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Roma contro Roma: le grandi battaglie fratricide [ di Carlo Ciullini ]

Una entità che divora se stessa si trova sempre di fronte a due alternative: o sopravvive e, come rifocillatasi di una sua parte, acquista nuovo vigore e quindi prospera, oppure soccombe estinguendosi.
Per quanto si tratti ovviamente di una metafora, tale immagine può forse rappresentare in modo indicativo quanto illogica (se logica può esservi nella guerra) sia la contrapposizione cruenta tra fazioni avverse di uno stesso popolo, quando gli ideali o i meri interessi siano ostili gli uni agli altri.
Le guerre civili possono portare alla morte ineluttabile di una nazione: uomini appartenenti allo stesso ceppo, individui dalla lingua, dagli usi e dalle leggi comuni che si fronteggiano e si uccidono tra loro, possono segnare davvero l''apposizione della pietra tombale sui destini delle genti.
Tuttavia, la realtà politica che sappia superare la peggiore delle avversità non solo continua la propria esistenza, ma si fortifica a tal punto da prevalere, infine, su tutte le altre.
Ad ogni modo, pare opportuno evidenziare un parallelo storico tra ciò che accadde in seno a Roma duemila anni fa, in epoca repubblicana prima e imperiale poi, e i tragici eventi che nei secoli successivi insanguinarono mani fraterne.
Tra tali circostanze ci sono casi che, a nostro parere, ben incarnano questo concetto, a maggior ragione se rapportati a quel mondo romano che andremo a esaminare in profondità, da qui a breve.
Il lustro di guerra civile (1861-1865) che devastò la vita americana, ad esempio, può legarsi alle lotte efferate che portarono, dalle ceneri di una Repubblica romana ormai dissoltasi, alla travagliata nascita della autorità assoluta dei principes.
La guerra di Secessione tra Nord unionista e anti-schiavista e Sud confederato, infatti, palesa con chiarezza i fremiti di una giovane nazione (formatasi neanche un secolo prima, nel 1776) che si assestava violentemente in vista di un futuro saldo, sicuro e dominante in ambito mondiale.
Potremmo quasi dire che le battaglie truculente tra “blu” e “grigi” rappresentassero una sorta di esercitazione dolorosamente sperimentata dagli Usa sulla propria carne, esercitazione costituente un prodromo alla espansione globale basata, in primis, sulla forza bellica.
Gli Stati Uniti hanno sempre guardato alla gloria di Roma come a un modello da seguirsi in molteplici aspetti: l'aver assunto icone come l'aquila, o il fascio littorio presente in Parlamento, oppure l'aver utilizzato termini quale Campidoglio per etichettare la sede delle grandi decisioni politiche della nazione, ben sottolineano quanto robusto sia stato il “fil-rouge” che ha unito queste due entità, vere dominatrici della propria era.
Nelle prossime pagine volgeremo lo sguardo su alcune epocali battaglie che hanno segnato la parabola plurisecolare dell'Urbs: Romani contro Romani, armamenti e tattiche militari spesso simili, ordini secchi impartiti sul campo nel medesimo idioma... Farsàlo, Filippi, Azio, Ponte Milvio: condensiamo in questi quattro eventi, epicamente tragici, la variegata e triste lista delle guerre civili che funestarono Roma.
Cronologicamente, è possibile separare queste grandi battaglie in due gruppi distinti e disomogenei: Farsalo (47 avanti Cristo), Filippi (42) e Azio (31) ebbero luogo in un lasso di tempo relativamente breve, a riprova del fatto che quegli anni furono decisivi per la sofferta metamorfosi attraversata dalla Roma repubblicana, trasformatasi in un Impero ecumenico.
Ponte Milvio (312 dopo Cristo) segnò invece, con la vittoria definitiva di Costantino, il passaggio di consegne dal paganesimo al Cristianesimo e il relativo abbandono del classicismo dei gentiles, che indirizzarono la deriva storica di Roma verso l'era tardo-antica.
Le scosse elettriche che percorsero, scuotendolo a morte, il corpo decrepito della vecchia Repubblica costituirono la sanguinosa e fisiologica conseguenza di “regolamenti di conti” interni a potentati privati, decisi a primeggiare incontrastati: nel caso di Farsalo, più che dello scontro tra chi voleva sovvertire le norme istituzionali (Cesare) e chi intendeva difendere il senato repubblicano (Pompeo) si trattò della disputa risolutiva tra i due attori principali messi in scena da Roma nel corso degli ultimi decenni.
A Filippi, laddove formalmente si punì il cesaricidio di Bruto e Cassio, si tese in realtà a spegnere ogni focolaio anti-monarchico che potesse, ravvivandosi, incenerire i progetti futuri di dominio assoluto da parte di Cesare Ottaviano e Marco Antonio. I quali poi, tre lustri più tardi, chiarirono definitivamente ad Azio chi dovesse divenire l'incontrastato signore del'Urbs e dell'Orbe.
Infine, con un volo temporale di tre secoli e mezzo, planeremo sulle rive del flavus Tiber (allora...) per assistere all'ultima battaglia tra Romani di cui vogliamo trattare: è il 312, e lo scontro fatale si svolge alle porte di Roma.
A contendersi il titolo di imperatore sono Massenzio e Costantino, impegnati a stabilire con le armi chi dovesse ricoprire il ruolo di Augusto, succedendo in questo ai rispettivi genitori: condividere il potere, un grande potere, o ritenerlo usurpato non è mai piacevole...
FARSALO (48 a.C.)- E' il 9 Agosto: nella piana della Tessaglia abbacinata dal sole estivo, tra la polvere dei campi arsi dalla calura e il fumo dei fuochi accesi dalla battaglia, si scontrano due eserciti romani.
Da una parte le fedeli otto legioni di Caio Giulio Cesare, esperte e temprate dalle guerre galliche, per un totale di poco più di ventimila soldati: esse rappresentano il partito dei populares, più vicino alla plebs; vi si contrappongono, guidate da Pompeo, le truppe senatoriali legate agli optimates, la cui consistenza rasenta il doppio degli avversari.
Si tratta, tuttavia, di una armata formata in diverse sue parti da reclute senza una valida esperienza bellica, in primis i cavalieri condotti da Tito Labieno: essi, dando inizio allo scontro, portano il loro attacco al grosso della fanteria cesariana senza accorgersi delle coorti di riserva sistemate appositamente da Cesare in modo occulto, coorti la cui improvvisa comparsa sul campo di battaglia mette in rotta l'ala equestre di Pompeo.
E' il momento decisivo: Marco Antonio, il fedele braccio destro di Cesare, assale il cuore dell'esercito del Senato, non più protetto dalla cavalleria ormai in fuga; gli optimates sono costretti a ritirarsi affannosamente, nella confusione più completa.
Dei sessantamila e più Romani che si batterono a Farsalo, restarono sul terreno circa quindicimila uomini, quasi tutti appartenenti all'esercito pompeiano: un duro scotto pagato alla tranquillità di Roma, e una sconfitta mortale per Gneo Pompeo, assoluto protagonista dei decenni precedenti.
Da quel giorno agostano, nell'Urbs comandò (per qualche anno) un uomo solo.
FILIPPI (42 a.C)- Avevano gridato alla libertà riconquistata, i cesaricidi, uscendo dal teatro di Pompeo con i pugnali ancora insanguinati, Marco Giunio Bruto e Cassio Longino in testa.
Ma l'auspicato sostegno popolare all'azione anti-tirannica non era sorto, e la parte forte di Roma, rappresentata da Marco Antonio e Ottaviano, era ben decisa a punire i colpevoli di un tale misfatto.
L'assassinio a tradimento del dittatore perpetuo andava lavato nella vendetta; inoltre, era buona cosa eliminare dalla faccia della terra chi aveva mostrato cruenta avversione verso il culto della personalità: Antonio e il futuro Augusto esigevano infatti la loro fetta di immenso potere, a detrimento di un Senato quasi del tutto esautorato delle proprie prerogative.
Coloro che già (e con successo) avevano congiurato per eliminare l'uomo forte di Roma, avrebbero potuto riproporsi pericolosamente sul palcoscenico della tragedia: era saggio e salutare, dunque, infrangere ogni anelito di nostalgia repubblicana. Nell'Ottobre del 42, il figlio adottivo di Cesare e il più abile dei generali del grande condottiero dispongono le loro milizie dinanzi a quelle dei cesaricidi: per l'una e per l'altra parte, si palesa il redde rationem.
La vittoria eventuale di Antonio e Ottaviano avrebbe segnato il de profundis della Repubblica e l'instaurazione di una vera e propria diarchia; il successo invece delle armi di Bruto e Cassio avrebbe battuto l'ora della riscossa vetero-istituzionale.
Gli eserciti che, secondo le fonti, si affrontano sono mastodontici: circa centomila uomini per schieramento.
A Filippi, in realtà, si tengono due battaglie, che attraversano l'Ottobre ellenico l'una a distanza di tre settimane dall'altra: nella prima Bruto riesce con le sue legioni a occupare il campo di Ottaviano, tuttavia non sa dar seguito all'impresa e, con la sua titubanza, lascia che il confronto stalli in una situazione di assoluta incertezza; addirittura Cassio si suicida, ritenendo erroneamente che il compagno sia incorso in una dura sconfitta.
I morti sono quasi quindicimila tra le schiere antoniane (Ottaviano, malato, assume un ruolo defilato nella conduzione delle azioni belliche), la metà circa tra quelle degli avversari.
Dopo giorni trascorsi a controllarsi reciprocamente, ma senza scendere in campo, le due armate cozzano furiosamente nella battaglia risolutiva: malgrado l'eroismo di Bruto e dei suoi, l'esercito cesaricida è sterminato e il comandante sconfitto si trafigge con la spada.
Cesare è vendicato, ma la Repubblica si inabissa per sempre.
AZIO (31 a.C.)- L'Impero di Roma, l'Impero per eccellenza nella storia dell'umanità, nasce sulle onde del basso Adriatico, dinanzi le coste epirote, presso il promontorio di Azio: la data fatale è il 2 Settembre del 31 avanti Cristo.
Anche in questa occasione, come a Filippi una decina di anni prima, protagonisti assoluti sono Marco Antonio e Ottaviano; tuttavia, i due sono stavolta contrapposti l'uno all'altro, in uno degli scontri navali più pregni di conseguenze che si siano mai combattuti.
Dopo la vittoria sui cesaricidi del 42, la coppia di alleati si era spartita l'immenso dominio di Roma: al figlio adottivo di Cesare andava l'Occidente, l'Oriente al generale di mille battaglie.
Al fianco di quest'ultimo sta ora la sposa Cleopatra, donna dall'ambizione infinita e dal fascino irresistibile al quale anche il grande Cesare non aveva saputo porre resistenza.
Una flotta di quattrocento navi è interamente formata da armi romani, e condotta in qualità di ammiraglio da Marco Vipsanio Agrippa, straordinario soldato al servizio di Ottaviano e suo più fedele amico; a essa avversa i rostra di bronzo una armata navale formata per buoni due/terzi da scafi egizi, per un totale di quattrocentottanta unità.
Pur in superiorità numerica, le forze di Antonio, più goffe, lente e mal comandate, cadono nel tranello nemico di spostarsi in alto mare, allargando così il fronte dello scontro: e quando ancora le sorti della battaglia sono sospese, la regina tolemaica, inaspettattamente, abbandona la scena sulla propria ammiraglia, la Antonas, seguita dal resto della sua flotta.
A questo punto, trascurando del tutto una situazione che poteva ancora regalare risultati positivi, anche Antonio lascia sola la propria flotta, gettandosi all'inseguimento della amata fuggiasca; le navi antoniane sono così distrutte o catturate ad una a una, mentre a niente serve l'eroismo dei loro marinai.
Al termine dell'epica giornata, a fronte di solo trentacinque navi perdute per Ottaviano, con duemila cinquecento uomini periti, sono ben quattrocento le triremi avversarie messe fuori uso dal vincitore: il numero dei morti della flotta egizio-romana è doppio rispetto ai nemici.
Una sola, vera colpevole del disastro: Cleopatra. Un nome a Roma considerato efferato, capace di governare la mente di uomini eccezionali che, tra le sue abili mani, divennero docili strumenti di progetti sfrenati. Con la fuga di Cleopatra s'invola per sempre anche un futuro di dominio per Antonio che, abbandonato pure dal suo esercito di terra, preferisce defilarsi spontaneamente dandosi la morte; evita così l'umiliazione che il vincitore gli avrebbe probabilmente inflitto, attingendo a quella leggendaria clementia che il padre adottivo aveva mostrato di saper maneggiare a proprio vantaggio con tanta abilità.
Da ora in poi, nei secoli a venire, a Roma e sul suo sterminato territorio dominerà istituzionalmente una sola persona, l'imperatore.
PONTE MILVIO (312 d.C.)- I rampolli di Costanzo Cloro e Massimiano, rispettivamente Costantino e Massenzio, ritennero giusto stabilire con il ferro chi dovesse governare l'Impero: a partire dalla tetrarchia deoclezianea, al tramonto del III° secolo dopo Cristo, il gioco degli equilibri sottili nella suddivisione del potere e delle rispettive sfere d'influenza era stato esercitato in un clima di relativa concordia. Ma adesso, nel 312, dopo qualche lustro di quiete in casa imperiale, fremiti ambiziosi, perniciosi per una autorità pacificamente condivisa, consigliavano ai due giovani caesares di sbrigare la faccenda armi in pugno.
Presso il ponte Milvio, sulle sponde del Tevere (che da flavus si sarebbe funestamente tinto di rosso), il 28 Ottobre Costantino e Massenzio (dal primo ritenuto un usurpatore) si scontrarono in una battaglia feroce che, in modo sanguinoso, determinò non soltanto un epocale passaggio politico, ma anche (e sopratutto) religioso-istituzionale: con la vittoria costantiniana, e la conseguente sconfitta dell'esercito pagano, nasce ufficialmente l'era cristiana.
Il terribile scontro tra Romani (e rispettivi alleati) si tenne malgrado Massenzio avesse potuto trovare un ottimo riparo dentro quelle Mura aureliane che aveva provveduto a riparare: tuttavia, sia il coraggio (che gli va riconosciuto), sia la superiorità degli uomini lo indussero a dar battaglia.
Le fonti sugli effettivi scesi in campo sono discordi: le cifre più consone paiono quelle lasciateci dai Panegyrici latini, con circa centomila armati per Massenzio e quarantamila, o poco più, per il suo avversario.
L'impeto delle schiere costantiniane fu tale da sbaragliare lo schieramento nemico, messo in rotta verso il fiume e qui in gran parte perito: il ponte provvisorio costruito a fianco del Milvio dai genieri di Massenzio, infatti, non resse al peso dei suoi soldati in fuga verso le porte della città, facendone cadere tra le onde e annegare una moltitudine, tra cui lo stesso imperatore-usurpatore.
Il simbolo nuovo apparso sulle insegne di Costantino, una croce (o meglio un chi-rho), prendeva da adesso, e in tutti i sensi, il posto degli dei e degli emblemi pagani.
I morsi profondi, lancinanti che Roma si inferse nel corso della sua storia fanno parte di un processo endemico necessario: la creazione, lo sviluppo e la stabilizzazione delle realtà politico-statali più importanti del pianeta hanno attraversato, quasi canonicamente, i momenti bui delle guerre civili e delle lotte intestine.
Una sorta di pedaggio oneroso da pagarsi alla “messa in sicurezza” della nazione e alla fortificazione dei suoi apparati istituzionali, in modo da impedire ulteriori disastrosi movimenti tellurici che ne minassero irrimediabilmente le fondamenta.
Il nostro stesso paese, settant'anni fa, ha pagato un duro scotto alla guerra fratricida, in vista di un'agognata libertà democratica che sarebbe giunta nel 1945; un biennio di efferate lotte tra Italiani, miste per di più alle ecatombi della seconda guerra mondiale.
Del caso americano abbiamo già parlato; ma, ci chiediamo, quante altre realtà nazionali sono incorse nelle medesime vicessitudini, prima di portare a termine quel percorso evolutivo che le ha rese salde entità politiche di indiscutibile livello internazionale?
La Gran Bretagna è assurta alla vetta del dominio mondiale anche facendo leva su quell'epocale cataclisma istituzionale che fu la ribellione alla Monarchia degli Stuart da parte del Parlamento controllato da Cromwell, essendo ormai tramontata da mezzo secolo l'aurea età elisabettiana; la Francia solo per via rivoluzionaria seppe accendere i motori di quella espansione territoriale globale (avventura nord-americana a parte) che, attraverso anche la epopea napoleonica, conferì alla nazione transalpina il senso vero della grandeur; la Russia stessa, zarista e latifondista ma in fondo retriva, e chiusa al progresso occidentale di cui scimmiottava alcuni aspetti, solo dopo il terremoto leninista-bolscevico assunse le caratteristiche che la portarono a dividersi con l'America il governo del mondo.
In poche parole, può nascere una realtà politica e nazionale ben salda anche da un evento a carattere sovversivo come bella intestina e rivoluzioni leggendarie, in cui si combattono tra loro compatrioti, e parenti prossimi possono dover fronteggiarsi l'un l'altro su un campo di battaglia...
Certamente si tratta di una realtà inizialmente debilitata, ma poi resa più stabile e sicura attraverso la eliminazione dolorosa della parte più flebile del proprio organismo. Roma, perciò, divenne più forte attraverso le proprie epocali guerre civili: Mario e Silla, Cesare e Pompeo, Ottaviano e Antonio; con esse si antepose il singolo rispetto alla collettività, e l'arcaico ruolo rappresentativo del Senato andò via via scemando, sino a porsi prono dinanzi all'uomo del momento: chi aveva l'esercito dalla sua parte, aveva in mano Roma, quella repubblicana dapprima, poi la imperiale.
Riassumendo, le grandi democrazie moderne hanno reso stabili le loro fondamenta dopo aver passato una fase acuta di grave crisi interna, crisi legata a processi rivoluzionari e a conflitti civili: come se si fosse attuata una catarsi storica, la nuova entità nazionale, emendata dal sangue versato tra i propri figli, ha saputo corroborare nuove e vitali energie tese a sviluppare egemonia, dominio, prevaricazione.
Anche alla Roma di due millenni fa accadde così.
C'è da chiedersi, infine, che cosa avrebbe potuto fare di più Roma stessa, se nella sua secolare storia non avesse copiosamente mietuto messi di cives impegnati a trucidarsi fra loro; un tal numero di legionari, tragicamente estinto e sottratto ai campi di battaglia a causa di lotte fratricide, quanto sarebbe stato utile se impegnato contro i popoli barbari, poco inclini a restar sottomessi o a concedere ampie porzioni dei loro territori?
Nei quattro eventi epocali dei quali abbiamo trattato, morirono per mano di connazionali circa duecentocinquantamila soldati romani o alleati: è un numero certo non ufficiale ma, stando alle fonti, senz'altro verosimile.
Si tratta di una cifra esorbitante, sopratutto se la poniamo in relazione alle entità demografiche dell''epoca antica: quante legioni in più si sarebbero potute schierare lungo i limina di un dominio territoriale tanto esteso?
Quante decine, centinaia di ipotetiche coorti mancarono all'appello, tra quelle eventualmente stanziabili nelle regioni più turbolente, nelle province a perenne rischio-agitazione?
In termini estremi, quanto ancor più potente sarebbe stata Roma, se non avesse scempiato le proprie forze e le risorse impareggiabili con le guerre civili che tanto l'afflissero?
Probabilmente, la risposta a tali quesiti sta nella sua stessa forza immane, che pervadendola di energia allo stato puro la indusse più volte a volgere verso di sé la violenza incontrastabile del suo comando sul mondo: nel concreto, le guerre civili mai fiaccarono irrimediabilmente Roma, ma anzi la resero sempre più vittoriosa e dominante, prima del lento e fisiologico declino.


Riferimenti bibliografici

PALADINI V.-FEDELI P. (a cura), Panegyrici latini, Istituto poligrafico dello Stato, Roma, 1976
APPIANO, Le guerre civili, Idee nuove editore, Roma, 2004

Nell'immagine, Gneo Pompeo Magno, avversario di Gaio Giulio Cesare e da questi sconfitto nella decisiva battaglia di Farsalo.Documento inserito il: 05/09/2015
  • TAG: antica roma, guerre civili, repubblica, impero romano

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