Cookie Consent by Free Privacy Policy website Tutto storia, approfondimenti: Archeologia del sottosuolo parte V: Lavoro nel sottosuolo: il campo di battaglia
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Archeologia del sottosuolo parte V: Lavoro nel sottosuolo: il campo di battaglia

1. Lavorare nel buio

La miniera racchiude in sé il sudore e l’ingegno dell’uomo, ma anche la sua necessità di materie prime e l’avidità, pagate a caro prezzo da colui che vi lavorava e vi lavora: il minatore. A sottolineare la pericolosità del mestiere, aumentata con l’uso dell’esplosivo, Simonin intitola così il capitolo VIII della sua opera inerente le miniere di carbone nel XIX sec.: “Il campo di battaglia”. E ci dice: «Les quatre éléments des anciens, le feu, l’air, la terre, l’eau, sont conjurés contre lui. Le feu le menace dans les coups de mine, les incendies du charbon, les explosions du grisou; l’air, en se raréfiant ou mêlant à des substances méphitiques, détonantes; la terre, dans les éboulements; l’eau, dand les inondations. Le houilleur oppose à tous ces ennemis, souvent invisibles, ce calme stoÏque, ce courage à toute épreuve, cette science pratique qui font les vaillants et habiles mineurs» [Simonin 1867, pp. 156-157]. Era il campo di battaglia dove la povera gente combatteva contro la miseria.


2. Lo sfruttamento delle risorse: cave e miniere

Si distinguono due tipi di opere estrattive: cava e miniera. Con il primo termine s’indicano le coltivazioni di rocce incoerenti e coerenti, con il secondo quello di minerali utili. Nel tempo si riscontra l’evoluzione dei sistemi di ricerca, di abbattimento e di trasporto della roccia e del minerale, unitamente ai sistemi d’illuminazione, di eduzione delle acque, di ventilazione, etc. Occorre sottolineare che, allo stato attuale delle ricerche, dalle coltivazioni neolitiche dei filoni selciferi a tutto il periodo medievale, i sistemi di estrazione non vedano (in linea generale) grandi evoluzioni; vi è più uno sviluppo del materiale che costituisce gli attrezzi per l’abbattimento e il trasporto che l’organizzazione razionale del lavoro. Nell’arco di pochi secoli abbiamo poi l’impiego, in rapida successione e costantemente in evoluzione, di una strumentaria efficace, della polvere nera, dell’energia elettrica, delle macchine perforatrici a vapore, della nitroglicerina, del filo elicoidale (nelle cave), della dinamite e dei motori a scoppio. In particolare, la progressiva introduzione di materiali esplodenti, largamente utilizzati nelle miniere, determina dal XVII sec. la modifica dei sistemi di avanzamento.

In ogni caso occorre tenere conto che in ambito minerario l’impiego di mine può essere stato applicato anche in precedenza e non solamente nel continente europeo, ma non ne è rimasta menzione o tale menzione deve ancora ‘sorgere’ dagli archivi. Ad ogni buon conto così ci istruisce Vergani: «Si è già anticipato in precedenza come l’impiego delle mine nelle miniere metallifere costituisca, sotto l’aspetto quantitativo, il più importante degli usi civili della polvere nera nei secoli XVII e XVIII. Ma prima di entrare nel vivo del nostro tema è bene sgombrare il campo da un paio di leggende prive di fondamento che ancora circolano in materia, e che riguardano il presunto utilizzo della polvere da sparo l’una nelle miniere di Rammelsberg, nel Harz, durante il secolo XII, l’altra nelle miniere d’oro della Transilvania verso il 1395-96. Nel primo caso si è fatta chiaramente confusione con l’antica tecnica del lavoro a fuoco, molto praticata nel Harz fin dalle origini dell’attività mineraria in quella regione. Quanto al secondo, si tratta di un equivoco nato a suo tempo dalla lettura di un testo francese ottocentesco dove si parla in realtà non di mines ‘miniere’ ma di mines ‘gallerie sotterranee scavate a fini militari’; la notizia, infarcita di qualche fantasia, è poi passata nella letteratura tecnica rumena dove si trova ripetuta acriticamente fini ai giorni nostri. In realtà, come abbiamo già dimostrato, la prima esperienza di uso della polvere nera nelle miniere metallifere è quella di Giovanni Battista Martinengo, a partire dal 1574, nei monti di Schio. Ma ancor più importante, ci sembra, è che nella documentazione che la riguarda appaia la prima sia pur concisa, ma netta e incontrovertibile, descrizione dell’aspetto specifico della nuova tecnica, il foro da mina (böhren und schiessen, boring and shooting, drilling and shooting): il Martinengo, scrive vent’anni dopo Filippo de Zorzi, funzionario minerario della Repubblica di Venezia, “facendo un piciol foro nel sasso della montagna con la polvere dell’artigliaria voleva aprire per forza, et spezzare il monte, et così discoprire quello che là dentro vi si stava nascosto”. Per avere una testimonianza altrettanto vivida e diretta del foro da mina e della sua utilizzazione in miniera bisogna aspettare quasi settant’anni, quando, nel 1643, Caspar Morgenstern si sposta dal Harz a Freiberg in Sassonia, per darne una dimostrazione pratica» [Vergani c.s., pp. 7-8].

Per quanto riguarda, invece, la situazione nelle cave: «Benché nella letteratura tecnica antica si affermi che l’uso della polvere nera nelle cave di pietra risalirebbe a ben prima, le nostre ricerche non hanno portato alla scoperta di testimonianze anteriori al XVII secolo. La più antica data al 1621, quando una cronaca della cittadina di Bautzen in Sassonia narra con una certa ricchezza di particolari (le dimensioni della camera e il peso della carica, pari, quest’ultimo, a 11-12 libbre di esplosivo) l’uso di una mina nella cava locale; precisando tuttavia subito dopo che l’esperimento si è rivelato poco conveniente in considerazione delle alte spese in polvere nera (H.W. Wind, Die Entwicklung des Zündens von Schwarzpulververladungen von den Anfängen bis zur Erfindung der brisanten Sprengstoffe, in Bergbau. Zeitschrift für Bergbau und Energiewirtschaft, 46, 1995, p. 459)» [Vergani c.s., p. 5].

Gli ultimi decenni del XX secolo vedono una ancor più rapida evoluzione, con l’introduzione di moderni macchinari automatici: il martello perforatore ad aria compressa diventa un oggetto da museo. Questo è vero nella gran parte dei casi, ma non in tutti. Si tenga presente che in talune miniere ancora in attività nella seconda metà del XX sec. si adoperavano (e si adoperano) prevalentemente (o esclusivamente) strumenti manuali per l’abbattimento e il trasporto a causa delle ristrette condizioni economiche. Oggi in Europa la gran parte delle miniere è chiusa, preferendo importare le materie prime da altri continenti. Soluzione dettata dagli alti costi della manodopera e dal mantenimento degli impianti, più che dall’esaurimento dei giacimenti.

Ecco un rapporto della Regione Lombardia: «Le attività estrattive rappresentano uno dei più importanti interventi di modifica definitiva e rilevante dell’ambiente e dell’assetto urbanistico territoriale, anche in aree di alto valore naturalistico. Lo stretto e delicato rapporto tra problematiche economico-occupazionali e l’esigenza di tutela del territorio, nonché la caratteristica dei giacimenti quale risorsa naturale non rinnovabile, determina l’assoluta necessità di governare la materia attraverso adeguati strumenti normativi, di pianificazione, autorizzativi e di controllo» [AA.VV. 2003, p. 163]; (consultare utilmente il sito: www.arpalombardia.it).

Le coltivazioni possono avvenire sia a cielo aperto sia nel sottosuolo, anche utilizzando contemporaneamente entrambi i sistemi. Non di rado vi sono cave e miniere a giorno che evolvono in sotterraneo; in tempi recenti le scelte sono dettate anche dall’impatto ambientale che altrimenti si causa. La natura e la giacitura di ciò che s’intende estrarre, la sua dislocazione, l’organizzazione dei cantieri e il sistema con cui si procede all’estrazione, determina il metodo di coltivazione. Le “coltivazioni a giorno” si distinguono a seconda della loro collocazione [Padovan 2005, pp. 12-16]. Tralasciando le coltivazioni in falda abbiamo “coltivazioni di pianura” e “coltivazioni di monte” (pedemontane, a mezza costa, culminali), suddivise tra “coltivazioni di materiali incoerenti” e “coltivazioni di materiali coerenti”, quest’ultima a sua volta suddivisa a seconda che si voglia una forma regolare o irregolare del prodotto [Gerbella 1948, pp. 1-3. Frare 1996, pp. 29-62].

In Italia le miniere sono del patrimonio pubblico indisponibile dello stato o delle regioni; lo sfruttamento può essere affidato a privati tramite concessioni amministrative. Le cave e le torbiere possono essere invece lasciate alla libera disponibilità del proprietario del fondo, con la condizione che vengano sfruttate in osservanza delle leggi vigenti [Nesti 2005, pp. 319-336]. Per definizione giuridica è considerato “miniera” anche il giacimento di acque termali e minerali.


3. La cava

Con il termine di cava s’indica lo scavo del materiale utile per le costruzioni civili e per estensione il luogo di lavoro, che può essere sia a cielo aperto sia nel sottosuolo. Abbiamo cave di materiali incoerenti (ghiaie, sabbie, pozzolane, etc.) e di rocce di origine magmatica (graniti, dioriti, porfidi, basalti, etc.), sedimentaria (conglomerati, arenarie, calcari, tufi, etc.) e metamorfica (gneiss, marmi, scisti, skarn, etc.). Si distinguono in cave a cielo aperto, a loro volta suddivise a seconda del metodo consentito dal tipo di roccia e dalla sua giacitura, e cave in sotterraneo. Le cave di alabastro della zona di Volterra (Toscana), coltivate già dagli etruschi, hanno fornito il materiale per la fabbricazione di pregevoli urne cinerarie (IV-I sec. a.).

Con il termine di latomìa nell’antichità si indicavano le cave di pietra; sono note quelle di Siracusa, citate da Tucidide, per essere state utilizzate come prigioni dai Siracusani (Latomìa dei Cappuccini) nel corso della guerra tra Sparta e Atene, nel V sec. a.: «Tutti quegli Ateniesi e alleati che avevano catturato furono gettati nelle latomìe, in quanto ritenevano che questo fosse il luogo più sicuro» [Tucidide, VII, 86,2].

Nel sottosuolo di Palermo vi sono le cosiddette “muchate” (termine dialettale di derivazione araba), ovvero cave di pietra la cui coltivazione è a pilastri abbandonati, anche su due livelli. Si hanno inoltre esempi di cava a forma d’imbuto (rovesciato), da cui si estraevano blocchi di calcarenite «chiamati durante il medioevo petra rustica o salvagia, venduta a carrozzate, e petra fracta o rupta venduta a salma» [Todaro 1988, p. 52].

Nel Centro e nel Sud Italia l'estrazione riguarda materiali pozzolanici, apprezzati fin dall’antichità per le caratteristiche fisiche e meccaniche, la cui geometria di estrazione, detta “a camere e pilastri” o “a pilastri abbandonati”, è rimasta in uso fino al Ventesimo secolo.


4. Coltivazione di una cava

A seconda di cosa e di come si estrae, avremo quindi vari tipi di coltivazione, tenendo presente che uno o più tipi possono essere adottati in un medesimo impianto. In linea di massima avremo:

- coltivazione a uno o più gradini: per materiali sciolti o poco coerenti, come ghiaia e sabbia, e in cave d’argilla;
- coltivazioni a gradini: applicabile, generalmente, in ammassi affioranti o poco profondi;
- coltivazione ad anfiteatro: generalmente per cave di lapidei, tenute a gradini e a forma d’anfiteatro;
- coltivazione a gradone unico o a fronte unico: si adottano in presenza di strati affioranti (o scarsamente coperti) sub-orizzontali o sub-paralleli all’assetto topografico locale;
- coltivazione a gradini o a gradoni multipli: per rocce coerenti, dove l’altezza e la pedata di ciascun gradino sono dimensionate in relazione alla natura del materiale, ai mezzi impiegati, alla sicurezza, alla redditività e attualmente al progetto di ripristino [Frare 1996, p. 34];
- coltivazione a fossa: per giacimenti di materiali sciolti o poco coerenti e per materiali lapidei coerenti;
- coltivazione a gradini con trasporti sotterranei: qualora l’orografia della zona si presti, in una coltivazione a fossa il materiale può essere evacuato tramite gallerie che si aprono a livello dei gradini, oppure rovesciato in un fornello e poi trasportato a giorno sempre mediante una galleria, la quale può servire anche per lo scolo delle acque meteoriche;
- coltivazione a imbuti: applicabile in rocce coerenti, alla base di una fossa imbutiforme coltivata a gradini si apre un fornello comunicante con una sottostante galleria, da cui viene evacuato il materiale sbancato all’interno dell’imbuto per condurlo direttamente a giorno oppure per sollevandolo mediante un pozzo d’estrazione;
- coltivazione a pozzo: generalmente impiegata per la coltivazione di lapidei ornamentali;
- coltivazione in depressione: si colloca in corrispondenza di avvallamenti e incisioni;
- coltivazione per platee orizzontali: generalmente applicato in pianura, per materiali incoerenti;
- coltivazione per trance discendenti: per l’abbattimento del materiale dall’alto verso il basso;
- coltivazione per pannelli: per l’estrazione di blocchetti o conci, suddivisa in platee orizzontali di piccolo spessore.


5. La miniera

La miniera è il complesso costituito da un giacimento di minerali d’interesse industriale e dall’insieme delle opere e delle attrezzature necessarie al suo sfruttamento. I minerali sono sostanze naturali solide, formatesi per processi inorganici; come eccezione abbiamo il mercurio, considerato minerale per quanto in natura compaia allo stato liquido. Sono inoltre caratterizzati da proprietà fisiche omogenee, da una composizione chimica particolare e da un’impalcatura di atomi caratteristica per ciascun minerale [Mottana, Crespi, Liborio 1993, p. 8]. Per i minerali utilizzati prevalentemente nelle costruzioni stradali, edilizie e idrauliche, il complesso è generalmente indicato con il termine di cava.

La “scienza mineraria” è rivolta a individuare e a sfruttare i giacimenti utili all’attività umana, esistenti alla superficie e nel sottosuolo della Terra, applicando la gran parte delle scienze nel conseguimento del risultato. Il giacimento è classificato come “metallifero” o “non metallifero” a seconda se da esso si estraggano metalli o non metalli. È stata anche chiamata “arte mineraria” perché «richiede dal tecnico, oltre che una profonda conoscenza delle scienze esatte, anche una speciale attitudine, un’arte particolare che gli permetta di risolvere giornalmente problemi complessi, non sempre esprimibili in formule, e di superare difficoltà improvvise che mutano continuamente da punto a punto, anche nella stessa miniera» [Gerbella 1947, p. 1]. In senso lato, l’arte viene definita come capacità di azione e di produzione basata su regole, cognizioni tecniche ed esperienze.

Le coltivazioni possono avvenire sia a cielo aperto sia nel sottosuolo, anche utilizzando contemporaneamente entrambi i sistemi. Non di rado vi sono cave e miniere a giorno che evolvono in sotterraneo; in tempi recenti le scelte sono dettate anche dall’impatto ambientale che altrimenti si causa. La natura e la giacitura di ciò che s’intende estrarre, la sua dislocazione, l’organizzazione dei cantieri e il sistema con cui si procede all’estrazione, determina il metodo di coltivazione. Per semplicità d’esposizione si può dire che le “coltivazioni in sotterranea” siano generalmente costituite da cavità con le seguenti funzioni: accesso, circolazione, cantiere [Padovan 2005].


6. Coltivazione, osservazione, comprensione

A seconda di cosa e di come si estrae, avremo vari tipi di coltivazione, tenendo presente che uno o più tipi possono essere adottati in un medesimo impianto. Nel momento in cui si prende in esame una miniera occorrerà osservarne l’organizzazione interna per comprenderne la coltivazione in ogni aspetto. Lavoro non certo semplice, ma che può risultare assai utile per raccogliere informazioni non altrimenti reperibili: soprattutto in caso di miniere antiche, sconosciute, o di cui si è persa la documentazione con i piani di avanzamento.

Le “coltivazioni a giorno” si distinguono a seconda della loro collocazione. I metodi di coltivazione in sotterraneo sono molteplici e la loro articolazione è spesso complessa, soprattutto nelle miniere di età industriale. Possono distinguersi in “coltivazione per vuoti”, “coltivazione per frana”, “coltivazione con ripiena” [Gerbella 1948, p. 80].

Coltivare per vuoti vuol dire estrarre quanto più minerale possibile dal filone, senza incorrere nel rischio di crolli. La coltivazione per vuoti si può suddividere in:

- coltivazione senza sostegni a camere isolate;
- coltivazione senza sostegni a strozzi;
- coltivazione a pilastri abbandonati con soli pilastri;
- coltivazione a camere e pilastri con platee di ribasso;
- coltivazione a pilastri abbandonati con pilastri artificiali;
- coltivazione a pilastri abbandonati con pilastri e volte;
- coltivazione a diaframmi abbandonati con soli diaframmi;
- coltivazione a diaframmi abbandonati con camere e diaframmi;
- coltivazione a diaframmi abbandonati con magazzini.

Coltivare con frana (o per franamenti) vuol dire consentire alla roccia incassante di franare, con il duplice vantaggio di una maggiore percentuale di minerale recuperato, rispetto alle coltivazioni a pilastri abbandonati, e di evitare le spese relative alla messa in opera delle ripiene. Di contro, tale sistema crea sovente fenomeni di subsidenza. I metodi di coltivazione per franamento sono diversi e prevedono varianti per ogni singolo metodo. I metodi di coltivazione con frana si possono suddividere in:

- franamento del tetto tenuto distante dalle fronti di abbattimento;
- franamento del tetto tenuto a contatto delle fronti di abbattimento;
- franamento del minerale utile (coltivazione per subissamento).

Le coltivazioni con ripiena si adattano a quasi tutti i tipi di giacimenti e prevedono il riempimento dei vuoti che si formano a seguito dell’abbattimento dei minerali utili. Con tale metodo è possibile asportare completamente (o quasi) il giacimento, eliminando eventuali sostanze ossidabili o combustibili che possono dare luogo a riscaldamenti e incendi spontanei. Inoltre, non vi è il trasporto all’esterno del materiale sterile e si limitano o si evitano i fenomeni di subsidenza in superficie [Padovan 2005, p. 13]. I metodi di coltivazione con ripiena, in uso almeno fino alla prima metà del XX sec., si possono suddividere in:

- coltivazione che procede secondo la direzione e distinta a lunghe fronti, a trance montanti, a gradini diritti e rovesci, a Stossbau;
- coltivazione che procede secondo la pendenza e distinta in fronti montanti e trance montanti;
- coltivazione che procede secondo inclinazioni intermedie;
- coltivazione di giacimenti suddivisi in fette e distinta in orizzontali montanti, inclinate, verticali. Per quanto riguarda l’organizzazione, ai lavori nel sottosuolo si accede da gallerie scavate a mezza costa o attraverso pozzi verticali, oppure da discenderie o pozzi inclinati. Da questi si diramano gallerie principali di carreggio, gallerie secondarie, cantieri di coltivazione che si rinnovano continuamente fino ad interessare tutto il giacimento e ad esaurirlo [Gerbella 1948, p. 64].

Tra le opere ad andamento orizzontale o suborizzontale possiamo avere:

- galleria d’accesso o galleria di carreggio principale
- galleria di carreggio secondaria
- cunicolo o galleria “a seguire il filone”
- galleria in banco
- galleria di tracciamento
- galleria traverso-banco
- galleria di rimonta
- galleria di ribasso.
Tra le opere a sviluppo verticale possiamo avere:
- pozzo esterno
- pozzo maestro
- pozzo interno o secondario
- pozzo d’estrazione
- pozzo di riflusso
- pozzo di circolazione.


7. Tecnica mineraria

Le operazioni che precedono l’impianto di una miniera prevedono lo studio geologico dell’area, in superficie e nel sottosuolo, nonché la comprensione dell’estensione del giacimento, la potenza e la giacitura degli strati di minerale e la convenienza economica del suo sfruttamento. Per lungo tempo si conducono scavi semplicemente “a seguire il filone”. Successivamente si dà luogo a opere di ricerca, anche mediante trincee a giorno, e si eseguono i lavori di tracciamento delle gallerie raggiungendo il giacimento e seguendolo con gallerie di direzione, che lo dividono in livelli (zone orizzontali), aprendo le comunicazioni tra i livelli mediante pozzi o altre gallerie (discenderie, rimonte, etc.). I lavori preliminari sono importanti perché successivamente determinano un buon sfruttamento del giacimento, un agevole abbattimento del minerale e il suo trasporto, nonché la sicurezza dei minatori.

Il materiale estratto è costituito da minerale utile in associazione a materiale non utile detto ganga o sterile. Lo sterile può essere stoccato nei vuoti che via via si vengono a creare e per approntare sostegni. La coltivazione avviene con diversi metodi determinati dalle condizioni geologiche, dal tipo di minerale, dal tipo di roccia incassante e dal tipo di “tetto”. L’eduzione delle acque riveste un carattere importante per lo svolgimento delle operazioni. Le gallerie e i pozzi vengono solitamente armati in legno, in muratura, in conglomerato cementizio, e in tempi recenti anche mediante centine metalliche. I mezzi di abbattimento dipendono dalla durezza, dalla compattezza e dalla tenacità della roccia. Il trasporto del minerale e dello sterile avviene a seconda della struttura dell’impianto minerario e del livello tecnologico applicato [Padovan 2005 a, pp. 75].


8. Strumenti di misura

Stando alle fonti è dal XVI secolo che si evolvono i metodi di coltivazione e si utilizza con una certa sistematicità la strumentaria da miniera. Se ne hanno esempi nel “De re Metallica” [Agricola, V, pp. 90-106] e nel seicentesco “Pratica Minerale” [Della Fratta 1678, pp. 23-42]. Tra le illustrazioni presenti nel “Schwazer Bergbuch” sono raffigurati due minatori che effettuano una misurazione in galleria. In generale l’uso della strumentaria serviva ad una organizzazione migliore dei sistemi di coltivazione, andando a conoscere l’orientamento e la pendenza dello scavo anche per la restituzione grafica in pianta e in sezione. Per misurare le profondità abbiamo teodoliti semplici, quadranti ordinari, tavolette pretoriane; per la misura delle distanze vi sono pedometri, regoli topografici, etc. In particolare, gli Statuti Minerari di Massa Marittima del XIII sec. «indicano la “calamita” come strumento ed il “sistema di calamitare” come metodo per la determinazione dei confini di escavazione dei terreni minerari» [Casi 1996, p. 18].

Si deve pensare che anche in antichità si potesse avere la necessità di conoscere l’estensione e l’andamento dei ‘vuoti’, anche solo per capire se fossero indirizzati o indirizzabili verso punti esterni ove facilmente aprire ingressi secondari o fare defluire le acque. Necessariamente si adoperavano degli strumenti di calcolo e misura. Utilmente si ricorda come Vitruvio dica che per la costruzione dei sistemi idraulici s’adoperano diottre, livelle e corobate [Vitruvio, VIII, 1], e oltre a questi si sono potuti verosimilmente utilizzare in miniera anche semplici fili a piombo, cordicelle annodate, eclimetri, goniometri, archipendoli e compassi.

Per l’impianto di norie e coclee occorreva almeno conoscere la lunghezza del percorso e il livello da superare e questo non poteva essere calcolato con approssimazione. Se, ad esempio, nell’area dove avvenne uno scontro campale nel X secolo non si sono mai rinvenute punte di lancia, questo non vuole dire che le lance non vennero sicuramente adoperate, ma semplicemente che con ampia possibilità non una si sia conservata nel terreno o che semplicemente non si sia cercato o con attenzione o nell’area giusta, o che i resti di almeno una punta siano stati scambiati per altro oggetto, a causa della ruggine.

Ecco cosa scrive Tullio Seguiti, ingegnere del Corpo Reale delle Miniere, nel 1939: «I metodi e gli strumenti usati oggi nella topografia di miniera sono relativamente molto recenti, ma le origini della topografia sotterranea si perdono nella notte dei tempi. Si può dire che essa si è sviluppata non appena è stato iniziato il lavoro di estrazione di minerali utili dal sottosuolo» [Seguiti 1939, p. 1].


9. Topografia in miniera

Lascio alle parole di Seguiti un accenno al significato di “topografia da miniera”. Il suo libro merita almeno una consultazione; la strumentaria descritta e riprodotta oggi, a distanza di quasi settant’anni, possiamo trovarla solo presso qualche museo o qualche collezionista privato. Ciò non vuol dire che non possa essere ancora, tranquillamente utilizzata, per la sua precisione.

«Nel secolo scorso il rilevamento sotterraneo cominciò ad essere considerato una vera scienza, tanto che se ne iniziò l’insegnamento nelle scuole superiori. È pur vero però che l’introduzione dei metodi scientifici ha incontrato resistenza perchè in miniera fino a non molti anni fa si procedeva con la convinzione che avesse valore solo quello che si imparava lavorando in sotterraneo. Alla fine però il progresso ha vinto in pieno, e se lo sviluppo dell’industria mineraria ha imposto la risoluzione di problemi di topografia sotterranea sempre più complessi e difficili, la scienza si è di pari passo attrezzata per la risoluzione di essi, escogitando nuovi metodi, adattando gli strumenti della normale topografia, studiandone di tipo speciale, e riuscendo a far ottenere nei lavori di rilievo un grado di approssimazione veramente soddisfacente.

Scopo della topografia sotterranea.
La topografia di miniera ha per scopo di guidare i lavori di una miniera e di permettere la rappresentazione grafica di essi. Ad essa è devoluto il compito di determinare i limiti delle concessioni, il piano degli impianti esterni, il piano dei lavori interni e di fare il collegamento fra il rilievo dell’esterno e quello del sotterraneo. Gli scopi che si perseguono con i rilievi sono evidenti: conoscenza dello stato attuale dei lavori, indirizzo per i lavori futuri e per le ricerche, possibilità di evitare sinistri causati dall’incontro di vecchi lavori, di organizzare i servizi di salvataggio, possesso di elementi sicuri in caso di contestazioni di qualsiasi genere, di accertamento di responsabilità, ecc.

Particolarità.
La topografia sotterranea non è sostanzialmente differente da quella esterna, in quanto ha gli stessi scopi di misurare distanze, angoli, differenze di livello, ecc., e segue gli stessi metodi. Ci sono però delle modalità e dei dettagli dovuti alle peculiari condizioni in cui si svolge il rilievo sotterraneo, modalità che hanno spesso la loro grande importanza. Ad esempio, in galleria si lavora sempre su larghezze piccole e con modeste altezze di tetto, così che i treppiedi degli strumenti e le mire devono essere di lunghezza ridotta; il traffico non deve essere interrotto, e quindi si usano sistemi speciali di supporto per gli strumenti e i punti di stazione si mettono sul cielo delle gallerie; in sotterraneo c’è buio, quindi bisogna illuminare le mire e il micrometro; quando si fanno i tracciamenti, le poligonali sono aperte, non si ha controllo, non si può fare la ripartizione degli errori e quindi nei rilievi sotterranei si deve agire con la massima esattezza; infine si presentano alcuni problemi speciali, quali il riporto di un allineamento in sotterraneo, la misura della profondità dei pozzi ed altri.

Personale e strumenti.
In miniera si fanno rilievi di dettaglio, e rilievi d’insieme, di collegamento e di controllo. I rilievi di dettaglio vengono fatti ogni qualvolta il cantiere avanza di qualche metro, dal capo cantiere o capo servizio, il quale è anche incaricato del riporto del rilievo sui piani di dettaglio e su quello d’insieme esistenti nell’ufficio tecnico della direzione. Quando si tratti di iniziare nuovi lavori importanti, o anche per controllo a intervalli più lunghi, è un ingegnere della direzione che si reca in galleria per i rilievi. Nelle miniere molto estese ed importanti può esserci uno o più periti addetti al solo servizio dei rilevamenti, posti alla diretta dipendenza di un ingegnere che coordina e dirige il lavoro, fa studi geologici e minerari, ecc.» [Seguiti 1939, pp. 4-5].


10. Archeologia mineraria

La natura del suolo, del sottosuolo e del giacimento minerario condizionano la morfologia della miniera e l’organizzazione del lavoro. Lo studio di una coltivazione mineraria è finalizzato all’acquisizione delle informazioni che permettono di comprendere:

- chi ha lavorato nella miniera;
- cosa è stato estratto;
- quando, come e perché tale miniera è stata scavata.

La scelta della strategia di uno scavo minerario può essere compresa conoscendo gli aspetti giacimentologici e il livello tecnologico raggiunto in un dato periodo e nella determinata area. Lo studio auspica quindi l’intervento interdisciplinare, in quanto può accadere che alcune morfologie, incomprensibili all’archeologo o allo speleologo, siano interpretabili dal geologo e dal perito minerario, e viceversa. Gli obiettivi dello studio dell’archeologia mineraria si possono riassumere nei seguenti punti, presentati la prima volta nel 1999 al XV Congresso di Speleologia Lombarda nel lavoro di Alessandra Casini e Giovanna Cascone [Casini, Cascone 2000, pp. 93-122] e successivamente sviluppati [Padovan 2005 a, pp. 75-100]:

- 1. La natura del giacimento e le caratteristiche geomorfologiche del territorio.
- 2. Il metodo d’individuazione del giacimento.
- 3. Il metodo di ricerca.
- 4. Il metodo di coltivazione.
- 5. Il metodo di abbattimento.
- 6. Le strutture di sostegno e le infrastrutture per la progressione.
- 7. Il sistema di aerazione.
- 8. L’eduzione delle acque.
- 9. Il sistema d’illuminazione.
- 10. Il sistema di trasporto del minerale.

L’individuazione di ognuno di questi punti permette di comprendere le scelte strategiche effettuate dai minatori, le conoscenze tecniche, la topografia mineraria, le divisioni funzionali della miniera e quindi l’organizzazione del lavoro, le eventuali diverse fasi di sfruttamento e, per quanto possibile, la cronologia delle attività di scavo. Tali “obiettivi di studio” sono utilizzabili-applicabili anche allo studio delle cave e delle problematiche ad esse connesse.


11. Due passi sul campo: topografia e prospezione di superficie

La prospezione di superficie consente l’individuazione delle aree di coltivazione (accessi e discariche), di pesta, di scorie di trasformazione metallurgica, degli opifici produttivi, della viabilità e degli insediamenti.

I filoni mineralizzati non sono generalmente isolati e individuatone uno le ricerche si estendono solitamente all’area circostante. Considerando che le parti ricche di minerale possono costituire zone di più facile erosione da parte degli agenti atmosferici, la presenza dei filoni può essere celata da riempimenti e coperture, dove la vegetazione si sviluppa maggiormente. Un filone incassato in roccia tenera rimarrà invece più facilmente allo scoperto, in quanto l’erosione lo lascerà tendenzialmente a nudo, asportando l’incassante.

Buoni segnali per l’eventuale presenza di giacimenti minerari sono i frammenti di minerale che si possono trovare nei fondovalle o lungo i corsi d’acqua. Già anticamente, infatti, questi segnali permettevano d’individuare i giacimenti e dare luogo allo sfruttamento [Gerbella 1947, pp. 29-32]. Così insegna Biringuccio: «andrete cercando le ripe de le valli, l’apriture e stuchamenti de le pietre, e li dorsi, ouer l’altre istremita de le cime de monti, e similmente per i letti e corsi de fiumi, e guardando ne le loro arene, ouer fra le ruine de fossati fra lequali molte volte vi si demostrano marcassite, o pezzetti di miniere, o altre diuerse testure metalliche, per le quali cose facilmente si puo auer inditio essere in quei lochi al certo miniere» [Biringuccio 1540, I].

Talvolta è possibile individuare le aree dove è stato effettuato il taglio del bosco per il legname da adoperare in miniera o dove si otteneva il “carbone di legna” per l’alimentazione dei forni dove il minerale subiva il processo di ‘arrostimento’, oppure in quelli di trasformazione. Per la comprensione del panorama, l’inserimento dei dati nel contesto territoriale e l’elaborazione della carta del territorio storico, occorrerà collocare topograficamente ogni elemento con l’apposita strumentazione. In mancanza di riferimenti per la distribuzione cronologica dei lavori minerari, la relazione tra questi e gli insediamenti o le vicine emergenze aiuta alla formulazione d’ipotesi relativamente la datazione dei periodi di attività. Il rapporto tra insediamenti e aree minerarie è generalmente stretto e l’abitato può essere posto a presidio e a controllo sia delle zone di estrazione e di lavorazione metallurgica sia della viabilità d’accesso. Un preciso tracciamento delle strade può inoltre consentire l’individuazione degli accessi agli impianti estrattivi [Padovan 2005, p. 76].


12. Paesaggio storico e cicli produttivi

Lo studio dei cicli produttivi permette di affrontare le problematiche dell’attività umana in rapporto alle risorse naturali. La capacità di sfruttare le ricchezze del sottosuolo ha innescato nel corso dei secoli una serie di processi coinvolgenti la sfera sociale, politica, economica e tecnologica. In presenza di giacimenti minerari, le indagini riguardanti il paesaggio storico e la dinamica insediativa devono considerare le emergenze estrattive per comprenderne l’organizzazione del lavoro, i rapporti economici e sociali derivanti e l’evoluzione tecnologica risultante dallo sviluppo del sistema di coltivazione e dalla successiva trasformazione del minerale.

L’evoluzione può andare verosimilmente a promuovere, o ad agevolare, la nascita o lo sviluppo di una vasta gamma di opere ipogee a carattere cultuale, civile e militare. Nel compimento di tali opere a carattere non estrattivo possono trovare impiego le stesse maestranze minerarie. Maestranze che possono anche semplicemente operare la proficua diffusione delle conoscenze: scelta del posto dove praticare lo scavo, metodo di abbattimento della roccia, sistema di misurazione e di calcolo, trasporto del materiale, messa in opera di eventuali rivestimenti e contenimenti, ventilazione, eduzione e condotta delle acque, individuazione delle zone ‘a rischio di crollo’ e provvedimenti da adottare. Questi sono tutti elementi che possono interessare ogni tipo di scavo nel sottosuolo [Padovan 2005 a, p. 75].


13. Rischi senza frontiere

La miniera abbandonata è un luogo che cela varie insidie. In parole povere è potenzialmente pericolosa. Certamente uno speleologo sarà meno esposto ai rischi legati alla progressione, perchè già abituato ad andare in grotta, quindi ad affrontare ambienti bui, con pozzi, discenderie, parti instabili, acqua e quant’altro.

In ogni caso occorrerà usare una buona dose di cautela, dal momento che si potrebbero prospettare vari ‘inconvenienti’. Oltre agli incidenti “prettamente speleologici”, ovvero legati all’utilizzo e talvolta al non utilizzo dell’attrezzatura, in linea generale possiamo avere:

- modesti distacchi di materiale dalle strutture;
- crolli, ovvero cedimenti strutturali;
- presenza di sostanze venefiche o inquinanti o deflagranti.

Come ulteriore appunto (non si sorrida) si possono incontrare anche ambienti complessi e con sviluppi chilometrici: l’eventualità di perdersi non è così remota. Idrocarburi, fanghi di miniera, acque acide, e via dicendo, possono intaccare l’attrezzatura assai più velocemente di quanto non avvenga in ambienti carsici. Per quanto ci si sforzi ad ottenere degli ancoraggi adeguati e ad approntare degli armi corretti, sovente nella realtà dei fatti i risultati sono lungi dall’essere ottimali.

In linea di massima ogni ambiente sotterraneo è destinato nel tempo ad assestarsi naturalmente o a seguito di fattori collaterali. Cave e miniere abbandonate presentano zone interessate da cedimenti. Meno frequenti nelle coltivazioni antiche, in cui sono stati utilizzati per l’estrazione solo strumenti manuali (quindi senza l’impiego di esplosivi), divengono più frequenti in quelle successive, dove abbiamo un mutamento del metodo di abbattimento e di coltivazione.

Cunicoli e gallerie centinati con i tipici “quadri” in legno possono avere tali strutture marce e quindi precarie, senza contare che non assolvono al compito di contenere possibili cedimenti o pressioni. Anche eventuali spazi “ripienati” potrebbero risultare instabili. In tratti allagati vi possono essere pozzi sommersi, quindi difficilmente individuabili, e “sabbie mobili”.

È possibile rinvenire esplosivi abbandonati, che non vanno in alcun caso nemmeno toccati. Il tempo e l’umidità possono averli resi instabili, quindi altamente pericolosi. Si ricordi inoltre che nei resti di fornelli da mina possono rimanere cariche inesplose.

Soprattutto nelle coltivazioni minerarie non è esclusa la presenza di sacche di gas naturali, costituiti da idrocarburi gassosi esistenti negli strati del sottosuolo, da dove emanano spontaneamente. Il più noto è il grisou o grisù, detto “gas delle miniere”. È un gas combustibile costituito da una miscela di metano o di altri idrocarburi, e anidride carbonica, ossigeno e azoto, che si può sviluppare nelle miniere di carbone e in quelle con la presenza di minerali di origine sedimentaria. Inodoro, insaporo e non tossico, miscelandosi con l’aria diviene infiammabile ed esplosivo.

La problematica legata a gas tossici od asfissianti non è d’immediata esplicazione, ma non per questo va ignorata. Oltre a ciò ricordo che il classico legname marcescente “brucia” l’ossigeno e se non ce ne accorgiamo in tempo, ovvero se non facciamo dietrofront quando si accusa il classico sintomo della “fame d’aria”, potremmo anche correre seri rischi [Gibertini 2005, pp. 265-276].

In linea di massima, le operazioni speleosubacquee in cavità artificiali sono meno complesse e rischiose di quelle effettuabili nelle grotte: infatti non avremo grandi profondità né sviluppi chilometrici. Fanno eccezione alcune coltivazioni sotterranee, poste su più livelli, rimaste sommerse a seguito della cessata attività estrattiva, quindi con la disattivazione dei sistemi di pompaggio dell’acqua d’infiltrazione, di subalveo oppure di falda [Bertulessi, Padovan 2005, pp. 251-258].

Si è recentemente concluso il lavoro presso un complesso di miniere situate nel Comune di Olgiate Molgora (LC), scavato a partire dagli inizi del XX secolo. Si tratta delle miniere Pelucchi, Cepera e Valicelli. Le indagini sono state condotte dal Gruppo Sommozzatori di Almè (Bergamo): «Per l’esplorazione e il relativo lavoro di rilievo, sino ad oggi sono stati impiegati molti metri di filo per sagolare le varie gallerie: in particolare, sono stati svolti più di tre chilometri di sagola. Inoltre sono state trascorse complessivamente, oltre settecento ore di immersione, con un consumo di 2.000.000 di litri di aria e 150.000 litri di ossigeno puro per le fasi di decompressione» [Bertulessi, Rota 2005, p. 52]. Nelle zone sommerse gli speleosub si sono spinti fino a -64 m dalla superficie dell’acqua: «Un’occhiata per l’ennesima volta ai miei manometri e poi mi avvio a ritornare in superficie. La visibilità è decisamente peggiorata: vedo a malapena ad un metro e mezzo» [Bertulessi, Rota 2005, p. 71].

Si dovrà tenere conto che le acque possono essere inquinate. Inutile ripetere che occorrerebbe farle analizzare preventivamente. Più di una volta si è rinunciato alle operazioni perché sull’acqua galleggiavano carogne di piccoli animali, tra cui topi e ratti. In ogni caso, si suggerisce sempre l’utilizzo di mute stagne. Ma è bene rammentare che la regola d’oro è di non togliersi mai l’erogatore di bocca, a maggior ragione negli ambienti posti al di là di un sifone.

Nell’articolo di Samorè “Analisi d’incidenti mortali a speleosub e loro prevenzioni” si riporta: «Blocco di fango imprigiona due sub. Due respirano esalazioni di anidride solforosa dovuta a depositi di lignite in una grotta-miniera abbandonata, appena passato il sifone; il terzo si accorge del fatto e rimette l’erogatore agli altri ed esce a cercare soccorsi; inutilmente» [Samorè 1979, pp. 63-64].


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di Gianluca Pavan


Si ringrazia Gianluca Padovan, dell'Associazione Speleologia Cavità Artificiali Milano e della Federazione Nazionale Cavità Artificiali, per l'invio ed il permesso alla pubblicazione di questo articolo.
Documento inserito il: 29/11/2014
  • TAG: archeologia sottosuolo, lavoro sottosuolo, campo battaglia, lavoro buio, sfruttamento risorse, cave, miniere, coltivazione, osservazione, comprensione, tecnica mineraria, strumenti misura, topografia, archeologia mineraria, paesaggio storico, cicli produt

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