Cookie Consent by Free Privacy Policy website Tutto storia, approfondimenti: I figli di Pegaso: i cavalli entrati nel mito
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I figli di Pegaso: i cavalli entrati nel mito [ di Carlo Ciullini ]

Il cavallo: il più nobile, probabilmente, degli animali. Ma anche un animale morto in centinaia di migliaia di esemplari, nel corso dei secoli, accanto a coloro che lo cavalcarono in stupide battaglie di cui, forse, anche questa bestia straordinaria si sarà chiesta l'utilità.
Montgomery ed Eisenhower, qualche decennio fa, passavano in rivista le truppe non su frementi destrieri, ma a bordo di camionette polverose e cingolati sferraglianti; e probabilmente, si limitavano a produrre strategie belliche e azioni ad ampio raggio al riparo dei Quartier Generali o, comunque, dalle retrovie dei loro eserciti: nessuna carica al galoppo, dunque, alla testa dei propri uomini.
Situazioni, queste, senz'altro meno epiche e suggestive di alcune rappresentazioni che la Storia ci ha tramandato nei secoli: riempiono le tele, i piedistalli e le piazze di tutto il mondo le pose plastiche di grandi personaggi che, impettiti a dorso dei loro cavalli, indicano la vie luminose della vittoria e dell'avvenire.
Ai condottieri, ai generali di grido del passato non si sono mai rifiutati un bel quadro o una statua svettante che li effiggiasse a cavallo: chi si meritava una riproduzione artistica (e propagandistica) in salda compagnia del nobile equino aveva sicuramente compiuto passi importanti, nella propria vita.
Una statua equestre che esaltasse le personali virtù di potere, di dominio e di carisma costituiva probabilmente lo zenit iconografico del proprio ruolo di indiscusso primattore, nei tempi passati.
Il cavallo, elevato nella sua stazza, innalza a sua volta chi lo monta in un tutt'uno sovrastante lo spazio circostante, in una osmosi centaurica che infonde in chi contempli dal basso un duplice senso di timorosa ammirazione e di rassicurante protezione.
Lo stesso generale Patton, in un compromesso simbolico tra vecchio e moderno, amava, in pieno XX° secolo, farsi vedere dai suoi uomini (presi tra la stima sincera per l'uomo e il trattenuto sorriso di scherno) a cavalcioni di un bel destriero bianco, colt infoderata alla cintura, intento ad assumere pose ataviche proprie di epopee leggendarie ormai tramontate, quali quelle dei pioneri americani e della vita di frontiera: si riaccendevano così antichi decenni in cui il cavallo assumeva per i cow-boys, le giacche blu e i coloni americani un valore vitale quasi quanto l'acqua.
Certo, per i soldati a bordo di carri-armati e semoventi, simbolo di sviluppo industriale e tecnologico, osservare il loro comandante aggirarsi a cavallo tra bestioni di acciaio deve esser stata una esperienza non comune, anzi difficilmente dimenticabile.
Nel rapporto profondo tra uomo e cavallo impegnati assieme in guerra, in una simbiosi che per millenni aveva caratterizzato gli scenari bellici di tutto il mondo, il secondo conflitto mondiale rappresentò non tanto il canto del cigno della cavalleria, già languidamente emesso alcuni lustri prima, nel '15/'18, quanto la completa sostituzione dell'animale con mezzi meccanici moderni.
Ultime vestigia di un passato glorioso ma ormai tramontato, furono il mantenimento, per molti dei corpi motorizzati in azione durante gli eventi bellici, del nome eroico di “cavalleria” anche per divisioni che si muovevano in battaglia spinti non più da lunghe zampe poderose, ma da cingoli e ruote scanalate.
Restano perciò avvolti dall'aura epica imprese anacronistiche come la carica della “Savoia” in Russia, nell'Agosto del 1942, quando a Isbuschenskij settecento cavalieri italiani misero in rotta i sovietici, tre volte superiori per numero, nell'ambito degli scontri tra Armir e Armata Rossa sul fronte del Don: tuttavia, al termine della battaglia restarono sul campo anche un centinaio di cavalli, e quest'ultimo è un aspetto che preme sottolineare.
Il tributo versato nel corso dei millenni da questi nobilissimi animali (esseri dalle sviluppate intelligenza e sensibilità) alla stupidità e alla protervia umana, è stato sempre alto.
Uniti in tutto e per tutto alle sorti del proprio cavaliere, i cavalli hanno condiviso con l'uomo i disagi e i pericoli della guerra.
Questo li ha resi meritevoli di rispetto e di riconoscenza, capaci come sono stati, nella maggior parte dei casi, di legarsi profondamente ai guerrieri e ai soldati cui venivano affidati: innumerevoli volte la vita dell'uno dipese da quella del compagno, e sovente la sorte fu simile per entrambi.
In molti, tra coloro che fecero la Storia, hanno posseduto un cavallo di valore, una bestia certo dotata rispetto alla norma e sulla quale si è riflessa la grandezza del padrone: grandezza che, a sua volta, l'animale ha contribuito in qualche modo ad amplificare simbolicamente.
Bucefalo, il cavallo di Alessandro Magno, è probabilmente l'ippos più rinomato, quello che maggiormente si è ammantato di leggenda e di divino, unito al suo padrone per poco meno un ventennio: dal giorno in cui il figlio di Filippo II°, ancora adolescente, riuscì a domarlo laddove gli altri avevano fallito ridicolosamente, fino alla morte dell'animale in battaglia ai confini dell'India.
Un'entità ammantata di divinità anche in vita, quale fu Alessandro, non poteva che avere un cavallo dalle qualità straordinarie, un cavallo che portasse anche in sé un poco della natura sovrumana del giovane di cui divenne l'inseparabile compagno. Le fonti, in effetti, ci raccontano di un Bucefalo nato lo stesso giorno calendarile del Macedone, esattamente dieci anni dopo (nel 346 a.C.): un chiaro segno celeste (per quanto storicamente non appurabile con certezza) di quanto il legame fra uomo e animale fosse saldato da un destino chiaramente manifesto.
Il cavallo, un imponente esemplare di razza tessalica, dal manto nero e dalla macchia a stella sulla fronte, portava probabilmente tale nome per la forma massiccia del cranio: Bucefalo significa infatti “testa di toro”. Ma l'etimologia, nel caso, non è certa.
Venne acquistato da Filippo II° nel 342, quando aveva quattro anni, e furiosamente ingovernabile per chiunque gli si avvicinasse, fu domato dal giovane Alessandro grazie allo stratagemma -così si racconta- di porlo muso al sole, in modo da lasciarsi alle spalle la propria ombra, che tanto lo spaventava.
Da stallone imbizzarrito a docile strumento nelle mani del principe il passo fu breve, e miracoloso agli occhi dei presenti.
Bucefalo seguì Alessandro negli eventi che hanno reso immortale il suo padrone: da Cheronea all'Egitto, dalle grandi battaglie contro Dario III° al Granico, a Isso, a Gaugamela sino allo scontro finale sull'Idaspe, sfiorando l'India, contro il re Poro: era il 326 avanti Cristo.
Qui il leggendario animale, ferito a morte, ma salvato il suo cavaliere, spirò al termine della vittoriosa battaglia: aveva vent'anni.
Ricevuti i degni onori militari, fu sepolto sul posto, laddove Alessandro fondò seduta stante una nuova città, cui conferì il nome di Bucefala in ricordo della bestia fedele.
Asturcone fu invece il celebre destriero di Caio Giulio Cesare, che se ne valse abilmente delle innate qualità: originari delle Asturie (da cui il nome), non flessuosi, armonici e veloci come i cavalli arabi (che del perfetto purosangue incarnano il “tipus” ideale) questi animali serbavano tuttavia, nella morfologia non aggraziata ma poderosa, una grande capacità di resistenza, forza e una docilità ai comandi non comune.
Cosa di meglio avrebbe potuto chiedere il grande Romano, bisognoso di un cavallo che risultasse utile e funzionale a ogni circostanza?
Cesare fu rinomatamente (e per questo venerato dai suoi soldati) un generale dotato di attitudini psico-fisiche straordinarie, che gli permisero di affrontare sempre in prima linea le battaglie e gli scontri coi nemici di Roma e coi suoi avversari personali.
Non poteva quindi che valersi di un cavallo sui generis, coraggioso e pronto a lanciarsi con impeto, ma egualmente freddo negli strepiti e nei clangori della guerra, mansueto e ubbidiente agli ordini.
Asturcone accompagnò Cesare nella campagna delle Gallie e nel famoso passaggio del Rubicone.
Anch'esso, come Bucefalo, riflesse la grandezza inarrivabile del proprio padrone, divenendo soggetto di aneddoti, in bilico perenne tra mito leggendario e realtà.
Svetonio nelle sue “Vite dei Cesari” ci racconta di Asturcone che, nato negli allevamenti personali dei Giulii, e avendo già da puledro manifestato caratteristiche originali come lo zoccolo fesso a mò di piede umano, fu oggetto di vaticinio da parte degli aruspici: colui che ne avesse fatto il compagno di imprese avrebbe governato il mondo.
Per tali motivi Cesare volle essere il primo e l'unico a montarlo, consacrandogli una statua, allorquando l'animale morì, eretta dinanzi al tempio familiare di Venere Genitrice.
Con un balzo di quasi due millenni giungiamo all'era napoleonica, e incontriamo il terzo, nobile quadrupede: Marengo, il minuto ma saldissimo cavallo dell'Imperatore dei Francesi.
Marengo, arabo che al garrese non toccava il metro e mezzo (e dunque il destriero ad hoc per far risaltare la figura di Bonaparte...) è, quasi sicuramente, lo splendido animale rappresentato dal grande David nel quadro più bello, tra quelli che ritraggono Napoleone: rampante, il cavallo eleva il suo padrone in un insieme plastico ed eroico, un flash scattato durante il passaggio da parte dell'Armée del Gran San Bernardo, nel corso della campagna consolare d'Italia. Marengo accompagnò fedelmente Napoleone, che ne fece il prediletto tra le decine di esemplari presenti nella sua personale scuderia, attraverso le imprese più rinomate dell'Imperatore: Austerlitz, Jena, Russia, infine Waterloo dove, catturato dagli Inglesi, fu costretto a lasciare per sempre il grande Corso.
Terminò i suoi giorni, a trentott'anni, in Inghilterra, dopo esser stato montato dal genio francese per un quindicennio circa.
Il suo nome è dovuto all'epica battaglia cui prese parte: si ritiene che proprio qui, in terra padana, contro gli Austriaci, Marengo abbia servito per la prima volta il suo amato padrone, cui mai negò coraggio, forti garretti e proverbiale resistenza.
Ben otto volte, riportano le cronache, la bestia venne ferita in battaglia, recuperando sempre appieno le sue eccelse qualità equine.
Il suo scheletro è oggi conservato in un museo nel quartiere londinese di Chelsea, in quella Inghilterra che, nel 1815, fece proprio del cavallo napoleonico un bottino dei più significativi, tra quelli conquistati a Waterloo.
Ci siamo limitati, nel tratteggiare brevemente i profili di tre grandi cavalli passati alla Storia, a quelli che si accompagnarono fedelmente ai giganti per antonomasia: il Bucefalo di Alessandro, L'Asturcone di Cesare e, infine, il Marengo napoleonico.
Non ce ne vogliano altri destrieri rinomati (pensiamo all'Incitatus di Caligola, a Boristene, il cavallo adrianeo dei tempi felici, o a Marsala, docile e forte giumenta di Giuseppe Garibaldi): l'aura sovrumana (per non abusare dell'aggettivo “divina”) del Macedone, del Romano e del Corso non ha pari, e ha saputo riverberarsi sulle nobili cavalcature, conferendo loro un alone di mito, da veri e propri figli di Pegaso.
Quegli Uomini seppero instaurare con i loro cavalli un rapporto profondissimo: furono destrieri che, non discesi con falcate alate dal celeste Olimpo, ma dotati invece di ferree zampe e cuore saldo, si fecero compagni non di voli eterei ma di galoppate impetuose tra il frastuono e la polvere dei campi di battaglia.
Le cure, l'affetto e il rispetto riservato loro dai rispettivi padroni, e la totale dedizione che i tre cavalli seppero corrispondere, rappresentano valida argomentazione per chi sostenga la straordinaria possibilità di rapporto tra l'essere umano e gli animali più evoluti.


Riferimenti bibliografici

SVETONIO, “Vite dei Cesari”, Roma, Newton & Compton, 2010

Nell'immagine, Alessandro Magno doma Bucefalo.Documento inserito il: 26/06/2015
  • TAG: pegaso, bucefalo, alessandro magno, gaio giulio cesare, asturcone, marengo, napoleone bonaparte

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