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Il primo antropologo della storia: Bernardino de Sahagùn e gli Aztechi nel Messico del XVI secolo

di Davide Arecco


L’evangelizzazione cattolica della Nuova Spagna nel Cinquecento

Bernardino de Rivera, meglio noto come Bernardino de Sahagùn, vissuto tra il 1499 e il 1590, fu un importante missionario spagnolo, che svolse la sua opera in Messico tra il popolo azteco. Fece i suoi studi presso l’Università di Salamanca, scoprendovi i valori dell’umanesimo rinascimentale, e in particolare approfondendo gli insegnamenti di Erasmo da Rotterdam. A quell’epoca, l’Università di Salamanca era, infatti, nell’Europa occidentale, uno dei principali centri di studio e diffusione del pensiero erasmiano, tollerante ed aperto. Bernardino entrò quindi nell’ordine dei francescani. Erano anni decisivi, per la presenza spagnola nel Nuovo Mondo, nonché per le sorti dei popoli stanziati in America centrale. I conquistadores spagnoli guidati da Hernàn Cortéz avevano infatti conquistato – nel febbraio del 1521 – Tenochtitlan, la capitale dell’Impero azteco, e i missionari francescani, nello specifico i frati minori, li avevano presto seguiti, a partire almeno dal 1524. Anche se Sahagùn non prese parte alla prima spedizione dei suoi confratelli, dopo avere preso gli ordini, intorno al 1527, si imbarcò due anni più tardi alla volta della Nuova Spagna. Il suo viaggio oltre oceano del 1529 fu la svolta della sua vita: un vero e proprio punto di non ritorno.
Una volta giunto in Messico, Bernardino passò i primi anni nel convento di Tlamanalco. Nel Messico da poco conquistato, la sua fu, almeno in principio, una missione evangelica. Imparò infatti bene la lingua nahuatl, svolgendo attività di insegnamento alla popolazione nativa, ed avviando – in un primo momento per tenere informati i suoi superiori – una ricca raccolta di materiali (sia storici e religiosi, sia naturalistici ed etnografici), attraverso territori che non avrebbe più lasciato, sempre di più attratto da quella cultura, extra-europea, con la quale era venuto in contatto, e che non volle mai giudicare alla luce di pregiudizi etnocentrici. Con il tempo, conoscendo bene gli Aztechi, si accorse in effetti che la pretesa della superiorità spagnola ed europea era solo un mito occidentale. Il frate si diede a combatterlo, attraverso la ricerca e storico-religiosa e linguistica, confrontandosi sul campo con le genti dell’odierno Messico e valorizzandone la civiltà.
Insegnante nel collegio di Tlatelolco, Sahagùn ricoprì varie cariche in seno al proprio ordine e dal 1536 fu il docente di grammatica latina, presso il Collegio di Santa Cruz, ove i frati francescani impartivano lezioni ai figli della antica aristocrazia messicana. Tra il 1540 e il 1545, Bernardino si dedicò a missioni di natura ecclesiastica prima a Puebla e poi nella regione dei vulcani. Nel 1558 fu quindi mandato a Tepepolco, ove restò un paio d’anni, prima di fare ritorno a Tlatelolco. Nel 1585, si trasferì infine nel convento messicano di San Francesco, dove si spense cinque anni dopo. Questa la sua vita, lunga ed intensa, quasi per intero dedicata alla scoperta della cultura azteca. Vediamo le cose più da vicino e in maggiore dettaglio.
Diversamente da numerosi altri missionari della stessa epoca, Bernardino – anche alla luce del messaggio erasmiano, da lui sottoscritto in precedenza a Salamanca – non fu animato da alcuno zelo inquisitoriale e rimase sempre affascinato dalla cultura con la quale aveva preso contatto. Sahagùn, infatti, studiò a fondo le tradizioni e la lingua nahuatl, raffrontata con quella spagnola, senza dare a quest’ultima alcuna priorità o supremazia. Il suo sguardo sincero verso l’altro, l’uso pacato e mite di un metodo volto al dialogo con i sottomessi, la sincera profondità degli interessi culturali, in effetti, fanno di lui forse il primo antropologo della storia, in quanto capace di impiegare nel dialogo con le popolazioni precolombiane una metodologia conciliante ed avanzatissima, frutto anche – si diceva – della lungimirante educazione ricevuta in patria prima di salpare in direzione delle Americhe. Non a caso, a Salamanca aveva studiato e meditato a lungo i testi di San Francesco d’Assisi, Duns Scoto e Bonaventura da Bagnoregio (l’Itinerarium mentis in Deum), nonché l’opera di Pietro Valeriano. Il francescanesimo di Bernardino era tutto devozione, e alla fede e al prossimo. Fine teologo, Sahagùn aveva alle spalle, insomma, una vasta preparazione intellettuale – fondata sul tradizionale primato dell’incarnazione – posta al servizio dell’uomo, anche di quello del Nuovo Mondo: una visione del genere umano che metteva capo a una autentica antropologia religiosa, lontanissima dagli abusi dei conquistadores ai danni dei popoli meso-americani. Al contrario l’approccio di Bernardino era tutto imperniato sul confronto e sullo spirito di collaborazione reciproca. La lezione di Valeriano – pare, qui, evidente – non era passata invano. Non solo, proprio il dialogo con il mondo nahuatl poteva, da questo punto di vista, rivelarsi agli occhi di Bernardino alla stregua di una occasione, imperdibile, al fine di esercitare le virtù del dialogo e della pazienza, della tolleranza e dell’amore cristiano. Solo il culto locale della Vergine di Guadalupe lo trovò ostile, troppo impregnata di elementi pagani, per essere da lui digerita: un culto idolatrico, in cui riviveva la tradizione degli antichi Dei del Centro-America, il cui politeismo appariva inevitabilmente inconciliabile con la fede cattolica.
Ad ogni modo, per Sahagùn quella europea e spagnola nella fattispecie non doveva essere una conquista politica e militare, ma, al più, solo spirituale e nel rispetto comunque delle tradizioni della popolazione messicana. Quest’ultima non mancò mai di attirarlo. A partire dal 1547, Bernardino si diede a raccogliere i ‘detti degli antichi’, vale a dire un insieme di modi di dire, che costituivano una sorta di filosofia morale degli Aztechi. Dal 1550, iniziò altresì a registrare i racconti indigeni, circa la conquista iberica. Otto anni dopo, Sahagùn cominciò quindi a lavorare alla sua opera più corposa, uno studio della religione azteca, un trattato davvero monumentale destinato con il tempo a divenire un’estesa enciclopedia in dodici volumi del sapere messicano, in cui confluiranno anche i suoi studi precedenti. Il prete missionario classificò tre gruppi di nahuatl accademico (i tlatimine), provenienti da differenti città dell’ex Impero azteco. Fece domande ai nativi, confrontò le risposte dei tre gruppi indipendenti e chiese numerosi chiarimenti, riguardo alle molte differenze. E tutto questo fu fatto in nahuatl. Tale lavoro di Bernardino è conosciuto grazie ad un manoscritto, detto il Codice fiorentino: questa compilazione, basata su un’ingegnosa collazione di documenti tutti di prima mano, contribuì enormemente alla descrizione (non solo dei costumi religiosi) della civiltà nahuatl e della lingua del dissolto Impero azteco. Si tratta di un imponente codice di duemilaquattrocento pagine, organizzato in dodici Libri, con circa duemilacinquecento illustrazioni opera di artisti nahuatl, alle prese qui con tecniche tanto di loro appartenenza, quanto europee (evidentemente insegnate, ai nativi, da Sahagùn stesso): un apparato iconografico-illustrativo veramente grandioso, nonché raro in un manoscritto di età moderna. L’alfabeto del Codice fiorentino è bilingue: spagnolo ed azteco, disposto su apposite carte e fogli. Si tratta in maniera documentatissima di cultura, storia, religione, cosmologia, società, pratiche rituali, produzione e diffusione di beni economici, consuetudini e usanze della popolazione azteca, sino alla conquista del loro Impero, da parte delle milizie spagnole di Cortéz. Significativo è che l’intera narrazione viene costruita e raccontata da un punto di vista non spagnolo ed europeo ma da quello di Tenochtitlan. Il codice fiorentino in questione – base, insieme ai Primeros memoriales, della Historia general de las cosas de Nueva España, di cui tra poco diremo – fu scoperto e studiato alla fine del XVIII secolo, a Firenze, dall’illuminista, erudito e bibliotecario Angelo Maria Bandini, in una copia custodita presso la Biblioteca Medicea Laurenziana. Quella riscoperta, ad opera di una delle menti più vive del Granducato di Toscana, sotto i Lorena, fu l’autentico punto di partenza, per la ripresa degli studi su Bernardino e la sua opera, che hanno avuto poi tra Otto e Novecento nuovi e ulteriori contributi da più parti.
Dietro richiesta delle autorità spagnole, Sahagùn compose, altresì, una versione in castigliano della propria opera, intitolata per l’occasione Historia general de las cosas de Nueva España, ricca di critiche al disordine sociale recato nel Nuovo Mondo dalla conquista iberica. La cosa, a Madrid, non fu affatto gradita. Nel 1577, Filippo II promulgò un’ordinanza regia con cui vietò a chiunque di prendere conoscenza dello scritto di Bernardino e di contribuire alla sua circolazione. La copia più antica appartiene ai Codici Matritensi, che sono conservati presso la Biblioteca del Palazzo Reale di Madrid, e nella Reale Accademia di Storia della capitale spagnola. A stampa, l’opera fu pubblicata, solo nel XIX secolo, per la precisione nel 1829: ostile all’azione dei conquistadores, resta la miglior fonte per la conoscenza delle antichità messicane. Ai primi due Libri appartiene il Breve compendio de los ritos idolátricos (1570), inviato a Papa Pio V. Solo di recente la parte nahuatl della Historia è stata tradotta nella sua interezza. A Sahagùn sono stati attribuiti anche l’Evangeliarum Epistolarium et Lectionarium Aztecum (edito solo nel 1858) e il forse apocrifo manoscritto religioso steso in lingua nahuatl dal titolo latino Exercitio quotidiano, composto da meditazioni giornaliere, latine, estratte dal Nuovo Testamento.


Religione, scienza e ricerca antropologica nella descrizione storica della conquista

Lo scrittore spagnolo, oltre all’accurata storia del regno azteco e della conquista madrilena, si consacrò congiuntamente allo studio delle antichità indigene, dedicando a lingua e cultura nahuatl la sua Psalmodia Christiana (1583). Pioniere di etnografia storica, Bernardino de Sahagùn si volse, per oltre mezzo secolo, a studi circostanziati sulle credenze azteche, esaminando, del Messico prima della conquista, non solo le tradizioni religiose, ma anche la storia e la cultura, contribuendo – come detto – alla decifrazione del nahuatl, l’antica lingua dell’Impero azteco. Egli tradusse i salmi, i canti e un apposito catechismo in nahuatl, quindi in lingua messicana. Nel 1564 dodici francescani giunti dalla Spagna e guidati da lui – il vero padre della etnografia meso-americana – incontrano i saggi e i dignitari del popolo azteco appena assoggettato. Un momento storico ed insieme il più alto segno di quel confronto culturale e religioso, a lungo cercato da Bernardino. L’unica copia manoscritta atta a descrivere quell’incontro è emersa dagli archivi segreti vaticani soltanto nel 1920, pertanto poco più di un secolo fa, gettando nuova luce sulla figura e le iniziative del sacerdote missionario.
Durante l’età delle scoperte ed esplorazioni geografiche, fra il 1450 e il 1700, il governo delle potenze iberiche manifestò un grande interesse per le attività di evangelizzazione missionaria delle popolazioni indigene incontrate nelle terre di recente conquista. Nella Spagna cattolica ed anche nel Portogallo il progetto missionario venne seguito ed incoraggiato dai monarchi sotto il loro patronato reale, ed i sacerdoti cristiani rientrarono, così, a fare parte di un più ampio – politico, non solamente religioso – progetto di colonizzazione, culturale e militare insieme. I frati francescani miravano alla conversione alla fede di Roma dei nuovi popoli centro-americani. Questa era la strategia. Numerosi religiosi furono convinti, pertanto, del significato teologico dell’opera di evangelizzazione. Almeno inizialmente, in questo contesto si mosse ed agì anche Bernardino de Sahagùn, molto sensibile nei confronti delle istanze millenaristiche, che animavano il suo ordine. L’area meso-americana, infatti, poteva rappresentare una sorta di terra vergine, di nuovo Eden lontano dalla corruzione della società europea di allora, dove la leadership della Chiesa era chiamata ad affrontare nuove sfide, ed a fruire di nuove opportunità. La Nuova Spagna costituiva in tale senso un’occasione, per proporre, rivisto, il puro spirito della prima cristianità, corrottosi al di qua dell’Atlantico e passibile – ecco gli aspetti escatologici – finalmente di una vera rinascita spirituale. In questo contesto, si inserì, nel corso delle prime decadi della conquista spagnola, in America centrale, l’opera di conversione di molti indegni, in verità talora alquanto superficiale e nell’intimo poco sentita.
Si giunse, anche grazie a Bernardino, ad una fase di (malcelato) sincretismo religioso, con una mistura di simbologie, cristiane e amerinde, cattoliche e azteche, che, nella produzione artistica del tempo, sono state poi definite indo-cristiane. Ispirati dalla spiritualità francescana, e dai codici della cultura umanistica del nostro Rinascimento, i frati minori francescani come Sahagùn organizzarono le comunità indigene locali in vere e proprie comunità utopiche. La risposta dei nativi, peraltro, non era sempre quella che ci si attendeva: le pratiche rituali delle popolazioni meso-americane, specie in Messico, tenevano in vita diverse credenze ancestrali, precedenti il contatto con gli europei. La loro, per moltissimo tempo ancora, rimase, quindi, una appartenenza religiosa multipla. Se ne può trovare conferma anche nei Primeros memoriales di Bernardino, che il religioso iberico iniziò a scrivere, a Tepepolco, raccogliendo materiali poi pubblicati, nel 1583, da Pedro Ocharte, e a lungo circolanti in Nuova Spagna, attestazione dell’incontro fra predicazione cristiana da una parte e tradizione (anche poetico-letteraria, oltre che religiosa) nahuatl dall’altra.
Bernardino non cessò mai di provare viva curiosità verso la visione del mondo degli Aztechi e non solo sul piano strettamente linguistico. Fra il 1553 e il 1555, intervistò – per dirla qui in parole moderne – numerose tribù indigene del luogo, chiedendo loro un parere (che risultò essere in genere negativo, e che lo influenzò non poco) sulle prospettive della conquista spagnola, vista e temuta dai popoli centro-americani, come il serio rischio di vedere perse o cancellate e le proprie tradizioni e la propria identità. La conquista spagnola aveva del resto posto inevitabilmente fine all’Impero azteco, la cui storia gloriosa rimaneva viva nella memoria indigena e non voleva cedere il passo al nuovo. Il fervore religioso delle prime conversioni di massa ad opera dei missionari perse così forza e in loro, in Sahagùn soprattutto, si sostituì il timore che le preoccupazioni ed i timori delle popolazioni locali fossero, in effetti, più che giustificati. In gioco, vi erano l’identità e la sopravvivenza di una civiltà e del suo antico sapere. Evangelizzare non poteva volere dire cancellare e Bernardino ne divenne ogni giorno di più consapevole. I popoli indigeni e il loro operato nella storia del Nuovo Mondo erano da comprendere e non da distruggere. Tale coscienza si fece sempre più strada nella mente di numerosi frati, primo fra tutti – per l’appunto – Sahagùn. Per lui, l’anno della svolta fu il 1558, quando il frate Francisco de Toral gli commissionò di trascrivere, in lingua nahuatl, una relazione sui costumi degli indigeni e la possibilità locale di interagire con il progetto missionario, previsto in due fasi: studio e conversione. Bernardino parlò in prima persona – in particolare a Tepepolco, all’incirca a cinquanta miglia a nord-est della attuale Città del Messico – con dozzine di abitanti dei più antichi villaggi di cultura nahuatl, assistendo a cerimonie poi riferite ai confratelli, nel convento francescano. Studiò a fondo i rituali religiosi ed il calendario astronomico aztechi, le usanze familiari, i costumi politici ed economici di quelle terre. Durante le sue ricerche Sahagùn si rivolse anche alla storia naturale: in un apposito erbario catalogò le piante locali e il loro uso medicinale, con estese descrizioni della flora e delle sue applicazioni in campo terapeutico. Prese in tale maniera forma il Libellus de medicinalibus Indorum Herbis, composto in latino – a partire dai rapporti di Bernardino – da Juan Badianus de la Cruz: un compendio, a scopo farmacologico, della botanica di matrice azteca, con disegni accurati e descrizioni delle diverse piante officinali, redatto accordando il sistema azteco di organizzazione dei dati e materiali naturalistici con quello della scienza europea di allora. Il risultato finale fu analogo, da più punti di vista, al Tesoro messicano poi edito – frutto della relazione di Francisco Hernandez e ultima impresa a stampa della romana Accademia dei Lincei – dal galileiano Francesco Stelluti, nel 1651, col titolo latino Rerum medicarum Novae Hispaniae Historia. Anche Bernardino fu, pertanto, parte di quel processo di valorizzazione ed acquisizione di notizie e informazioni naturalistiche, che fece giungere e conoscere, in Europa, nuove specie di piante, ampliando enormemente gli orizzonti della botanica: catalogarle, adoperando una precisa nomenclatura, fu uno dei compiti che la cultura scientifica europea si assunse allora, lavorandovi con zelo per oltre due secoli.
Il frate spagnolo non approvò l’introduzione, in America centrale, dell’Inquisizione, nel 1570, mentre lui stava attendendo alla stesura di una Bibbia nahuatl. Distante dalla Riforma tridentina – e dall’uso temporale della fede cristiana – lamentò la decisione presa dal Concilio delle Indie (1575), volta a condannare con la forza tutte le scritture in lingua indigena. A rischio erano dunque anche le sue ricerche documentarie sulla cultura azteca. Bernardino fu tra quei missionari cristiani per i quali le tradizioni locali andavano avvicinate ed investigate, con estremo rispetto, senza alcuna condanna ideologica a priori. Lo attestano anche le due versioni che scrisse (nel 1576 e nel 1585) della storia della conquista dell’Impero azteco: in quelle pagine manoscritte, non si concentrò solo su eventi di carattere politico e bellico ma diede altresì conto, ancora una volta, di costumi religiosi e di pratiche sociali, non importava se diverse da quelle dei conquistatori. Il suo punto di vista – sovente, per non dire quasi sempre – era quello indigeno, l’angolo visuale quello di chi la conquista l’aveva in fondo subita e non messa in atto. Non lesinò commenti critici all’operato di Cortéz e dei governatori della Spagna, i quali fecero l’errore di importare nel Nuovo Mondo forme e strutture politiche che non vi appartenevano. Molte delle carte manoscritte originarie di Bernardino andarono perse, in particolare quelle relative alla versione del 1585 della storia. Altre sono state rinvenute, poi, da John Glass, nel fondo antico della Biblioteca pubblica di Boston. Trattasi di materiali molto utili per comprendere il piano complessivo della Historia general di Sahagùn. Quest’ultimo vide nella storia della conquista dell’Impero azteco e più in generale delle aree meso-americane uno strumento linguistico, nel quale vennero coinvolti spesso loro malgrado i frati francescani, riassorbiti dentro un gioco più grande di loro, quello di una guerra che avvelenò il Nuovo Mondo. Verso di essa, Bernardino nutrì numerosi sospetti e fu nella seconda ed ultima parte della sua vita assai critico.


Prima degli Aztechi: lingua e storia dei Toltechi in Meso-America

Fra le civiltà centro-americane, la lingua nahuatl non era parlata solo dagli Aztechi con i quali gli spagnoli e Bernardino de Sahagùn entrarono in contatto, ma altresì dai Toltechi, un altro popolo, nativo americano, di età pre-colombiana, che aveva dominato il Messico centrale tra X e XII secolo: un popolo di fieri guerrieri dall’origine nomade, giunto sull’altopiano messicano nel IX secolo. Nel 1168, la capitale tolteca era a Tula, presto distrutta, tuttavia, dai popoli confinanti: una dispersione che vide i Toltechi migrare, spingendosi sino in Nicaragua. Di quel periodo di crisi, approfittarono proprio gli Aztechi, che imposero il loro dominio sulla regione.
Sul finire del X secolo, il leggendario re Quetzalcoatl – divinizzato poi dalla mitologia maya, azteca e olmeca come serpente piumato – aveva portato i Toltechi nello Yucatan. Fu l’origine di un regno congiunto maya-tolteco con capitale Chichen Itza ed una cultura durata sino alla conquista da parte degli spagnoli, nel 1544. Alla vecchia Tula si era sovrapposta e via via sostituita la nuova città di Teotihualcan, più raffinata e con manifestazioni artistiche di notevole esuberanza, caratterizzata, inoltre, dal gusto per le grandi costruzioni, ripreso poi dalle piramidi azteche, e rintracciabile anche negli odierni siti archeologici e archeoastronomici maya. Dai Toltechi, gli Aztechi derivarono pure l’usanza dei sacrifici umani, peraltro abbandonata al tempo dell’arrivo dei frati francescani. Prima di Aztechi e Maya, i Toltechi avevano riunito manu militari vari piccoli stati del Messico centrale, installando la propria capitale a Tollan. Operazioni portate avanti sin dal 750 d.C.
Abilissimi costruttori di templi, i Toltechi furono la principale potenza indigena, prima della nascita effettiva dell’Impero azteco. La loro influenza, a più livelli, si diffuse in tutte le zone meso-americane, durante la cosiddetta epoca ‘post-classica’. Sotto il profilo architettonico e costruttivo, il loro influsso sui Maya dello Yucatan e sugli Aztechi dell’attuale Messico è indiscutibile. Ceramiche tolteche sono state, inoltre, ritrovate anche in Costarica. L’Impero tolteco raggiunse il suo apice, nel 1200 circa, e la stessa famiglia regnante degli Aztechi affermava – gli ultimi esponenti lo dissero a Bernardino de Sahagùn – di discendere proprio dai Toltechi, nello specifico da quelli stanziati nella città sacra di Colhuacan.
Nei suoi studi, su Bernardino de Sahagùn e sulla conquista della Nuova Spagna, Miguel Leòn Portilla ha ricordato che, secondo diverse leggende nahuatl, i Toltechi sarebbero stati i padri di tutte le civiltà centro-americane, il che spiega perciò come tolteco sia rimasto nell’uso, come sinonimo di artista o artigiano. La loro città, Tollan, fu descritta come piena di meraviglie. Secondo precise linee di continuità, quando gli aztechi riscrissero la loro storia e la raccontarono ai missionari francescani, cercarono di dimostrare i propri legami con i Toltechi. Una storia, quella tolteca, che – agli occhi di Bernardino de Sahagùn, come ancora oggi – sfuma nella leggenda, e da questa trae alimento, sicché resta assai difficile separarle e stabilire dove finisca l’una e cominci l’altra.
Secondo alcuni racconti, dopo la caduta di Tula, nel XII secolo, alcuni Toltechi si ritirarono a Cholula, caduta soltanto secoli dopo quando fu bruciata da Cortéz e dai conquistadores spagnoli. La parte maggiore della storia tolteca è nota per merito dei resoconti degli ultimi discendenti, come gli stessi Aztechi incontrati da Sahagùn, scritti secoli dopo il ‘periodo buio’ del Messico centrale.


Nel caro ricordo di Francesco Surdich,
a un anno dalla sua scomparsa



Nell'immagine, la Psalmodia christiana di Bernardino da Sahagùn.


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Documento inserito il: 29/06/2025
  • TAG: storia del Messico, conquistadores, Salamanca, storia religiosa, Nuovo Mondo, antropologia, viaggi missionari, Spagna, età moderna, scienze naturali, francescanesimo

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