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Tibet [ di Gianluca Padovan ]

Desidero dedicare ai Tibetani e al loro capo spirituale Tenzin Gyatso XIV Dalai Lama alcune mie parole, recentemente pubblicate. Auguro a tutti di poter trovare equilibrio e solidità nel proprio interpretare la vita su questa Madre Terra, rimanendo fermamente al proprio posto. Quindi, che ogni esercito d’invasione e ogni popolazione al suo seguito se ne torni a casa propria, imparando e applicando il rispetto per il prossimo.
Ad una quota media di 4000 m si è sviluppata una cultura che si è mantenuta sostanzialmente indipendente nel corso dei secoli. Gli studi sulla preistoria tibetana sono quasi totalmente mancanti, seppure siano stai riconosciuti siti inquadrabili al paleolitico superiore e al neolitico. La cultura megalitica è diffusa, con menhir isolati e in allineamenti: «a Do-ring, esistono 18 file di monoliti» (Benevolo L., Albrecht B., Le origini dell’architettura, Editori Laterza, Bari 2002, p. 60). La lingua tibetana presenta numerosi dialetti ed è compresa, secondo alcuni, nella famiglia sino-tibetana, secondo altri si tratta di una lingua appartenente al ceppo tibetano-birmano. Ma meriterebbe maggiore attenzione.
Riguardo le loro origini i tibetani ricordano vari miti e leggende: «Una delle più antiche evoca un uovo, matrice d’ogni creazione. Quest’uovo primordiale concentrava in sé tutti gli elementi -aria, terra, fuoco, acqua e spazio- e fece nascere altre diciotto uova: da una di queste scaturì un essere informe, ma capace di pensare, che provò il bisogno di vedere, toccare, ascoltare, sentire, gustare e spostarsi e allora creò a sua volta il corpo umano» (Thurman R.A.F. (a cura di), Bardo Thodol. Il libro tibetano dei morti, Neri Pozza Editore, Vicenza 2002, pp. 32-33).
L’ordine costituito viene da Nyatri Tsen-po, un re guerriero del cielo che indossa un elmo metallico, i cui simboli del potere sono l’armatura che s’infila da sola e gli oggetti magici che agiscono da soli: la lancia, la spada e lo scudo. Questa sorta di semidio è comunque mortale: «Al momento della morte terrena il suo corpo si trasformò in un arcobaleno e gli permise di risalire nella sua prima patria: lo spazio infinito dove giace in una tomba eterea» (Deshayes L., Storia del Tibet, Newton & Compton Editori, Roma 2004, p. 35).
Parlando del profilo storico del Tibet, Padma Sambhava traccia un interessante disegno: «I tibetani hanno sempre chiamato il proprio paese Bö, in qualche occasione aggiungendo Khawajen, “Terra delle Nevi”. La storia documentata risale a circa 2300 anni fa, al tempo dell’Impero Macedone in Occidente, dell’Impero Maurya in India, e del tardo Impero Chou in Cina. Nei suoi primi otto secoli, il Tibet fu governato da una dinastia militare. Aveva un sistema religioso animista, retto da un clero di sciamani esperti nella divinazione, nelle arti magiche e nei sacrifici, mentre il suo sistema di governo s’incentrava su una famiglia reale ritenuta di discendenza divina. I primi sette re discesero sulla terra a governare da una scala di corda sospesa nel cielo, sulla quale sarebbero poi risaliti non appena fosse giunta la loro ora. L’ottavo re, in seguito ad un conflitto di corte, recise la corda che lo legava al cielo e, da allora in poi, i sovrani come i faraoni egiziani, furono sepolti in ampi tumuli funerari insieme ai loro beni e al loro seguito» (Thurman R.A.F. (a cura di), op. cit., p. 19). A partire all’incirca dal VII sec. vari testi buddhisti sono tradotti in tibetano e diffusi tra le genti locali. Inoltre, in India, per un certo periodo il buddhismo viene quasi completamente soppiantato dall’islamismo, perdendo ciò che aveva donato, ma ritrovandolo in seguito laddove aveva attecchito. In Tibet, grazie alla natura del luogo e alle concomitanze politiche e religiose, le cose si sono più a lungo conservate. O, meglio, si erano.
Ricordando il proselitismo dei missionari cattolici, i quali dalle terre dell’India si spingono in Tibet, Giuseppe Tucci riporta un loro raffronto tra mussulmani, induisti e lamaisti, che così si delinea nella considerazione di questi ultimi: «La severa organizzazione dei monasteri, l’abilità dialettica dei maestri, le sottigliezze teologali discusse con arguto vigore di logica nelle radunanze di monaci e l’austerità di molti riti ben disposero la loro anima al Buddismo Tibetano» (Tucci G., Le missioni cattoliche e il Tibet, in Costantini G., D’Elia P., Schurhammer, Schilling D., Tucci G., Ballini A., Ambruzzi L., Dindinger G., Messina G., Le missioni cattoliche e la cultura dell’Oriente, Istituto Italiano per il Medio Oriente, Roma 1943, p. 221).
Parlando del buddhismo non si può dimenticare che il quattordicesimo Dalai Lama Tenzin Gyatso, guida spirituale e politica del Tibet, nonché Nobel per la Pace nel 1989, vive esule in India dal 1959. Dalai Lama è il titolo dato al capo della religione buddista-lamaista residente a Lhasa (Tibet) nel Palazzo del Potala. Nel 1950 le truppe cinesi del governo comunista maoista attaccano il Tibet e con il trattato del 23 maggio 1951 lo stato è integrato nella Repubblica Popolare Cinese. Sono lunghe e complesse le vicende politiche, religiose e militari che vedono coinvolto il territorio tibetano da circa duemila anni; basterà qui ricordare che nel 1720 la Cina interviene militarmente imponendo due propri commissari accanto al Dalai Lama dell’epoca.
Così racconta Thubten Dschigme Norbu, fratello maggiore di Sua Santità il Dalai Lama, nonché abate del monastero buddista di Kumbum situato nei pressi di Sining in Cina: «Ancora una volta dovetti recarmi a Sining dalla commissione per il Tibet. Mi dichiararono che dovevo condurre con loro due coniugi e un radiotelegrafista cinesi; quest’ultimo doveva restare sempre in comunicazione con Sining, per informarli costantemente di quanto accadeva alla nostra carovana. Acconsentii a malincuore. Nel loro discorso i comunisti deposero completamente la maschera. Senza preamboli mi sottoposero delle proposte che mi atterrirono e mi irritarono. Quel che dovetti udire era talmente mostruoso, che solo a fatica potevo dominarmi. Se fossi riuscito a convincere il governo di Lhasa ad accogliere le truppe della Repubblica Popolare Cinese come esercito di liberazione e a riconoscere la Cina comunista, sarei stato nominato governatore generale del Tibet. Come tale avrei guidato e sostenuto la grande opera di ricostruzione, in cui la nostra religione sarebbe stata sostituita dall’ideologia comunista. Se il Dalai Lama si fosse opposto, avrei trovato modi e mezzi per levarlo di mezzo. Mi fecero intendere che anche il fratricidio è giustificato, quando si tratta di realizzare le idee comuniste. Portarono esempi, che dimostravano come simili fatti fossero stati premiati con le più alte cariche» (Norbu T. D., Harrer H., Tibet patria perduta, Garzanti, Milano 1960, p. 209).
Dal 1950 ad oggi più di un milione di tibetani sono morti a causa dell’occupazione cinese, circa seimila monasteri sono stati distrutti e decine di migliaia di persone deportate, tra cui molti monaci. Il territorio è oggetto di un ben preciso programma di deculturazione ed è indiscriminatamente usato per lo stoccaggio di rifiuti nocivi, tossici e radioattivi. Sostanzialmente è diventato la «pattumiera della Cina». Gli stati europei stanno a guardare, abbagliati dal mito cinese che irradia la luce del facile guadagno, con l’avvallo di industriali e imprenditori europei nella non considerazione degli operai-schiavi cinesi, decisamente meno impegnativi degli odierni operai-disoccupati europei, nuovi poveri mondiali.
Nonostante questo Sua Santità il Dalai Lama non ha mai proferito una parola contro l’aggressione cinese. In un suo recente libro, L’arte di essere pazienti, riporta le parole di Acharya Shantideva, illuminato buddista dell’VIII sec.:

(64) Anche se altri diffamassero o persino distruggessero
immagini sacre, reliquiari e il sacro dharma,
è erroneo che io mi arrabbi
perché i Buddha non potranno mai essere oltraggiati
” (Dalai Lama, L’arte di essere pazienti, Geshe Thupten Jinpa (a cura di), Neri Pozza Editore, Vicenza 2002, p. 111).

Commenta poi così lo scritto: «Si potrebbe cercare di giustificare lo sviluppo dell’odio nei confronti di chi oltraggia tali oggetti con l’amore per il dharma. Shantideva però afferma che non è questa la risposta giusta, giacché in realtà si reagisce in quanto si è incapaci di sopportare il gesto. Ma gli oggetti sacri non possono essere danneggiati» (Ivi).
Così scrive in una sua recente pubblicazione, tra le conclusioni alla questione tibetana, che rimangono illuminanti anche per le odierne questioni mondiali: «Nell’avvicinarci alla fine del XX secolo ci rendiamo conto che il mondo è diventato più piccolo e i vari popoli costituiscono oramai quasi un’unica comunità. Sono anche i seri problemi che ci troviamo di fronte ad accomunarci tutti: il sovrappopolamento, l’esaurimento delle risorse naturali e il problema dell’ambiente minacciano le basi fondamentali dell’esistenza su questo piccolo pianeta che tutti noi condividiamo. Credo che per accettare la sfida dei nostri tempi gli uomini debbano sviluppare un maggior senso di responsabilità universale. Ognuno di noi deve imparare a lavorare non solo per se stesso, per la propria famiglia o il proprio Paese, bensì per il bene di tutta l’umanità. La responsabilità universale è la vera chiave della sopravvivenza umana. È la base migliore per la pace a livello globale, un uso adeguato delle risorse naturali e una corretta difesa dell’ambiente» (Dalai Lama, Il mio Tibet libero, Feltrinelli Editore, Milano 2008, p. 108).
Nel 2011 la situazione pare precipitare e il monaco tibetano Trinley Thaye Dorjc, fuggito dal Tibet, afferma: «“Sono fuggito dal Tibet perché mi sarebbe stato impossibile vivere la mia religione”. Un ringraziamento all’India, “seconda casa dei tibetani”, che sta salvando la cultura e la religione tibetana e un appello: “Salvate la nostra religione dal massacro dei comunisti» (Notizia tratta dal sito Internet: www.sangye.it/dalailamanews).
Ma le vicende peggiorano giorno dopo giorno anche per i Tibetani risiedenti in Cina. Basti ricordare, ad esempio, i recenti fatti del 14 aprile 2011 relativi alla morte di un monaco tibetano e alla repressione del governo di Pechino. Al proposito il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia ha reso noto che in Cina «in seguito all’aumentata presenza di forze di sicurezza e truppe paramilitari cinesi, nella Prefettura autonoma di Ngaba e attorno al monastero di Kirti la tensione è altissima. La situazione è precipitata dopo la morte di Phuntsok, il monaco che il 16 marzo 2011 si è dato fuoco in segno di protesta contro la repressione cinese del 2008 (vedi news 17 marzo e 7 aprile 2011). Da quel giorno, le autorità hanno rafforzato le misure di sicurezza in tutta la zona e hanno circondato il monastero di Kirti, al quale il giovane monaco apparteneva. Il 9 aprile, sono arrivati sul posto 800 agenti di polizia e hanno completamente circondato l’istituto religioso mettendo di conseguenza a rischio, per mancanza di approvvigionamenti alimentari, la vita di 2.500 monaci residenti» (Notizia tratta dal sito Internet: www.italiatibet.org; articolo dal titolo: Sale la tensione a Ngaba e attorno al monastero di Kirti). Ecco che cosa riferisce il Sua Santità il Dalai Lama: «Invece di spegnere le fiamme, la polizia ha picchiato il giovane monaco al punto tale da causarne la morte» (Notizia tratta dal sito Internet: www.dalailama.com).
Sua Santità il Dalai Lama prosegue spiegando che l’atto ha suscitato grande indignazione tra i monaci e la reazione da parte delle autorità cinesi non si è fatta attendere. Soggiunge di proseguire nella non-violenza anche e soprattutto per non dare motivo al governo cinese di condurre una repressione durissima che coinvolgerebbe tutta la popolazione di etnìa tibetana presente nella Provincia. Spiega pure che decenni di repressioni violente non hanno aiutato la situazione a distendersi e pacificarsi.
La «vecchia», ma pur sempre attuale e realizzabile proposta di Sua Santità il Dalai Lama è di fare in modo che il popolo tibetano viva sereno, potendo mantenere la propria religione e le proprie tradizioni. Sull’argomento scrive un libro di agevole lettura e comprensibilissimo, con un piano di pace diviso in cinque punti. Ecco una parte del primo punto: «1. Propongo che tutto il Tibet, incluse le provincie orientali di Kham e Amdo, sia trasformato in una zona di “Ahimsa”, un termine Hindi utilizzato per indicare uno stato di pace e di nonviolenza. La creazione di questa zona di pace permetterebbe al Tibet di recuperare il ruolo storico di nazione buddista pacifica e neutrale e di Stato cuscinetto tra grandi potenze continentali. Inoltre sarebbe perfettamente concorde con la proposta del Nepal di essere dichiarato zona di pace -proposta che ha già ottenuto l’approvazione della Cina. Tale zona avrebbe un impatto molto maggiore se includesse il Tibet e le zone confinanti. La creazione di una zona di pace in Tibet implicherebbe il ritiro delle truppe cinesi e delle installazioni militari dal paese. Questo permetterebbe anche all’India di ritirare le sue truppe e installazioni militari dalle regioni himalaiane confinanti con il Tibet. Tutto questo richiederebbe un accordo internazionale in grado di soddisfare le legittime richieste di sicurezza da parte della Cina e di creare fiducia tra Tibetani, Indiani, Cinesi e altre popolazioni della zona. Si tratta di un interesse comune, in particolare della Cina e dell’India, in quanto aumenterebbe la sicurezza in entrambi i Paesi, riducendo al contempo l’onere economico del mantenimento di un’alta concentrazione di truppe sul discusso confine himalaiano. Dal punto di vista storico le relazioni tra Cina e India non sono mai state tese. Solo quando l’esercito cinese marciò nel Tibet, creando per la prima volta un confine comune, le tensioni tra le due potenze si inasprirono fino a sfociare in un conflitto nel 1962. Da allora si sono susseguiti numerosi incidenti pericolosi» (Dalai Lama, Il mio Tibet libero, op. cit., pp. 61-62).

[Il brano è tratto da: Padovan G., Il mito europeo. Le culture che ci hanno preceduto, I Quaderni di Thule, Ritter Edizioni, Milano 2012, pp. 30-33].
Documento inserito il: 30/12/2014
  • TAG: Tibet, buddhismo, dalai lama, tenzin gyatso, cultura tibetana, monasteri, invasione cinese, occupazione, storia

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