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Rodolfo II, l'imperatore esoterista

di Francesco Servetto


Il potere ha il privilegio e l’onere di seguire e supportare il progresso scientifico, talvolta tramite processi mecenatici, altre con semplici autorizzazioni o mettendo a disposizione luoghi e risorse. La storia ha conosciuto numerosi sovrani e Capi di Stato la cui impronta progressista ha delineato profondi cambiamenti economici, sociali e scientifici. Intenzionati a conoscere e controllare la conoscenza allo stesso tempo, spesso centellinando il processo di divulgazione dei risultati, essi hanno reso possibile l’affermarsi di idee rivoluzionarie per i tempi. Le ripercussioni sulla società sono più che evidenti: si pensi al cambio di mentalità figlio della proposta di un Cusano, con il suo l’universo infinito, illimitato come il concetto di dio, con buona pace dell’aristotelismo imperante, fondamento della cultura dominante. Spesso, l’uomo del XXI secolo immagina una profonda rigidità nella mentalità dell’uomo rinascimentale, dimenticando, tuttavia, come i moti di ribellione spirituale e intellettuale non siano in realtà relegati solo a scarsi esempi di personaggi dimenticati o - perché no? - finiti sul rogo. La stagione delle divisioni religiose in seno alla Chiesa è, giocoforza, lo sfondo su cui si svolgono eventi di cui noi posteri abbiamo una visione incompleta, fuorviata da luoghi comuni e da una storiografia ancora poco incisiva, talvolta dimentica di fatti e di idee più importanti di quanto si creda.
Nella seconda metà del XVI secolo e nei primi anni del successivo, in area boema vive e governa l’imperatore Rodolfo II, figlio di Massimiliano II, a sua volta governante dai profondi interessi culturali. Già alla corte paterna, infatti, si riuniscono importanti intellettuali, storici, collezionisti, naturalisti; il figlio proseguirà l’opera, ampliandola. Siamo in un’epoca in cui è forte la curiosità per le esplorazioni. Oggetti, manufatti, ma anche curiosi esseri viventi, minerali, piante: nella Kunstkammer o camera delle meraviglie è raccolto ogni genere di curiosità. L’apertura verso l’ignoto, il desiderio di possedere ciò che ancora manca per la comprensione della realtà, tradotta in disegno divino, con diverse sfumature, ma anche l’insoddisfazione per la catalogazione aristotelica, troppo rigida e dimentica di un percorso di conoscenza spirituale: tutto ciò concorre al progetto di comprendere cosa significhino il tutto e le sue parti. Se guardiamo alla mentalità magico-astrologica, risalta netta la differenza con la nascente scienza. Come la cabbala non è madre della logica o dell’algebra, mancando ai suoi simboli significati operativi ed eidetici, allo stesso modo l’alchimia non è l’antenata diretta della chimica, né la magia naturale partorisce la fisica moderna. Eppure, non ci si può limitare a operare un taglio netto tra due epoche, in realtà permeabili tra loro nella contemporaneità.
Rodolfo è l’imperatore che si circonda sì di uomini sapienti, ma anche di artisti: pittori come Arcimboldo, Hans von Aachen, Bartholomeus Sprangler, incisori come Aegidius Sadeler, scultori come Adriaen de Vries, orafi come Anton Scwheinberger. Proprio quest’ultimo sarà l’artefice di un manufatto alquanto singolare, la Noce di cocco delle Seychelles montata su argento dorato e niello, la cui ricercatezza dei particolari sorprende per la cura. La provenienza esotica è quel tassello che concorre a rendere ancora più mitica la collezione: essa diventa una sorta di universo in miniatura, un microcosmo con ambizioni di macrocosmo in scala. Tutto l’esistente, quantomeno nelle intenzioni del ricco mecenate, va catalogato, conservato, tenuto con cura perché concorre alla soddisfazione di una sete intellettuale che riflette l’intento enciclopedico dell’uomo del XVI secolo. La malinconia, propria dei grandi intellettuali e magistralmente ritratta nella celebre incisione di Albrecht Dürer, pervade l’immaginario di uomini eletti, fortunati interpreti di parabole esistenziali che si elevano al di sopra della fanghiglia decerebrata di un’opinione pubblica sciocca, la stessa che si riproduce nei secoli con fervido impegno. La bellezza, poi, si erge a cura per distogliere il dolore che la quotidiana esistenza pervade il ricco come il povero: la ricercatezza delle proporzioni si sposa idealmente con idee magico-astrologiche, si pensi al sistema di corrispondenze che scendono a cascata dal mondo archetipo nel pensiero agrippino.
A corte venivano inviati oggetti di vario tipo. Il mondo animale svelava la propria strabiliante facciata esotica appena scoperta, se pure ancora marginalmente: uova di struzzo, conchiglie, persino un corno di narvalo, scambiato per corno di unicorno, secondo la più prevedibile analogia. Corazze di tartaruga, coralli, madreperle. La lontananza si dispiegava in eternità o, meglio, anelava un palcoscenico tutto suo, guadagnando ammirazione e generando stupore. Uccelli impagliati provenienti da altri continenti rivelavano vivaci pigmentazioni inedite per i grigi panorami centroeuropei, così come uomini fidati giungevano al cospetto del grande collezionista mostrando i calcoli dello stomaco delle capre, i cosiddetti bezoar, considerati antidoti contro il veleno. La conoscenza è arte, è musica, è una fontana dalle innumerevoli bocche che dolcemente rilascia brividi e accarezza il male di vivere di individui estremamente sensibili. L’imperatore Rodolfo non fa eccezione. Di lui si diceva avesse un carattere riservato, tendente al malinconico, per alcuni era un pazzo, un amante dell’alchimia e dell’astronomia al punto da mettere a disposizione dei propri scienziati laboratori e punti d’osservazione celeste. Si narrava che a corte si producesse l’oro liquido, la mitica bevanda che secondo alcuni aveva poteri taumaturgici, secondo altri conduceva all’immortalità. Una coppa d’agata risalente al IV secolo, al cui interno erano visibili venature che, con viva fede, per non dire immaginazione, lasciavano intravvedere il nome di Cristo, era ammirata con tale ardore, da essere considerata dall’imperatore stesso il Sacro Graal. Una scultura di epoca ellenistica, l’Ilioneus, dono di Cesare degli Este, raffigurava uno dei Niobi, i figli di Niobe, colei la quale secondo il mito avrebbe dato sette figli e sette figlie al marito, il re di Tebe. La donna avrebbe poi scatenato le ire della dea Latona, vantandosi della propria stirpe numerosa; essa, infatti, aveva dato alla luce solo due figli, Apollo ed Artemide, che vendicarono l’affronto uccidendo i figli di Niobe con arco e frecce.
Il castello di Hradschin sarà il porto sicuro di un uomo di potere interessato più ai massimi sistemi che al potere stesso. La ricca collezione di Rodolfo pare annoverasse tra i più strabilianti reperti il manoscritto Voynich, un testo scritto in una lingua oscura, secondo alcuni portato a Praga da John Dee, secondo altri redatto da quell’Edward Kelley, già celebre per la discussa lingua enochiana, che avrebbe sostenuto conversazioni con i membri della Prima Civilizzazione tramite una sfera di cristallo. Esso è composto di quattro parti, un erbario, un lunario, un trattato di scienza idraulica e un trattato agronomico. Il grande Athanasius Kircher fu uno dei più celebri intellettuali che se ne occuparono, senza tuttavia trovare la chiave di decifrazione, in quanto esso è scritto in caratteri non riconducibili ad alcun alfabeto conosciuto.
Gli studi occultistici, le osservazioni stellari, gli scambi di vedute col rabbino Jehuda Loew, lo straordinario dotto ebraico che avrebbe plasmato dal fango il Golem, il personaggio mitico antropomorfo dalla forza sovrumana, privo dello spirito vitale; arti e scienze sono salvaguardate e finanziate lasciando, conseguentemente la politica in secondo piano. La parabola istituzionale di Rodolfo finirà, infatti, in disgrazia, stretta tra le profonde divergenze tra cattolici e protestanti e le pressanti interferenze dei fratelli arciduchi. Alla sua morte la collezione verrà in parte dispersa, in parte impiegata per finanziare la macchina imperiale, la quale andrà incontro al difficile periodo della Guerra dei trent’anni, tanto che non è un’eresia affermare che finito il tempo di Rodolfo, finisce un’era.
A Praga giungono personaggi più o meno credibili. Si pensi al caso di John Dee, il grande matematico gallese, all’epoca tra i favoriti della regina Elisabetta, colui il quale introdusse su suolo inglese gli elementi euclidei tradotti da Billingsley. Accompagnato da Edward Kelley, individuo sulla cui reputazione non brillano certo stima e credibilità, afferma di aver evocato gli angeli Uriele e Gabriele servendosi del quarto libro, spurio, del De Occulta Philosophia. Certo, la vicenda appare particolarmente incredibile, se non folle. Tuttavia, la reputazione di uomo di scienza e di mago, innegabile, plasmata in precedenza meritatamente- si pensi alla sua biblioteca di Mortalke, la più fornita del regno-, rende degno di ascolto il suo racconto. Perché rovinarsi una carriera, affermando di essere entrati in contatto con esseri soprannaturali? C’è solo un modo per mantenersi equidistanti nel giudizio, cioè per operare come storici e non come opinionisti: calcarsi nella mentalità dell’epoca.
Si scopre, perciò, che numerose demonologie nascono e si affermano nell’arco del XVI secolo, avendo tutte in comune una caratteristica, essere cioè teologie al rovescio. In esse, Satana prende il posto di Dio, pur fortuitamente. Conoscitore dei segreti della natura, è il “Principe di questo mondo”, in lui sta la conoscenza della natura. È alchimista, mago naturale, cabalista, astrologo, negromante e ha potere nella sfera sub-lunare. È allo stesso tempo tentatore, convince l’uomo di poter ottenere pieno controllo sulla natura e sulle sue forze, è un catalizzatore di hybris, pericoloso. La sua è una sfida alla natura, a quella natura che non ha un ordine né leggi da determinare, ma è immersa nel disordine. La magia, però, è anche strumento di conoscenza e come tale può essere manipolata dall’intellettuale con fini ben diversi. In Marsilio Ficino non si tratta di utilizzare la magia profana fondata sul culto dei demoni, ma l’intento di base persegue i benefici influssi celesti; in Pico si parla di matrimonio del mondo, reso possibile dall’unione delle virtù naturali. Se per Agrippa esiste un sistema di corrispondenze che coinvolge le cose sovra celesti, quelle celesti e quelle naturali, tanto da affermare che le operazioni magiche derivano dalla natura e sono plasmate seguendo le sue leggi, in Pietro Pomponazzi le azioni degli angeli e dei demoni seguono le leggi a cui si prostra il mondo naturale. Nella Nuova Atlantide di Bacone è affermato come i saggi della Casa di Salomone non si sporchino le mani con operazioni ingannevoli, illusionistiche, ma perseguano il proprio intento servendosi di mezzi esclusivamente naturali, producendo tramite essi operazioni straordinarie, miracolose.
Il mago rinascimentale non concede dignità alla differenza aristotelica tra i naturalia e gli artificialia, dichiarando l’artificialità del naturale, in un sistema di analogie che lo portano a servirsi di un metodo personale, non utilizzabile da altri maghi. Simpatie e virtù sono i sostegni della teoria fisico-naturalistica e sono utilizzati per portare alla luce le proprietà e le relazioni tra i vari fenomeni. Non tutti i maghi rinascimentali condivideranno lo stesso obiettivo: si pensi al disprezzo della magia cerimoniale di Pico o di Marsilio, al contrario stimata da Agrippa, il quale se ne serve per delineare il percorso di accesso al mondo archetipo. Le sue parole sono inequivocabili: «Penetrare successivamente in ciascuno dei tre mondi e giungere fino al mondo archetipo animatore […] Conseguire tanta forza attrattiva, ottenere sempre più mirabili e grandiose opere sì da ascendere a tale perfezione da divenir simili al figlio di Dio, trasformarsi nell’immagine stessa di Dio ed essere con lui una cosa sola». Essere maghi è anche altro.
Si è detto del matematico John Dee, la cui Monas Hieroglyphica racchiude una potenza magico-algebrica dai profondi significati; con lui, un altro grande matematico, profondo conoscitore dell’algebra, si serve dei mezzi magico- matematici per le proprie indagini, spaziando sino nel campo della cabbala: Gerolamo Cardano. Se si parla di maghi rinascimentali, il più grande di tutti, Giordano Bruno, applica le proprie competenze alla speculazione filosofica e non solo. L’astronomia è per lui terreno di scontro con i dotti britannici, il copernicanesimo è legato all’animismo magico, sentitamente difeso al costo di perdere la pazienza di fronte ad un contraddittorio che pare non voler comprendere. Ma la materia, si diceva, contempla risvolti positivi e negativi. L’abate Tritemio, punto di riferimento per Agrippa, scrive un’opera, la Steganographia, in cui è spiegato come evocare angeli e demoni. In essa dichiara possibile comunicare con gli spiriti celesti e comprendere, tramite essi, i segreti dell’Universo.
Il XVI è un secolo fertile, poggia le radici sull’Umanesimo fiorentino e da esso ne trae beneficio, così come si nutre di ermetismo. La sua cornice magico-astrologica coinvolge specialisti di vari campi. In astronomia, impossibile non coinvolgere Tycho, Keplero, Regiomontano o Digges, come nella matematica Dee o Cardano. Persino la medicina si abbevera alla sua fonte: Fernel, Serveto, Fracastoro e l’immenso Paracelso.
Nella Praga di Rodolfo II la ricerca è incoraggiata, sovvenzionata, richiesta. Max Brod ha provato a ricostruire l’atmosfera magico-astrologica di fine XVI secolo in terra boema nel romanzo La Praga esoterica di Rodolfo II, portando alla luce in maniera convincente, per quanto necessariamente ipotetica, ma suffragata da documentazione di vario tipo, il fermento culturale di una città resa viva dall’intento di possedere la conoscenza di un regnante illuminato ante-litteram. Il vecchio astronomo di corte, il danese Tycho Brae, si trova a fare i conti con le proprie teorie, sull’orlo della confutazione inoppugnabile, con il nuovo che avanza, con la propria attitudine scientifica e con una spiritualità piuttosto marcata. Portatore di una curiosa teoria astronomica che, pur non convincendo, è degna di rispetto, il grande scienziato ha una folgorazione per il giovane Keplero. Lo considera alla stregua di un uomo dalle capacità superiori, sia scientificamente, sia spiritualmente. Lo ama, con quella sincerità intellettuale propria di chi riconosce nell’altro un completamento del proprio io. È un sentimento di stima, scientifico in primis, che si manifesta nell’involucro sano e, a tratti, santo, di un collega il cui passato affonda le radici in un albero genealogico spiritualmente molto definito. Keplero assume i connotati dell’uomo saggio, di quello spirito eletto a cui facevano riferimento personaggi come Agrippa quando affermavano che per poter manipolare certe tecniche o conoscenze è necessario essere puri e distanti dalle distrazioni fuorvianti e dalle debolezze del carattere umano.
Il Tycho che traspare dalle pagine di Max Brod è anch’egli profondamente legato ad una dimensione spirituale ben definita, impossibile da non notare. Salva un nano che viveva insieme ai gitani dall’aggressione di un gruppo di soldati, lo conduce in casa propria e se ne prende cura, legandosi indissolubilmente a lui, tanto da comprendere come la propria esistenza sia dipendente dalla sua, ricevendo una premonizione, secondo cui la morte lo avrebbe colto poco dopo la dipartita del suo piccolo amico.
Nel 1609, Keplero è autore di un’opera allegorica, il Somnium seu Astronomia lunare, in cui prende le difese dell’eliocentrismo, ispirandosi ai grandi della letteratura fantastica antica, in particolare al De facie di Plutarco e alla Storia Vera di Luciano di Samosata. In essa, traspaiono esperienze autobiografiche, narrate sotto forma di sogno. L’autore, infatti, afferma di aver preso sonno dopo aver letto un testo sulla leggendaria regina ceca Libussa, e di aver vissuto oniricamente in prima persona una storia in cui il protagonista è il giovane Duracoto, figlio della strega Fiolxhilde. La madre, adirata con lui per aver smarrito alcuni talismani, lo abbandona affidandolo ad un marinaio che naviga alla volta della Danimarca, ove avviene l’incontro con il grande Tycho Brahe. Qui, imparerà i segreti dell’astronomia, quindi ripartirà alla volta della terra natale, l’Islanda, dove si ricongiungerà con la madre. Da lei verrà a conoscenza dell’esistenza di demoni in grado di viaggiare sino alla luna in un breve arco di tempo. Il satellite terrestre è da loro chiamato Levania, nome semitico, e i due emisferi di cui è composto sono definiti Privolva e Subvolva. Sulla superficie vivono piccoli esseri, chiamati Seleniti, e dalla superficie è possibile osservare le peculiarità astronomiche utili a suffragare le idee di Keplero stesso. L’apparenza delle eclissi solari e lunari, le dimensioni dei pianeti e della terra stessa: tramite l’elemento fantastico, lo studioso introduce la propria concezione astronomica, spiegando scientificamente le proprie intuizioni.
Celebre per le tre leggi che hanno rivoluzionato il pensiero scientifico, l’uomo Keplero appare un individuo legato e alla nascente scienza con il suo metodo, e alla morente cornice magico-astrologica del secolo XVI, mettendo in scena un racconto in cui allegoria e affermazioni scientifiche coesistono, persino in cooperazione. Il suo è un testo che si appoggia ad uno strategico anonimato, in cui la caratteristica di appartenere a tutti e a nessuno si intesse di veridicità e di legittimazione come se si trattasse di saggezza popolare. Delicato, forse ambizioso, il disegno nella mente dell’autore sembra contraddire l’estrema serietà degli studi che lo renderanno celebre. Eppure, la struttura narrativa è piuttosto complessa, risente di una trama fitta in cui allegoria ed elemento fantastico non possono essere sottaciuti, anzi. Come in Plutarco, anche per Keplero la distanza geografica concorre a legittimare l’idea di fondo. Il suo è un personaggio che proviene dall’estremo nord, da quell’Islanda al di fuori delle rotte culturali e politiche del suo tempo. Sembra che l’origine, quasi aliena, delinei contorni mitici, degni di attenzione, se non di una meraviglia calcolata, che si fa forza della propria singolarità. La sapienza ancestrale, magica, può convivere con la conoscenza scientifica: esempio principe è dato dalla presenza dei demoni. Come in Plutarco, essi sono a metà strada tra l’uomo e la divinità, ragion per cui la sede lunare appare la dimora più calzante. I demoni di Keplero sono definiti sapientissimi, sono un’allegoria delle scienze. Lo spiega servendosi dell’etimologia greca, secondo la quale il termine δαίμων deriverebbe dal verbo δαίειν, «conoscere», facendo propria l’affermazione platonica che si ritrova nel dialogo Cratilo: in esso, infatti, Socrate afferma che i demoni (δαίμονες) sono stati così definiti da Esiodo poiché erano φρόνιμοι e δαήμονες, «intelligenti» e «sapienti». Ancora una volta gli echi platonici assordano persino chi non sia provvisto di udito.
Come Plutarco, anche Keplero pone il viaggio dei personaggi sotto la congiunzione di Saturno con il Toro. L’elemento non è trascurabile, tutt’altro. Tutto ciò avviene secondo un preciso disegno astrologico che legittima l’idea di fondo, evitando errori imperdonabili. Perché ciò funzioni, si serve dei risultati delle proprie osservazioni, presenti in sue tre opere, di cui una precedente, l’Ad Vitellionem paralipomena, quibus astronomiae pars optica traditur del 1604, conosciuta anche come Optica, la Dissertatio cum Nuncio sidereo del 1610 e l’Epitome Astronomiae Copernicanae composta tra il 1618 e il 1621. Tycho, introducendo Keplero ai segreti dell’astronomia e dell’astrologia, svolge il ruolo di padre putativo, e lo stesso Keplero diventa in un colpo solo figlio della strega e dell’astronomo, simbolicamente, dunque, figlio dei tempi.


Nell'immagine, Hans von Aachen, Ritratto dell'imperatore Rodolfo II, 1606, Kunsthistorisches Museum, Vienna.


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Documento inserito il: 19/07/2025
  • TAG: misticismo, filosofia naturale, filosofia occulta, esoterismo, alchimia, ermetismo, scienza rinascimentale, corte dodolfina, astronomia moderna, astrologia, magia naturale

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