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Il Regno dei Longobardi

Nel VII e VIII secolo, il territorio del Regno Longobardo in Italia era diviso in ducati, ognuno dei quali era un vero e proprio Stato, i cui duchi riconoscevano di malavoglia l’autorità del re. Quest’ultimo risiedeva nella capitale Pavia, dalla quale controllava l’operato dei duchi per mezzo dei gasindi, uomini di fiducia del re che amministravano le terre di proprietà della Corona situate all’interno dei ducati. I Longobardi riconoscevano l’autorità ed il potere centrale esercitato dal loro re, rappresentando quindi un progresso rispetto alla tradizione barbarica che prevedeva un potere suddiviso tra diversi capi. L’organizzazione sociale si basava su tre classi: gli Arimanni composta esclusivamente da Longobardi; gli Aldii, cittadini Italiani semiliberi, in buona parte coloni e coltivatori, che pur godendo di una certa libertà, erano sottoposti alla tutela dei proprietari terrieri e non potevano abbandonare la terra che coltivavano. Gli schiavi, che rappresentavano la parte meno numerosa della popolazione erano addetti ai lavori artigianali e agricoli. Le città rispetto al periodo imperiale, si presentavano spopolate e ancora cinte dalle vecchie mura edificate dai romani, riadattate e intervallate da torri rotondeggianti di fattura barbarica. Le vie al loro interno si presentavano mal tenute e gli edifici miseri e cadenti che davano un’idea del tipo di cambiamento avvenuto nelle strutture della società. Del fiorente commercio del passato non era rimasto quasi nulla, mentre un ridotto numero di botteghe artigiane producevano dei modesti manufatti. Pochi mercanti bizantini e siriani offrivano i propri preziosi prodotti direttamente presso le case dei nobili e dei potenti. Dificilmente la popolazione delle città superava i 5.000 abitanti, mentre una buona parte del terreno all’interno delle mura era occupato da orti, campi e a volte, addirittura da boschetti sorti dove in precedenza si trovavano case diroccate e non più ricostruite. Da questi terreni, la popolazione ricavava cereali ed ortaggi per il proprio sostentamento. Soltanto i re e gli alti funzionari dell’amministrazione civile e religiosa avevano la propria residenza all’interno di solidi edifici risalenti al periodo imperiale; tutte le altre abitazioni erano costituite da baracche di legno sprovviste di finestre e nelle quali la luce arrivava solo dalla porta; erano arredate in modo molto essenziale, con poco vasellame di terracotta, rame o corno adatto a contenere cibi o bevande; i letti erano costituiti da giacigli di paglia ricoperti di pelli; alle pareti erano appesi gli attrezzi da lavoro e le armi. I mobili così come li intendiamo noi erano praticamente inesistenti se si escludono un tavolo e alcuni sgabelli. Nelle case della nobiltà longobarda era possibile trovare sedie di metallo sia fisse che pieghevoli, lunghi tavoli per i banchetti e grandi forzieri e scrigni utilizzati per la custodia degli oggetti preziosi. Nei cortili venivano allevati soprattutto i maiali, che spesso erano incrociati con i cinghiali; la carne suina rappresentava una voce importante nel pasto dei Longobardi, che peraltro era essenzialmente vegetariano, comprendente pappe preparate con cereali e fave, mentre ridotto era il consumo di pane. Nelle proprie abitazioni essi erano soliti tenere un mastello nel quale, mediante la macerazione e la fermentazione dell’orzo, veniva preparata la birra. Il vino, a causa delle troppe cure richieste dai vigneti e dalle cantine, era diventato una bevanda alquanto rara e riservata solo alle classi più agiate. Come abbigliamento i Longobardi prediligevano delle vesti di pelli conciate o realizzate in panno di lana ruvida con colori vivaci e a forma di tunica, che coprivano appena le ginocchia lasciando libere le braccia, ricoperte da maniche di lino o canapa; le gambe erano protette con delle gambiere di lana mentre ai piedi portavano dei bassi stivali leggeri. Il loro abbigliamento veniva completato da un copricapo tondo o di forma conica e da una cintura di cuoio molto robusta. Gli italiani vestivano invece comode vesti di canapa o lino, addatte per svolgere lavori manuali e completate da un indumento molto simile ai calzoni già in uso presso altri popoli stanziati in Gallia ed in Britannia. L’abbigliamento dei nobili e dei grandi proprietari terrieri sia Longobardi che italiani era del tutto simile e ricordava molto da vicino le toghe e le tuniche in uso presso i Romani. Nelle campagne, che l’incuria aveva trasformato in aree boscose e paluduse, sorgevano i villaggi rurali detti anche curtes, ossia centri dove risiedevano i grandi proprietari terrieri, aroccati in edifici fortificati, ed un certo numero di italiani addetti ai lavori agricoli. Gli appezzamenti circostanti la curtis, costituivano la parte dei terreni gestita direttamente dal padrone o pars dominica; mentre i mansi, vale a dire la parte periferica della curtis, era data in gestione, previo pagamento, agli Aldii semiliberi. Le curtes erano nuclei economici autosufficienti, dove si produceva tutto ciò che era necessario al sostentamento della comunità, sia dal punto di vista alimentare che artigianale; del resto rapporti commerciali a lungo raggio non erano più possibili, da quando era stato reintrodotto il baratto come sistema di scambio. A complicare ulteriormente le cose era la mancanza di strade percorribili, dato che le comode strade costruite al tempo dell’Impero Romano erano andate pressochè distrutte nel corso degli eventi bellici e non più riparate; le poche ancora esistenti erano infestate di ladroni, che non disdegnavano l’omicidio per impossessarsi degli oggetti delle proprie vittime. Nei punti stategici e agli sbocchi delle vallate alpine e appenniniche, erano stati edificati dei castelli, dai quali una guarnigione permanente sorvegliava attentamente i passaggi. Fra questi sono da ricordare per la particolare importanza il castello di Lomello, situato tra la Sesia, il Ticino ed il Po; quello di Seprio nell’alta Brianza e le Chiuse di Susa, che sbarravano la strada a chi proveniva dal Regno dei Franchi. L’economia del Regno Longobardo era quindi essenzialmente agricola e pastorale dato il declino delle città e di conseguenza delle attività industriali e artigianali, che cessarono quasi totalmente togliendo un’importante voce economica fornita dal commercio. Il centro di quest’economia agricola erano le curtis, dove in un piccolo territorio veniva prodotto tutto ciò che serviva alle più elementari neccessità della comunità. Questa forma di produzione rimarrà invariata fino all’età comunale. Dalle curtes si distinguono i monasteri benedettini, ognuno dei quali rappresenta un centro di intensa attività economica, svolgendo un’importante funzione culturale. I monaci grazie alla loro intelligenza derivata dalla lettura delle opere degli autori classici e dalla propria capacità tecnica, affinata da varie sperimentazioni, furono infatti in grado di consentire agli abitanti delle zone circostanti i monasteri di attuare notevoli progressi nel campo dell’agricoltura, della zootecnia e delle bonifiche dei terreni paludosi. Le superstiti corporazioni artigianali ancora operanti nelle città, riuscivano a fabbricare gioielli di pregiatissima fattura nella quale si rilevava il gusto barbarico per i motivi ornamentali di forma geometrica e di vari colori, ottenuti tramite il sapiente utilizzo di pietre dure e smalti. Viene inoltre mantenuta la raffinata tradizione romano-bizantina nei bellissimi pezzi figurati, come quelli ancora conservati nel Duomo di Monza. Nell’architettura si sviluppa la costruzione a forma di torrione esagonale oppure circolare, adottata per esigenze difensive e per gli edifici religiosi come cappelle e battisteri. Questo tipo di costruzione assicurava una grande semplicità strutturale, che eliminava ogni problema tecnico. La cultura nel Regno Longobardo non scomparve: si imbarbarì negli interessi e nella lingua quella di tradizione romana, mentre quella barbarica si arricchì di elementi latini: questo accostamento tra due culture così diverse tra loro porterà col tempo alla nascita di una nuova cultura. Mentre a Roma e nei monasteri si studiano interessi culturali indirizzati verso la religione, nelle città, sopravvive una cultura improntata al laicismo, prevalentemente giuridica e il cui esempio più lampante è costituito dall’Editto di Rotari.


Nell'immagine, il regno Longobardo al momento della sua massima espansione

Documento inserito il: 21/12/2014
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