi triade quando, nel 209, unì al potere anche il secondogenito Geta, allora ventenne; padre e figli condussero assieme le sorti del Paese per due anni, allorquando Settimio morì, nel Febbraio 211, in Britannia.
Da quel mese, e fino a dicembre (dunque, poco più di dieci mesi) i due fratelli, rimasti soli, regnarono assieme: infine Caracalla, ritenendo fosse più gradevole non spartire il titolo imperiale con nessuno, tolse di mezzo il minore, vestendo monocraticamente la porpora per altri sei anni.
Poi, anche su lui calarono le lame dei congiurati...
Anche i due giovani principes che lo seguirono, Elagabalo e Alessandro Severo, avrebbero concluso assai precocemente la loro esperienza sul Palatino, soccombendo alle trame di palazzo.
Il periodo ispanico-antonino apparve ormai lontano non qualche decennio, ma secoli: non era più possibile, a un imperatore, morire nel proprio letto come accadde ai cinque fortunati che resero irripetibile quell'era. E se poi, pur di regnare liberamente e senza scendere a compromessi, si facevano uccidere anche i fratelli...
Publius Septimius Geta nacque a Roma il 7 Marzo 189 dopo Cristo; la madre Giulia Domna, di origine siriaca, insignita del titolo di augusta, fu una delle donne più potenti e influenti della storia della città.
Due figli maschi costituirono certo motivo di orgoglio, per la consorte di un imperatore alla quale era demandato il compito, quasi istituzionale, di mantenere alto il prestigio familiare.
Per ciò che concerne la breve vita di Geta, possiamo rivolgerci alla non sempre affidabile Historia Augusta, un'opera sovente impregnata di testimonianze legate a fonti fantasiose e a aneddotiche briose, piuttosto che ad una storiografia accertabile.
Si racconta dunque che Geta avesse, fin da piccolo, ricevuto il nome aggiuntivo di Antonino perché il padre avrebbe sognato che tale sarebbe stato il nome del suo successore.
Ciò costituiva, da parte di Severo, anche un omaggio a Marco Aurelio, imperatore che l'africano stimò profondamente in ragione di quella filosofia stoica che li accomunò: non è escluso che il capostipite, con questa scelta onomastica a riguardo dei propri figli, avesse anche voluto ricordare Antonino Pio, che molto lo aveva aiutato agli inizi della carriera politica, quando l'uomo venuto da Leptis era ancora un adolescente, o poco più.
Tra i vari episodi narrati dall'Historia, pare che un giorno Severo, esperto in oroscopi, avesse esclamato dopo una consultazione astrologica: “E' strano che il cielo predìca la divinizzazione di Geta, giacché l'oroscopo non lo vede affatto come imperatore”.
Una situazione in certo senso paradossale. Ma, a grandi linee, materializzatasi realmente quando, diversi anni dopo, la frase paterna assunse nuovo valore alla luce delle parole di Caracalla che aveva appena fatto assassinare il fratello: “Che possa esser almeno divino, dal momento che non è più vivo...!”.
Tra i racconti, invero più fantasiosi che reali, legati alla famiglia imperiale, il nostro testo di riferimento riporta un episodio denso di presagi: si narra che essendo la madre Giulia Domna gravida e in attesa imminente del secondogenito, e avendo una gallina fatto un uovo di colore purpureo (quindi regale), il piccolo Caracalla lo avrebbe preso e scagliato al suolo, frantumandolo; al che la madre, irata, non poté esimersi dall'apostrofarlo: “Fratricida maledetto, smetti di uccidere tuo fratello...!
Da adolescente, e poi da giovane uomo, Geta prese più volte le difese di cittadini finiti sotto l'ombra minacciosa della scure imperiale, perché ritenuti pericolosi per lo Stato.
Pare che in una di tali occasioni, Geta rimproverasse il fratello più grande, deciso crudelmente a eliminare i nemici politici: “Tu che non perdoni niente a nessuno, saresti capace di assassinare tuo fratello...”. Parole, queste, tristemente profetiche.
Dalla trama riportata nell'Historia Augusta, appare manifesto quanto il destino di Geta fosse già segnato dagli omina e dagli indizi svelanti il tragico futuro del ragazzo: ciò fa pensare a un apporto storiografico artefatto a posteriori, perfettamente modellato su quello che sarebbe poi effettivamente accaduto.
Ma non dimentichiamo quanto i Romani adorassero gli oracoli, i vaticini e le interpretazioni celesti e ultraterrene. Adorava vestirsi con eleganza e ricercatezza, manifestando modi cordiali: per questo fu benvoluto dal popolo, dal Senato e dall'esercito, che si fece promotore della richiesta a Settimio Severo di associare al trono anche Geta, dopo che ciò era stato fatto col fratello più grande.
In realtà, il padre lo insignì del titolo di caesar fin dal 198, quando il piccolo aveva solo nove anni.
Questa benevolenza generale nei confronti del fratello minore esacerbò segretamente l'animo truce di Caracalla, che soffocò tuttavia i suoi malversi sentimenti intimorito dalla presenza carismatica del padre: ma l'astio montava in lui e nella sua cricca di accoliti.
Un giorno o l'altro, l'occasione per eliminare del tutto la fastidiosa presenza fraterna si sarebbe presentata: prima o poi, il grande Settimio Severo, già avviato alla senilità, avrebbe lasciato libero campo ai cattivi propositi del figlio maggiore e degli intrallazzatori di corte...
Nei primi anni del 200 dopo Cristo, Roma fu impegnata nella guerra in Britannia, e i compiti in seno alla famiglia vennero suddivisi: al padre andava la guida delle operazioni, a Caracalla il vice-comando dell'esercito, a Geta gli incarichi amministrativi e burocratici, mentre la madre si poneva a consigliere di fiducia del princeps.
Alla morte dell'imperatore, a York il 4 Febbraio 211, i due fratelli vennero acclamati entrambi imperatores, in una improbabile e poco gradita coabitazione.
Si trattava, tuttavia, solo di una calma apparente...Il destino del più debole dei figli di Severo era, a suo modo, già segnato.
Così, il 19 Dicembre dello stesso anno, il fragile e mite Geta fu ucciso tra le braccia di Giulia Domna, trafitto da alcuni centurioni inviati in qualità di sicari dall'impietoso Caracalla: il presagio di Geta di anni prima trovava, in tal modo, il suo funesto compimento.
Il ragazzo venne sepolto nel Settizonio, una sorta di ninfeo fatto edificare dal padre nel 203, alle pendici meridionali del Palatino.
In seguito la salma fu inumata nel mausoleo di Adriano per intercessione della zia Giulia Mesa; la madre non c'era più, lasciatasi morire d'inedia ad Antiochia, nel 217, addolorata allo stremo dall'assassinio di Caracalla: un figlio certo traviato, ma pur sempre figlio.
A render ancor più complicato l'accertamento della reale ubicazione del tumulo di Geta, va ricordata anche, sulla Via Appia, l'esistenza di un monumento funerario detto, appunto, Tomba di Geta.
Dopo aver deciso della morte del fratello, Caracalla ordinò la cancellazione del suo nome da tutte le iscrizioni ufficiali.
Inoltre, nello stesso periodo, in una sorta di generale resa dei conti furono uccise o proscritte circa ventimila persone, tra le quali Papiniano, ritenute sostenitrici dirette o indirette della fazione favorevole a Geta.
Sull'Arco di Settimio Severo, nel Foro romano, il nome di Geta venne abraso e sostituito dalle parole optimis fortissimisque princibus; inoltre le sua figura fu tolta dall'Arco dei Severi, a Leptis Magna.
Il tutto, nell'ambito di una straordinaria opera di damnatio memoriae, concertata da Caracalla con la volontà di far sbiadire per sempre nell'oblio il nome e il volto del ben poco amato fratello.
Infine una curiosità, che abbraccia maggiormente il mito letterario, piuttosto che la veridicità storica: Goffredo di Monmouth, nella sua “Historia regnum Britanniae”, sostiene che Geta fosse stato acclamato re britannico dalle legioni di York, dopo la morte del padre.
I Britanni, invece, avrebbero scelto Caracalla, il quale, dapprima, tentò inutilmente di far fuori il fratello durante i Saturnali; a Dicembre tuttavia vi riuscì, grazie alla spada complice di un suo ufficiale.
La triste fine di Geta, che raggiunse i Campi Elisi poco più che adolescente, testimonia una volta di più, se ancora ve ne fosse stato bisogno, quanto la brama di potere personale priva di scrupoli, raramente nel corso della Storia abbia guardato in faccia ad affetti, amicizie e parentele.
Non fu prerogativa della sola Roma assistere a sanguinosi intrighi di corte, congiure contro le quali rivestivano scarso valore i legami di sangue o quelli familiari.
Ma a Roma questa poco nobile pratica trovò terreno fertile nella decadenza etica e morale, nella frantumazione dei mores atavici, nella penetrazione inarrestabile di usi e abitudini lascivi, di stampo orientale sopratutto.
Caracalla, lo abbiamo visto, non si fece cruccio di sopprimere il fratello; ma come dimenticare icone di crudeltà come Nerone, indiscusso primatista in questa abominevole attività di eliminazione parentale? Non possiamo certo trascurare un tiranno come Commodo, che venne accoppato dai cortigiani, nel pieno della sua vigorosa e brutale vita, grazie ai poco affettuosi maneggi della concubina ufficiale, Marzia, resa ormai esausta dalle stravaganti e debosciate pratiche del marito, che si riteneva una reincarnazione di Ercole.
All'interno dei palazzi capitolini, dunque, potevano facilmente crearsi più fazioni, ciascuna supportante un esponente diverso della famiglia imperiale: e spesso i pugnali risolvevano le dispute e annacquavano le invidie con maggior efficacia e sollecitudine di una sobria dialettica.
Onori e nobiltà, ma anche miserie e intrighi alla corte dei grandi della terra: a Roma come ovunque, duemila anni fa come in ogni epoca.
E contro questo modus essendi tipicamente umano, a nulla, a conti fatti, valsero le ultime parole di Settimio Severo pronunciate ai figli sul letto di morte, parole che Dione Cassio ci riporta nella sua “Historia romana”:“Non state in disaccordo tra voi, rendete ricco l'esercito, e disprezzate tutti gli altri”.

Riferimenti bibliografici
ASTE ANTONIO (a cura), “La vita Getae dell'Historia Augusta”, Aracne, Ariccia, 2007;
GOFFREDO DI MONMOUTH, “Historia regum Britanniae”, Guanda, Milano, 2005.

Nell'immagine un presunto busto di Geta.Documento inserito il: 23/02/2015
  • TAG: impero romano, geta, caracalla, settimio severo, imperatore fratricida

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