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Fede, scienza e deismo nell’Inghilterra anglicana: lo sfondo teologico della cultura d’età newtoniana

di Davide Arecco


Illuminismo, newtonianesimo e religione protestante: il mito della modernità

Ancora oggi, nel nostro paese si fatica ad accettare le radici religiose della scienza inglese. Un pregiudizio probabilmente ideologico. Tuttavia, la storiografia britannica – e quella materialista, fra l’altro – ha messo in luce quelle radici, sin dai primi anni Sessanta del secolo scorso. Eppure, da noi si continua spessissimo a fare una filosofia della storia (e della scienza), ed a sovrapporla alla storia reale, confinando il Dio degli inglesi vissuti tra Sei e Settecento nel solo angolo di candide speranze senza voler vedere la verità dei fatti: tra XVII e XVIII secolo, prima in Inghilterra e poi in Scozia, la religione anglicana era alla base della nuova scienza, la nutriva e alimentava con somma generosità, chiedendole di dimostrare per via sperimentale certezze scritturali mai poste in discussione. Anche i Lumi, si sa, furono, a Nord della Manica, la creazione storica di una cultura affatto laica, moderata e conservatrice semmai, gelosa custode dell’ordine politico-religioso e socio-istituzionale. Sia prima, sia dopo Newton, il precoce Illuminismo inglese – precoce, rispetto a quello di Francia, e sotto tanti aspetti così diverso da esso – studiò i due libri di Dio, la Bibbia e la Natura, in maniera congiunta ed applicando, in termini rigorosi, quando non severi, il metodo scientifico, geometrico-sperimentale e induttivo-deduttivo: la scienza aveva il compito, supremo, di studiare la sapienza divina manifestata nelle opere della Creazione (vale a dire: i fenomeni naturali), per citare il famoso libro di John Ray, stampato nel 1691. Ray era come noto un botanico, il più grande botanico inglese prima della svolta impressa da Linneo (altro uomo di scienza protestante), nel 1735. La storia naturale e la geologia, in Inghilterra, nacquero anche e soprattutto per soddisfare imperativi etico-religiosi, accogliendo della Chiesa d’Inghilterra esigenze, richieste e aspettative. Non è dunque per nulla scorretto, né polemico, ricostruire il contesto teologico di una tradizione scientifica – quella inglese, appunto – che ebbe, al tempo della crisi della coscienza europea (e in contrapposizione con essa), una propria orgogliosa e precisa identità: se non nazionale (ripensiamo a Wallis), senz’altro almeno insulare.
Uno dei maggiori uomini di fede ed interlocutori inglesi della new natural philosophy – dopo il ritorno degli Stuart sul trono, con la Restaurazione monarchica, nel 1660 – fu Edward Stillingfleet (1635-1699), polemista aggerrito ed apologeta dell’anglicanesimo. Nato nel Dorset, da una famiglia originaria dello Yorkshire e del Sussex, entrò giovanissimo al St. John’s College di Cambridge e nel 1657 divenne vicario di Sutton, nel Berdfordshire. Nel 1665, Stillingfleet si spostò ad Holborn e poi a St. Margaret, testimone – come Samuel Pepys, segretario dell’ammiragliato – della grande peste e del great fire che colpirono Londra. Benvoluto alla corte di Re Carlo II, venne da questi affiancato, a partire dal 1678, al matematico e astronomo Christopher Wren, stuardista di ferro e massone, nella ricostruzione della Cattedrale di Saint-Paul, la cui riedificazione era nelle intenzioni degli anglicani il simbolo della rinascita religiosa inglese. Vescovo di Worcester (dal 1689), sovente speaker presso la Camera dei Lords, Stillingfleet fu uno degli uomini di chiesa più influenti della sua epoca.
A partire dal 1693 iniziò a supportare Richard Bentley, proprio mentre quest’ultimo entrava in corrispondenza con Newton – quel celebre carteggio sarebbe stato pubblicato ancora nel 1756 – e si faceva paladino del nesso (già caro anche a Robert Boyle, il padre della chimica, in Inghilterra) tra fede e scienza, da due anni, frattanto, ascoltatissimo a corte. La Regina Maria II aveva scritto su suo suggerimento ai magistrati della contea di Middlesex per promuovere azioni concrete in difesa della legge contro il vizio: il primo passo nella campagna della Society for the reformation of manners.
Stillingfleet fu altresì un gran collezionista e lettore di libri. La sua biblioteca arrivò a contare oltre diecimila codici a stampa (oggi, alla Marsh Library di Dublino), mentre la sua raccolta di rari e preziosi manoscritti, rilevata, in un primo tempo, da Robert Harley (1661-1674) – I Conte di Oxford e Mortimer ed, in seguito, ministro di Anna Stuart – passò al British Museum, nell’anno stesso della sua fondazione (1753). Primo Marchese di Dorchester, ammiratore di William Laud (l’arcivescovo di Canterbury, al tempo di Re Carlo I), ma in segreto estimatore anche della visione ecclesiologica e politica hobbesiana, esposta nel Leviathan del 1651, seguace erastiano dell’alleanza tra fede e storia naturale, Stillingfleet fu il leader indiscusso, all’interno della Chiesa di Inghilterra, della corrente di orientamento intellettuale latitudinario, ispirata ai platonici di Cambridge, che avevano introdotto in Inghilterra la matematica cartesiana, ed avevano avversato le derive materialiste del meccanicismo moderno. Fedelmente appoggiato da Gilbert Burnet, Benjamin Hoadly e William Whiston (uno dei primissimi geologi newtoniani inglesi), allineato alle vedute dell’High Church, Stillingfleet fu forse in Inghilterra il più tenace nemico dell’aristotelismo kircheriano ed un antesignano del razionalismo illuministico anglo-britannico settecentesco. Fautore al pari di Newton e Bentley del letteralismo, in sede di interpretazione dei testi sacri, e pertanto pugnace avversario dell’esegesi allegorica, insieme a Thomas Tenison (1636-1715) fu Stillingfleet a radicare, in via definitiva, in Inghilterra, la teologia arminiana olandese: una operazione che lo vide dialogare, proficuamente, anche con i presbiteriani scozzesi. Ne fa fede una delle sue opere più importanti, l’Irenicum del 1659, libro influenzato anche da John Selden, cultore dello Stato, già amicissimo e sodale di Hobbes.
Stillingfleet fu ampiamente in sintonia con la scienza inglese ed europea del secondo Seicento e si interessò all’opera astronomica di Halley e all’indagine tecnico-scientifica riguardo alle leggi di natura scritte da Dio, sulla Terra e nel cosmo, attraverso numeri e figure. Fine e colto controversista, Stillingfleet pubblicò scritti che restano classici dell’anglicanesimo ortodosso secondo-seicentesco, ricchi di riferimenti dottrinali e di rimandi eruditi: le note Origines Sacrae, Or, A Rational Account of the Grounds of Christian Faith, as to the Truth and Divine Authority of the Scriptures (1662), il Rational Account of the Grounds of Protestant Religion (1664), la Unreasonableness of Separation (1680, rielaborata integralmente come The Mischief of Separation sette anni più tardi). Si tratta ogni volta di libri di argomento storico-religioso, rivolti all’occorrenza contro i separatisti, dissenters, ex puritani, come John Owen e John Howe. Coi non-conformisti – come Richard Baxter (1615-1691), ministro di culto amiraldiano a Dudley e a Bridgnorth, Kidderminster e Gloucester, estensore di The Reformed Pastor, nel 1657 – Stillingfleet si incontrò peraltro per una riconciliazione, nel 1674. Altri suoi attacchi rivolse inoltre al panteismo spinoziano (A Letter to a Deist, 1677), ma, in particolare, a Locke e all’allora crescente schiera anglo-olandese di sociniani e unitariani (che comprendeva pure Newton): in difesa del trinitarismo, e contro di loro, compose, infatti, A Discourse in Vindication of the Doctrine of the Trinity, accorata difesa, irenistica, della tradizione cristiana. In questo almeno, il custode ed alfiere della via anglicana al binomio fede-scienza non differiva in fondo dagli avversati cattolici di Roma. Fra l’altro, legatissimo agli Stuart da forti rapporti di patronage e autore nel 1672 del Discourse Concerning Idolatry (seconda, per avversione al papismo, solo alle carte manoscritte newtoniane), delle Doctrines and Practices of the Church of Rome (1686), e delle postume Several Conferences Between a Romish Priest, a Fanatick Chaplain and a Divine of the Church of England (1710), Stillingfleet ben sapeva che il suo Re, Carlo II, era nascostamente cattolico. Fu il solo e vero dramma della sua vita, l’unico al quale non poté trovare risposte, né azzardare repliche, limitandosi soltanto a negare in pubblico la cosa più volte, con prediche accorate e appositi pamphlets.
Stillingfleet fu non solo un dotto teologo e un profetta del connubio latitudinario tra scienza e religione, ma anche un antichista, un ottimo conoscitore dei classici greco-latini, ed un antiquario di razza: le Origines Sacrae, concepite dal loro autore come una strenua difesa del Genesi biblico e del creazionismo scientifico sottoscritto anche da Boyle e Newton, comprendevano anche una estesa ed elegante analisi di singoli punti della storia antica. L’opera rappresentò, per Stillingfleet, anche una occasione, imperdibile, per controbattere alle fantasie pre-adamitiche del francese Isaac La Peyrère (1596-1676), libertino e millenarista di Bordeaux. Non solo. Le Origines Sacrae costituirono anche un compendio di storia antica di Celti e Britanni, includendo in appendice una confutazione dei falsi dell’umanista Annio da Viterbo. All’antiquaria, Stillingfleet dedicò, poi, un altro suo celebre scritto, le Origines britannicae (1685), consacrate alle antichità delle prime chiese inglesi. Affine ad esse fu il Discourse of the True Antiquity of London, apparso nel 1704, come seconda parte dei voluminosi Ecclesiastical Cases, e rivolto allo studio della Londra romana. Sei anni dopo, il chierico e biografo Timothy Goodwin pubblicò di Stillingfleet la prima edizione integrale delle Works e poi nel 1735 la Life and Character. L’interesse per la figura e l’opera di Stillingfleet rimase vivo nel Regno Unito del XVIII secolo anche perché John Wesley (il più grande riformatore religioso del Settecento) fece ristampare estratti dagli aforismi e dalla Justification di Baxter, l’uomo di lettere puritano contro cui il vescovo di Worcester aveva preso posizione, durante la sua battaglia contro i dissenzienti radicali sopravvissuti alla Guerra dei Tre Regni (1639-1651).
Nella funzione di decano di Saint-Paul, a Stillingfleet succese – vicinissimo a lui nelle vedute e, come lui, predicatore in difesa della ragione scientifica e della religione naturale, sposate tra loro – John Tillotson (1630-1694). Originario di Sowerby, formatosi a Cambridge (ove studiò fra il 1647 e il 1650), nel 1661 Tillotson venne inviato in missione diplomatica in Alta Savoia. Curato e rettore di Kedington, nel Suffolk, a partire dal 1663, dall’Atto di Uniformità, dell’anno prima, Tillotson fu identificato dai contemporanei come la più autorevole voce inglese dei presbiteriani di Scozia. Con l’amico Stillingfleet si adoperò del resto a lungo, per farne incontrare le concezioni con quelle degli anglicani. Grande studioso di testi patristici, grazie agli appoggi di John Wilkins – tra i fondatori nel 1662 della Royal Society, matematico di impostazione galileiana – Tillotson entrò, come docente, al Trinity College di Cambridge, ove fu collega di Newton (da poco succeduto a Barrow sulla cattedra lucasiana di matematiche). Fra le mura della prestigiosa Università cantabrigense, Tillotson difese, in collaborazione con Stillingfleet, il credo arminiano, e favorendo la sua accettazione, in seno alla Chiesa di Inghilterra, e contribuendo a codificare il modello latitudinario di sapere, moderatamente tollerante e incline ad incorporare nella tradizione teologica del protestantesimo inglese le conquiste della nuova scienza. Al pari di Stillingfleet, non gli faceva difetto uno spirito battagliero, e propenso alle polemiche più vivaci: in tale veste, combatté energicamente gli atei e i fuoriusciti puritani, oltre al prete cattolico John Sargeant (1621-1707), teologo del Lincolnshire attivo a Durham.
Tra il 1672 ed il 1674, Tillotson divenne prima decano di Canterbury e poi fellow della Royal Society. Nel 1675, pubblicò i Principles of Natural Religion di Wilkins, il manifesto della scienza devota praticata in Inghilterra, testo base per la successiva generazione dei Boyle Lecturers. Grande eco ebbe, quindi, nel 1684, il discusso Discourse Against Transubstantiation. Nell’età di Guglielmo e Maria, Tillotson divenne grazie all’amicizia di Lady Russell un favorito a corte, esercitando anche sotto il regno di Anna (la più anglicana di tutti i monarchi Stuart) una decisiva influenza, specie nel campo della politica ecclesiastica anglo-britannica. Fra l’aprile del 1691 e la fine del 1693, inoltre, fu impegnato nel delicato compito di allontanare da sé le accuse di arianesimo (la segreta fede sia di Newton, sia di Clarke, come non a torto avrebbe sospettato Voltaire, in seguito). Alla sua prematura scomparsa, molti sermoni lasciati manoscritti da Tillotson furono dati alle stampe – in più volumi, sino al 1704 – dal libraio e stampatore Ralph Barker, unitamente al Rule of Faith. Tuttavia, fu solo nella Gran Bretagna dell’Illuminismo che l’opera di Tillotson vide la luce, nella sua completezza: il segretario della Royal Society Thomas Birch (1705-1766) – quacchero e traduttore inglese di Bayle, storico della accademia scientifica londinese ed editore delle opere di Cudworth e Boyle – pubblicò nel 1752, in tre tomi, la Life of John Tillotson, attingendo con frutto alle carte originali, e alle lettere private dell’arcivescovo di Canterbury, carica ricoperta da Tillotson fra 1691 e 1694 (succedendo in tale ruolo a Sancroft e precedendo Tenison). Nei suoi scritti, su tutti il Sermon Concerning the Unity of the Divine Nature and the Blessed Trinity e la Persuasive to Frequent Communion in the Holy Sacrament of the Lord’s Supper, Tillotson si dimostrò, forse persino più di Stillingfleet, influenzato dai platonici di Cambridge (Cudworth, Chillingworth e quel More che fu maestro pure di Newton) e fece ogni sforzo possibile, sul piano e culturale e istituzionale, per realizzare l’unificazione religiosa dell’Inghilterra. L’interesse verso l’opera del teologo anglicano fu notevole anche in Olanda, grazie alla versione dei suoi Sermons sur diverses matières (1708-1709) per mano di Jean Barbeyrac.
A traghettare la cultura teologico-scientifica di marca latitudinaria di Stillingfleet e Tillotson verso i lidi dell’Illuminismo fu, nel Regno Unito del primo Settecento, lo studioso di storia antica, biblista e sacerdote della Chiesa anglicana William Wollaston (1659-1724), fine teologo e filosofo naturale. Fra i padri dei Lumi inglesi, fiero apostolo sulla scia di Stillingfleet e Tillotson dell’unione di scienza e fede nei quadri della religione naturale – nonché profeta del mito, e sei e settecentesco, della pubblica felicità, cardine della Dichiarazione d’Indipendenza americana, a fine secolo – nativo di Shenstone, Wollaston si formò anche a lui a Cambridge, a contatto con il platonismo inglese e la nuova cultura matematico-sperimentale. Presi gli ordini sacri a Birmingham nel settembre del 1681, fu nominato, fra il 1684 e il 1686, curato perpetuo della Chiesa di St. Mary, a Moseley. A partire dal 1688, visse, infine, tra il maniero di Finborough, il Leicestershire e Londra. Qui, pubblicò, anonimo, l’On the Design of the Book of Ecclesiastes, or the Unreasonableness of Men’s Restless Contention for the Present Enjoyments, represented in an English Poem nel 1691. Altro scritto importante fu la Word of Warning in the Last Days, replica a Pym ed agli avventisti. Ma il capolavoro di Wollaston, stampato privatamente nel 1722, fu senz’altro la Religion of Nature Delineated, libro che incontrò a Filadelfia e presso le colonie inglesi d’America una rimarchevole eco, occasionando la Dissertation on Liberty and Necessity di Franklin (1726) e poi gli Elementa philosophica (1752) del reverendo e pedagogo illuminista d’oltreoceano Samuel Johnson (1696-1772), enciclopedista e storico.
A cavallo tra scienza illuminista, religione e storia, la Religion of Nature Delineated – che fu riedita, in Inghilterra, ancora nel 1750 – non è un libro facile, scritto in un inglese affascinante, ed al contempo criptico, zeppo di arcaismi e soprattutto di citazioni vetero-testamentarie. A tratti, pare di intravedere fantasmi ermetico-occulti e mistico-cabbalistici, poi subito smentiti, dal prosieguo della trattazione. Questa è frutto di ricerche durate una vita, affidate in principio ai manoscritti bruciati da Wollaston, sia una volta terminata la stesura dell’opera, sia negli anni tardi. Pressoché impossibile, pertanto, un lavoro di raffronto tra la versione primeva – più d’una, forse – e quella a stampa. Ad un primo sguardo, l’argomento della Religion of Nature Delineated sembra chiaro e, persino, semplice: Wollaston mirava ad approntare un sistema morale, senza dovere, necessariamente, fare ricorso alla religione rivelata e al monoteismo, altrimenti professato in termini apertamente volontaristici, sia da Newton sia dalla cultura anglicana sei-settecentesca. Wollaston impiegava il linguaggio matematico della nuova scienza, per creare un razionalismo etico, geometrizzando valori e sentimenti morali. Si potrebbe pensare a Spinoza, ma in realtà il modello resta l’Euclide newtoniano – gli stessi Principia erano stati scritti volutamente da Newton, che pure aveva già messo a punto il calcolo analitico, con una facciata ellenizzante – l’autentica chiave per contemplare e comprendere, in maniera scientifica, la Creazione divina. Newton aveva ricavato le leggi naturali da un modello, matematico, del mondo fisico. Similmente, Wollaston intendeva elaborare un’ethica more geometrico demonstrata in grado di rendere accettabile lo spinozismo anglo-olandese e di armonizzarlo senza contrasti con il credo di anglicani e latitudinari, sino a tratteggiare un modello matematico dell’universo morale. Proposito, insieme, ambizioso e controverso. Il successo del libro fu notevolissimo: nelle sole prime settimane dalla stampa, la Religion of Nature Delineated vendette oltre diecimila copie, arrivando a quindici ristampe prima del XIX secolo. Fu forse l’ultima grande teologia scientifica dell’Illuminismo anglo-britannico settecentesco, sospesa fra aperture deistiche e retaggio anglicano.
Per un verso, la Religion di Wollaston ispirò (e rivitalizzò) gli indirizzi del deismo inglese, ne rappresentò l’apice, ed una sorta di coronamento e sistematizzazione. Un deismo – si badi bene – di impronta cristiana. E, qui, giungiamo al nocciolo della questione. Di solito, la storiografia ha voluto vedere in anglicanesimo e deismo – detto altrimenti, nella religione razionalistica newtoniana e nel panteismo degli illuministi radicali (Toland, Collins e Tindal) – due blocchi monolitici, in contrasto, irrinunciabile e netto, fra di loro. Ma si tratta di un errore interpretativo, di una forzatura, che rifiuta sfumature e zone grigie, il sale della storia. Il deismo di Wollaston strizza, più e più volte, l’occhio alla tradizione latitudinaria di anglicani come Stillingfleet e Tillotson, smorzandone solo ortodossia e toni. Viceversa, molti esponenti della Chiesa di Inghilterra, moderate literati anglo-scozzesi e voci di un Illuminismo conservatore, scientificamente newtoniano, lessero con interesse e senza scandalo l’opera magna di Wollaston, intenzionati ad espungerne i risvolti non riportabili al cristianesimo dei chierici protestanti e ad assorbirne moltissime suggestioni, opportunamente cristianizzate (è ovvio): una chiave di lettura alla quale, d’altra parte, lo stesso Wollaston aveva lasciato aperta la porta, con un libro che si muoveva sottilmente sul confine – storicamente sempre mobile, come prova l’azione massonica in Inghilterra e Olanda tra XVII e XVIII secolo – fra deismo e anglicanesimo. Numerosi, del resto, furono quei newtoniani che abitarono su entrambe le sponde di quella (soltanto apparente) contrapposizione, assai abili e disinvolti nel dialogare con ambedue le correnti.
Meno convincente, semmai, appare l’influenza (labile, in vero), che Wollaston esercitò sulla Scuola scozzese del senso comune e del realismo scientifico – anche se Hutcheson, Hume e Price si volsero con viva curiosità e partecipazione intellettuale alla Religion – e più tardi sull’utilitarismo di Bentham, al tempo ormai della Rivoluzione industriale anglo-britannica.


Geologia e cristianesimo: il contesto della scienza latitudinaria e delle dispute trinitarie

Analogamente a Wollaston (e non molto prima di lui), un’altra – singolare, ma caratteristica – commistione di tradizione anglicana e deismo albergò nelle pagine di Thomas Burnet (1635-1715), teologo e naturalista inglese, nato a Croft (presso Darlington), e formatosi a Cambridge. Burnet, nel 1681, pubblicò la Telluris theoria sacra, stampata in inglese, tre anni dopo, come Sacred Theory of the Earth, poi ampliate nella nuova edizione del 1689. Tra i libri che Salvatore Rotta aveva più cari, da lui considerato un sublime manifesto delle tensioni irrisolte nella cultura e tardo-barocca e proto-illuministica, l’opera geologica di Burnet univa nuova scienza e cosmogonia biblica. Il passato ed il futuro convivevano, a stretto contatto, nel capolavoro di Burnet, autore, fra l’altro, anche delle Short Considerations of Mr. Erasmus Warren’s Defence (1691) e del trattato, postumo, De Fide et officiis Christianorum (1723), nonché, a Londra, nel 1692, delle Archaeologiae philosophicae sive doctrina antiqua de rerum originibus, libro che, fra le molte altre cose, contribuì a trasformare l’antiquaria di Stillingfleet in archeologia del sapere a tutti gli effetti, spaziando dalla (nascente) geologia a letture eterodosse e simboliche del peccato di Adamo che generarono a Canterbury non poco imbarazzo.
La Telluris theoria sacra, il cui primo volume apparve solo un anno dopo la collaborazione di Burnet con Tillotson (1683), era la dichiarazione di intenti di uno scrittore dalla marcata eloquenza e dalla pronunciata vis oratoria. La storia del mondo vi era suddivisa in cinque epoche: il periodo che comprende il Caos originario e la vita paradisiaca sulla Terra, sino al Diluvio biblico; quindi l’età diluviana; un periodo dall’epoca successiva a Noè sino all’età moderna; il momento poi della conflagrazione, che riporta il mondo al Caos primigenio, ed infine il Regno di Dio, instaurato sulla Terra (quest’ultimo tema, già caro alle escatologie messianiche del puritanesimo, nonché al Newton studioso e dell’apocalisse giovannea e delle profezie di Daniele). Nella sua storia sacra della Terra, convinto che il Diluvio descritto nella Bibbia avesse colpito tutto il globo, Burnet calcola che – per sommergere tutto il pianeta – sarebbe occorsa una quantità di acqua pari a sei (o forse anche a otto) oceani: non essendo questo possibile, egli ipotizza che la Terra avesse, dunque, una struttura diversa dall'attuale. Ricoperta da una sottile crosta, essa era cava al suo interno – un omaggio, e forse non solo erudito, al mito del mondo sotterraneo, caro tra Seicento e Settecento anche ad Halley, Eulero, Holberg e Casanova – e riempita dalle acque, mentre un nucleo centrale più interno racchiudeva la materia incandescente: di fatto, una prefigurazione della ipotesi plutonista, elaborata da Hutton, nel 1788, ad Edimburgo. Inoltre, la differente inclinazione del suo asse permetteva alla Terra, stando a Burnet, di beneficiare di una sorta di costante primavera. Con il tempo, la crosta terrestre si spaccò, anche per l’azione dei continui terremoti, e le acque interne, riscaldate dal nucleo incandescente, fuoriuscirono in modo violento, sommergendo il pianeta. Con il ritiro delle acque, la Terra apparve infine per Burnet mostrando l’aspetto attuale, costituito da monti, valli e mari.
Newton ammirò il taglio teologico della interpretazione scientifica di Burnet, suggerendogli anche la possibilità che Dio avesse creato la Terra in più giorni. In generale, i newtoniani di Londra e di Cambridge approvarono la conciliazione di scienza e fede intrapresa da Burnet, tenace assertore del Genesi ed incline a utilizzare le nuove scoperte scientifiche per ampliare le concezioni religiose del suo tempo, in merito, sia al mondo (la realtà fenomenica, creata da Dio, e studiata dalla scienza), sia all’uomo (visto, tradizionalmente, come il vertice della Creazione). Tante sono nella Telluris le fonti d’ispirazione: i platonici di Cambridge, il sincretismo storico-religioso di Herbert di Cherbury (non distante in fondo da certe istanze di Hobbes), l’atomismo lucreziano, la letteratura deistica (di Martin Clifford, tra gli altri), il tutto fuso assieme in maniera non facile, ora con allusioni ed ora con affermazioni esplicite pure piuttosto forti. Pensiamo, ad esempio, alle sue osservazioni quanto meno pungenti riguardo alle pratiche liturgiche. In contrapposizione con il De Sacramentis del Cardinale Bellarmino, Burnet vide nel battesimo solo un rito esorcistico con cui – mediante la nota formula di rinuncia a Satana – allontanare il Diavolo dai bambini. Un assunto al quale il teologo inglese giunse rileggendo, sia il De Schismate Donatistarum di Ottato (secolo IV), sia la Interpretatio in Canticum di Teodereto di Cirro (secolo V). Quest’ultimo aveva visto nel battesimo un rito eseguito attraverso un unguento atto a simboleggiare, congiuntamente, la ricezione dello Spirito Santo e l’approvazione del re, pertanto un sigillo religioso e reale. Agli occhi di Burnet, sconfinante qui nell’eresia, l’uomo nasceva senza peccato e responsabile delle proprie azioni, libero di avere le proprie opinioni, che si potevano tenere per sé (quello che fece Newton, in materia di cristologia), o esporre pubblicamente in modo pacifico e modesto (cosa che Burnet fece di rado, litigando con moltissimi esponenti della Royal Society, una comunità scientifica già di per sé non sempre concorde, su più questioni).
Per Burnet, battezzare era quindi una inutile pratica magica. Altro riti privi di efficacia erano, secondo lui, l’eucarestia e la assoluzione del peccatore. Inoltre, nel suo razionalismo illuministico di marca qui alquanto radicale, Burnet contestava alle chiese il diritto di convocare concilii – come per Hobbes, di sola pertinenza del potere civile – e di imporre dogmi, stante la libertà individuale nella esegesi religiosa. Anche nelle controversie pubbliche, l’ultima parola doveva spettare, a suo avviso, all’autorità politica ed al potere civile. Altri aspetti hobbesiani. Tali idee di Burnet, un esponente di spicco dell’Inghilterra anglicana e un personaggio assai discusso anche in patria, attirarono presto le attenzioni di Roma. Il confronto fra gli scritti di Burnet, posti in rapporto con le polemiche religiose (inglesi ed europee), e le obiezioni dei censori pontifìci, dimostrano quanto fosse profondo l’abisso che separava, non solo i paesi protestanti del Nord Europa, dalle gerarchie della Chiesa romana, ma anche dai cattolici illuminati italiani, come Ludovico Antonio Muratori, peraltro in corrispondenza con Newton, e membro della Royal Society. A Roma, la Telluris Theoria Sacra fu messa all’Indice nell’aprile del 1739. Dal maggio di cinque anni prima, il tribunale dell’Inquisizione aveva posto, fra i libri proibiti, anche, di Burnet, il De Fide e la sua ultima opera, il trattato De Statu Mortuorum et Resurgentium – completato nel 1720 e circolato, in principio, solo manoscritto, stampato nel 1723 e tradotto in francese nel 1731, condannato anche dalla Chiesa d’Inghilterra – per via della tesi circa il ‘sonno delle anime’, prima del giorno del giudizio finale: di fatto, una ripresa della vecchia eresia mortalista del libellista Richard Overton e di John Lilburne, il livellatore di Sunderland.
Mito, ragione, rivelazione e creazione si rincorrono e sovrappongono, più che alternarsi, nella storia burnetiana del mondo, ove teologia e scienza intrecciano i propri piani ed ove Burnet narra di uomini e società, che vivono in mezzo alle rovine: un tratto che stempera il suo cauto Illuminismo, e squaderna già il mondo dei romantici che verranno: nel progresso, nessuna fiducia; la civiltà per Burnet solo un’illusione storica. Assunti, questi, che d’illuministico hanno stavolta ben poco.
Burnet, come lo stesso Newton (famosa è la lettera del primo al secondo del 13 gennaio 1680, custodita oggi fra i Manoscritti Keynes del King’s College di Cambridge), non lo ammise mai ma la sua era anche una rielaborazione dotta e un contraddittorio caleidoscopio di tensioni millenaristiche ed ansie profetiche (da lui razionalizzate in chiave illuministica) le quali rimontavano all’Inghilterra puritana: non una nostalgia politica – e nemmeno per Newton, quando i due entrarono in contatto, per via epistolare – semmai una valorizzazione del paleo-cristianesimo, e della sola autorità di Gesù e degli Apostoli, nella convinzione da entrambi condivisa che la storia ecclesiastica, successiva alla prima età di Cristo, sia stata costellata da troppe incrostazioni idolatriche, andate aggiungendosi, via via nel corso del tempo, all’altrimenti incontaminata purezza del messaggio divino originario.
Alla storia religiosa e della Terra e delle nazioni, alla cronologia sacra, studiata utilizzando gli strumenti metodologici della nuova scienza, al tema dell’origine delle monarchie (affrontato, fra il 1693 e il 1694, pure da Newton) si volse anche il vescovo di Gloucester, critico letterario e uomo di chiesa William Warburton (1698-1779), nativo di Newark, nel Nottinghamshire, e classicista, attivo nei circoli londinesi dal 1726, laureatosi due anni più tardi a Cambridge, e protégé di Robert Sutton e della Regina Carolina. Nella residenza di Brant Broughton, Warburton lavorò per quasi vent’anni alla stesura della sua Alliance between Church and State (1736). Il libro fu molto apprezzato a corte e gli garantì un solido avanzamento sociale (nel 1757 sarebbe divenuto il decano di Bristol). Editore di Shakespeare, e dell’amico Pope – cattolico, newtoniano e libertino, nel medesimo tempo – da lui Warburton fu introdotto nella cerchia accademica di William Murray (in seguito Lord Mansfield), prima a Lincoln’s Inn e poi a Prior Park: l’apice d’una carriera di successo.
Nel 1727, Warburton fu l’autore della Critical and Philosophical Enquiry Into the Causes of Miracles, libro che riportava il deismo – il Blount dei Miracles, no Violations of the Laws of Nature (1683) e la Christianity not Mysterious tolandiana – nei quadri rassicuranti del design argument del clero anglicano. Altrettanto importante ed indicativa del suo desiderio di ricomposizione fu tra 1738 e 1741 la Divine Legation of Moses demonstrated on the Principles of a Religious Deist. Tradizione mosaica, difesa anglicana della religione rivelata, avversione per il metodismo (poi combattuto nei sermoni del 1762), ed aperture verso il deismo – per disinnescarne la portata più irregolare – sono le coordinate della Divine Legation di Warburton. Essa, nonostante le intenzioni, non è molto lontana dalle vedute dello storico inglese Conyers Middleton (1683-1750), l’erudito e biografo di Cicerone, viaggiatore in Italia nel 1729, fine studioso del cristianesimo primitivo, in bilico fra protestantesimo latitudinario, ortodossia anglicana e deismo: territori spirituali coabitati, fra XVII e XVIII secolo, da numerosissimi newtoniani e fellows della Royal Society londinese, all’alba dei Lumi europei.


Per Ale, questo mondo che ora è anche suo


Nell'immagine, la pagine di copertina de Le Origines sacrae di Edward Stillingfleet


Bibliografia

Fonti primarie a stampa

Richard BAXTER, The Reformed Pastor, Simmons, London, 1657.
Richard BAXTER, L’opera del pastore, Passaggio, Mantova, 2003.
Richard BAXTER, The Life of Faith, Gale Ecco Print Editions, 2018.
Richard BAXTER, Compassionate Warning and Advice to All, Gale Ecco Print Editions, 2018.
Richard BAXTER, The Causes and Danger of Slighting Christ, Gale Ecco Print Editions, 2018.
Richard BAXTER, A Treatise on Conversion, Gale Ecco Print Editions, 2018.
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Documento inserito il: 05/01/2024
  • TAG: Settecento anglo-britannico, deismo, storia della cultura europea, Canterbury, Cambridge, geologia, Illuminismo inglese, newtonianesimo, storia moderna, anglicanesimo

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