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Quando Roma andava in guerra con Asini e Scorpioni [ di Carlo Ciullini ]

Tra due eserciti che si scontrano la differenza, spesso fatale, la fanno il grado di preparazione e di efficienza di ciascuno degli schieramenti.
Spesso il livello raggiunto permette di prevalere sull'avversario anche in situazione di inferiorità numerica: ciò che conta è la capacità di sostenere la forza bellica altrui, e di saper imporre invece la propria.
A tale discrimine si accompagna quello, forse ancor più decisivo, costituito dal patrimonio tecnologico degli eserciti in conflitto: la tecnologia ha sempre più rappresentato il fattore risolutivo, nella guerre moderne.
Il successo iniziale, tra 1939 e '41, delle forze naziste lanciate da Hitler alla conquista dell'Europa, ad esempio, poggiò, oltre che sul fattore-sorpresa, sulla superiorità tecnologica tedesca, con industrie, scienziati e centri di ricerca all'avanguardia.
Il tempo, però, diede modo agli Alleati di portare avanti i propri processi di sviluppo di nuove e più moderne armi che dapprima bilanciarono, e poi ribaltarono gli equilibri in campo.
Si pensi ai radar e ai sonar, arma decisiva in mano agli anglosassoni impegnati negli scontri aerei e navali, o alla comparsa di gigantesche “fortezze volanti”, o di “detectors”per liberare i campi minati.
In verità i tedeschi, con incrollabile ostinazione, diedero a loro volta un vigoroso colpo di reni: anche negli ultimi mesi di guerra infatti, la Germania, pur sull'orlo del tracollo, fu in grado di produrre, grazie alla straordinaria competenza dei suoi tecnici, aerei a reazione, bombe a largo raggio e u-boote di ultimissima generazione.
Strumenti innovativi in grado di rallentare l'evolversi bellico positivo per Sovietici e democrazie occidentali.
La produzione germanica di fine guerra,, ultimo sussulto della sua grande capacità tecnologica, avrebbe avuto bisogno di un arco di tempo maggiore per dispiegare appieno il suo potenziale.
Un impiego più durevole delle nuove armi, supplendo alla carenza di effettivi umani, poteva forse render ben più dura e incerta la vittoria alleata.
Nel XX° secolo, lo sviluppo prodigioso della tecnologia applicata all'evento bellico dettò dunque i tempi e i modi delle varie guerre; si ripeté, a livello di innovatio epocale, ciò che si era manifestato a cavallo tra Medioevo ed era moderna con la comparsa della polvere da sparo, delle prime spingarde e di primitivi archibugi.
Ma si sbaglia, se si limita il percorso tecnologico in campo militare agli ultimi cinque secoli di storia umana: letteralmente, il termine tecnologia indica un interesse per le arti e le abilità, e tale frutto dell'intelletto umano ha, in definitiva, accompagnato l'evoluzione dell'uomo sin dai primordi.
Anche nell'antichità, dunque, se ne faceva uso cercando, nei limiti concreti dei tempi, di svilupparla: e ciò sia in campo civile che militare.
Come accade, oggigiorno, per le nazioni più evolute, anche allora l'utilizzo di mezzi artefatti era legato al grado di civiltà dei vari popoli: dal predominio mesopotamico ed egiziano si passò a quello delle popolazioni indoeuropee, con le poleis greche e i grandi regni ellenistici prima, e la supremazia romana poi.
Gli antichi (ma è forse così ancor oggi) attinsero, nella creazione dei propri strumenti di guerra, a realtà della natura dalle quali prendere spunto.
In primis, si guardò al mondo animale, le cui caratteristiche di offesa e di difesa potevano ispirare artefatti meccanici che riproducessero, ampliandole, qualità peculiari della singola specie.
Il solido guscio della tartaruga, protetta così in modo efficace, aveva ispirato -ad esempio- quella caratteristica formazione a testudo (tartaruga, in latino, e non a caso) con la quale le schiere dei popoli gentiles si difendevano dagli assalti e dai proiettili.
L'ariete stesso, dal cranio robusto e dalle saldissime corna ricurve, aveva proiettato nel campo ossidionale la capacità di abbattere ostacoli, ponendosi a modello di quell'imponente strumento chiamato dai latini, appunto, ares.
Ma i Romani furono sopratutto capaci, nel corso dei secoli, di portare avanti in modo straordinario le proprie competenze in materia di balistica.
Da grandi soldati ed eccellenti ingegneri quali erano, seppero infatti sviluppare in questo campo armi efficacissime, oltremodo letali e, per l'epoca, tecnologicamente all'avanguardia.
Anche in questo caso si guardò a ciò che la natura mediterranea conosciuta poteva ispirare, e vi si attinse a piene mani, a partire dalla onomastica.

L'onagro è una specie di asino selvatico, oggi purtroppo in via di estinzione, gli ultimi esemplari del quale sopravvivono sopratutto nella regione mesopotamica.
Al tempo dell'Impero romano questo animale era ben diffuso: tantoché una sua caratteristica fu presa a modello per etichettare come onagrus un tipo particolare di pezzo da lancio.
Si trattava di una sorta di ciò che oggi chiamiamo “catapulta”: in realtà i Greci, che la katapeltes inventarono (e ben prima dei Romani) affibbiarono tale nome a grosse balestre poggianti su appositi tripodi, balestre dalle quali dardi e pietre venivano scagliate dal gioco elastico della corda.
La forma dell'onagro romano (che poteva assumere varie dimensioni, mantenendo tuttavia intatto il rapporto di scala), ricalcava invece quello delle macchine antiche e medievali, da guerra o d'assedio, dotate di braccio propulsore innestato su una base. Le classiche catapulte, appunto.
L'onagro non gettava dunque proietti tramite una corda tesa che, recuperando l'assetto iniziale una volta liberata, imprimesse loro una violentissima forza elastica ma, dotato come detto di un braccio meccanico, scagliava a parabola pietre di peso variabile dai 4 fino ai 50 chili, e più.
Dunque gli onagri, con la traiettoria arcuata dei loro lanci, erano macchine ad hoc per gli assedi: semplici, grosse pietre, ma anche “bombe” incendiarie potevano esser scagliate a palombella oltre le mura del nemico.
Dei modelli più piccoli si faceva uso sui ponti delle navi, o a difesa dei castra.
Il contraccolpo inferto all'onagro dal forte impatto del braccio (alla cui sommità era posta la retìna del proiettile) con il blocco che ne interrompeva brutalmente la corsa per imprimere alla pietra la sua micidiale forza inerziale, faceva sollevare di scatto la parte posteriore della macchina stessa: accadeva, in pratica, quello che la fisica dètta a una autovettura che ne tamponasse violentemente un'altra.
Come, dunque, l'asino selvatico rompeva ossa e cartilagini a bestie incaute e sprovveduti allevatori col suo repentino scalciare, così la machina romana s'impennava posteriormente ad ogni lancio. Lancio che, nella sua gittata, poteva variare dai 200 ai 600 metri. L'efficacia comprovata degli onagri fece sì che se ne avvalessero nei secoli anche i Bizantini e gli eserciti medievali.
La grande capacità di osservazione dei pratici Romani aveva, nella loro immaginazione, creato questo binomio tra mondo animale e armamento tecnico. E non si fermarono qui. In effetti, un micidiale strumento di morte, che fece la sua comparsa nell'arsenale in dotazione alle legioni verso il 50 a.C. prese il suo nome, Scorpio, dall'artropode che, con scatto fulmineo della coda acuminata, inocula letalmente il suo veleno.
Prototipo dello scorpione è stata la balista (dal greco ballo =lanciare), una prodigiosa invenzione ellenica poi sfruttata dai Romani, della quale abbiamo parlato poc'anzi, e che rappresentò con ogni probabilità l'arma meccanicamente più sofisticata tra quelle pre-moderne.
La balista, dalla forma simile ad una grande delle nostre balestre, montata su un tripode di sostegno per il suo impiego in battaglia, era in grado di scagliare grandi dardi di tre cubiti (più di 1,30 metri di lunghezza) a una distanza di oltre 600 metri, e con un impatto terrificante.
Era adibita anche a proiettare pesanti pietre, ma i Romani preferirono, in questo senso, servirsi piuttosto dell'onagro.
La balista, formata da legno, metallo e corde (o tendini animali) poteva anche esser caricata su un carro, formando così un primitivo semovente chiamato carrobalista: diversi esemplari ne sono effigiati sulla colonna traiana, con legionari intenti al caricamento e al puntamento.
Lo scorpione, che dalla balista deriva e ne è la riproduzione ridotta nella dimensione, venne adoperato con ottimi risultati per la prima volta nel '52 avanti Cristo: Cesare ne fece ampio uso durante l'epico assedio di Avarico, allorquando costrinse alla tragica capitolazione il popolo ribelle dei Biturigi.
In occasioni come questa, ma anche nelle battaglie campali cui successivamente andò incontro l'esercito romano nella sua storia militare, si piazzavano gli scorpiones sulle alture alle spalle delle legioni, onde spazzare e sfoltire coi dardi le schiere nemiche prima dell'assalto.
Le frecce, piccole (tre spanne, cioè meno di 70 centimetri) ma letali, potevano volare fino ai 400 metri, sebbene la precisione del tiro fosse affidabile entro il centinaio di metri dal bersaglio.
Lo scorpio non va assimilato, nel suo funzionamento genuino, a un arco di maggior dimensione: infatti non sfruttava l'elasticità di una corda tesa, ma la torsione repentina di gomene (formate da crine di cavallo o capelli femminili) che producevano lo scatto fulmineo dei suoi due bracci.

Rapportare il termine “tecnologia” a epoche risalenti a due millenni fa può forse far sorridere: ma già gli uomini di allora avevano piena consapevolezza della superiorità di cui un esercito poteva godere in battaglia, se provvisto di strumenti e macchine belliche che ne ampliassero la potenza.
In un'era in cui aveva ancora ben da venire la invenzione della polvere da sparo (che tanto avrebbe ridotto, poi, il canonico corpo a corpo all'arma bianca), l'utilizzo di armi a lunga gittata in grado di mietere le truppe avversarie ebbe il potere, se non di determinare in modo decisivo il singolo scontro, almeno di incanalarlo verso posizioni di forza.
E gli eserciti romani che si sostituirono a quelli ellenistici, ormai eclissati, nell'uso metodico delle macchine da guerra, si valsero ampiamente del loro impiego tattico.
E' difficile immedesimarsi nei guerrieri che si trovavano dinanzi le aquile auree delle legioni: oltre all'effetto concreto di falcidia inferto da pesanti pietre e grandi dardi, va considerato il terrore che il sibilo sinistro dei proietti in arrivo, veri e propri messaggeri di morte, poteva insinuare tra le fila di eserciti stranieri inferiori per evoluzione tecnica e organizzazione bellica ai Romani.
I calci d'onagro e le venefiche stilettate degli scorpiones riversate copiosamente sui nemici di Roma dagli abili serventi ai pezzi, ingigantivano agli occhi altrui la già devastante potenza militare dell'Urbs.

In una famosa scena di un epico film di Sergio Leone degli anni '60, il “cattivo” minacciava il “buono” così: “Quando un uomo col fucile ne incontra uno con la pistola, quello con la pistola è un uomo morto...”.
Evidentemente, anche tra singoli soggetti (o interi eserciti) di pari valore, la maggior dotazione tecnologica è la variabile che fa la differenza: la tecnologia, in pratica, espande le proprie qualità fisiche e permette di prevalere anche al più debole.
Il leggendario “Il gladiatore” di Ridley Scott si apre con uno spettacolare dispiegamento di batterie d'artiglieria romana: siamo in piena epoca imperiale (regno di Marco Aurelio, circa 180 dopo Cristo), e onagri, baliste, scorpioni scagliano in cielo, a getto continuo, dardi grossi come pila, massi enormi e giare infuocate piene di pece.
Un vero e proprio “bombardamento a tappeto” che devasta, ancor prima dell'impatto tra le due schiere, le fila dei guerrieri marcomanni attestati nel bosco, in cima all'altura.
E, per quanto grande fosse il valore militare di quelle popolazioni nordiche, è la superiorità tecnologica, che l'ottimo regista evidenzia con decisione, a far volgere ineluttabilmente le sorti della battaglia a favore di Roma.
L'evoluzione degli armamenti, nella storia dell'uomo, è andata sempre più discriminando il livello di potenza e di efficacia degli eserciti in lotta: un tempo, secoli prima di Cristo, gli spartiati, pur se in numero ristretto ed elitario, furono in grado di dominare i grandi popoli dell'Ellade intera, grazie alla impareggiabile preparazione e disciplina bellica, all'ardore ineguagliabile e allo spirito guerriero che faceva dei loro petti le vere mura di Sparta; oggi, un pugno di soldati equipaggiati di tutto punto può prevalere senza soverchie difficoltà contro forze ben superiori di numero, ma armate malamente e dalla tecnologia antiquata.


Riferimenti bibliografici
CONNOLLY PETER, “The roman army”, Mondadori, Milano, 1976
Documento inserito il: 18/12/2014
  • TAG: macchine da guerra romane, armi pesanti legioni di roma, armi strategiche delle legioni romane, carlo ciullini

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