Cookie Consent by Free Privacy Policy website Tutto storia, personaggi storici: Giustino Fortunato, il grande meridionalista

Giustino Fortunato, il grande meridionalista [ di Michele Strazza ]

di Michele Strazza


Tornare oggi a parlare dell’attualità della “Questione Meridionale” significa ricordare anche la figura di Giustino Fortunato che, tra i primi, la pose all’attenzione della classe politica del tempo. Nato a Rionero in Vulture, in Basilicata, il 4 settembre 1848 da Pasquale e da Antonia Rapolla, viene mandato a studiare al collegio dei Gesuiti di Napoli. Gli studi vengono completati dalla guida dello zio a Rionero. Durante questo periodo assiste nella cittadina natale agli avvenimenti del 1861 che videro protagonisti i Fortunato come promotori della reazione legittimista nel Melfese. Ritornato a Napoli con il fratello Ernesto, lo ritroviamo studente del Collegio degli Scolopi a San Carlo alle Mortelle.

Dopo la licenza liceale si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza napoletana. Conseguita la laurea, nel 1871 vince il concorso da Consigliere di Prefettura, venendo destinato a Lecce, ma preferisce lasciar perdere per non dare un dispiacere al padre del tutto contrario che un suo figlio diventasse “impiegato”.

Continua così gli studi seguendo, dal 1872 al 1876, insieme a Emanuele Gianturco, Francesco Torraca e Antonio Salandra, le lezioni di Francesco De Santcis alla cattedra di Letteratura Comparata dell’ateneo partenopeo. Proprio attraverso De Sanctis Fortunato conosce Pasquale Villari.

Nel 1878 viene chiamato da Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino a collaborare alla “Rassegna Settimanale”. Proprio nel decennio dopo la laurea Fortunato matura la sua decisione di entrare nella vita politica, confortato dal fratello Ernesto (1850-1921) che ha scelto di abbandonare Napoli per insediarsi nell’azienda familiare di Gaudiano.

Nel 1880 è, dunque, candidato alle elezioni politiche per il collegio lucano di Melfi. Già all’indomani della sua elezione, in un discorso tenuto nel salone della Società Operaia di Melfi rimarca la sua indipendenza mentale, la sua volta di sedere “libero al Centro Sinistro”, sottolineando la sua distanza da un governo verso cui non ha “né odi né amori”, ma anche il suo voler essere “senza vincoli di giuramento, senza spiriti di vendetta, senza obblighi precedenti”.

Egli è consapevole di “quel vecchio uso della simulazione e dell’astuzia, vecchio peccato delle genti italiche”, del “terribile scambio di corruzione” fra eletti ed elettori, ma addita tutto questo come vizio che “indebolisce la stessa macchina dello Stato”. Di qui il suo rimedio e il suo proposito: improntare i rapporti con gli elettori secondo “l’alto ufficio di dire tutta la verità, anche a nocumento de’partiti, dirla schietta, anche a danno degl’interessi di classe, dirla sempre, anche a scapito del favore popolare”, così da poter veramente essere “libero di fronte al collegio, e risoluto a restar libero da ogni gelosia di campanile”.

Alla Camera svolge un’intensa attività parlamentare a favore delle popolazioni lucane. Ricordiamo l’impegno per le ferrovie ofantine, per l’Istituto Tecnico di Melfi, per l’infanzia, per le leggi sulla bonifica dei terreni paludosi e sul chinino. In Aula porta i risultati dei suoi studi sulla questione meridionale, adoperandosi per la cancellazione dei pregiudizi che vogliono un Sud ricco e fertile, ridotto in brutte condizioni solo per colpa degli uomini. L’infelice ambiente naturale – egli spiega – fa, invece, da presupposto all’arretratezza economica e sociale. Di qui la sua impostazione pessimistica della rappresentazione naturale e geografica del Mezzogiorno.
Tale impostazione, però, non lo porta ad escludere la speranza e l’impegno, se non per cambiare radicalmente la situazione, almeno per alleviare le sofferenze delle popolazioni meridionali e per tentare un riscatto di quelle terre.

In Parlamento si oppone anche fermamente allo scrutinio di lista. Famoso, a tale proposito, il suo discorso a Montecitorio del 25 marzo 1881 che, nonostante i lunghi applausi ricevuti, resta un monumento alla sua indipendenza e al suo andare controcorrente. Definendosi fautore del suffragio universale illimitato, “unica base utile sicura” di un sistema elettorale veramente rappresentativo, egli, in contrapposizione al corregionale Pietro Lacava, avversa il progetto ministeriale in quando “odioso” ed “ingiusto”. Esso non ridurrà gli inconvenienti ma li accrescerà, non eviterà ingerenze governative né baratti e compromessi. In un Paese nel quale tanti sono i capi e i sottocapi – egli precisa – non sarà lo scrutinio di lista a ridurre il numero dei deputati “sollecitatori” di favori e raccomandazioni, e a scoraggiare la petulanza di ambiziosi o intriganti. Di contro, si rafforzeranno gruppi e combriccole e spariranno le minoranze indipendenti. Di qui i pericoli che addita per la debole vita democratica meridionale, oppressa dalla proprietà fondiaria e dalla borghesia professionistica che già detiene il potere nelle amministrazioni comunali e provinciali.

Dopo aver rifiutato incarichi e dicasteri governativi, nel febbraio del 1909 lascia il collegio di Melfi per essere nominato, il 4 aprile, senatore. Ha, intanto, fondato la Società per gli Studi della Malaria di cui diviene il primo Presidente. Anche al Senato, pur nelle difficoltà di salute, non cessa di dare il proprio fattivo contributo. Da alcune sue lettere si evince l’opinione sul primo conflitto mondiale, una “immane guerra di logoramento” per tutta l’Europa che non avrebbe giovato “se non all’Inghilterra e agli Stati Uniti”.

Nei confronti della “guerra sovvertitrice” Giustino Fortunato è “per la neutralità assoluta”: essa durerebbe a lungo, mentre la partecipazione dell’Italia metterebbe a rischio l’avvenire del Paese e il progresso economico. A Salvemini scrive nel marzo del 1915: “Io avrei voluto la neutralità assoluta, apertamente dichiarata e lealmente rispettata. E dissentivo e dissento da tutti voialtri, perché a differenza di tutti voialtri, ho creduto e credo che i due gruppi di belligeranti non hanno capacità a sopraffarsi e a determinare un risultato decisivo della guerra, quando anche noi intervenissimo, e che siamo non al primo atto, ma al semplice prologo di un dramma, che durerà, a dir poco, mezzo secolo”.

Ma in una lettera del 6 aprile 1917 ad altro corrispondente, pur rimarcando la tesi della lunga durata, egli ne ammette l’inevitabilità, condannando l’incoscienza nell’affrontarla nell’originale richiamo al 1860: “Oh, la guerra! E dire che credevamo non dovesse essere così lunga e terribile! Sì, fui solo a prevedere quel che è accaduto (…) Né io, no, accuso quelli che la guerra vollero; la guerra, forse e senza forse, era inevitabile. Ma io li accuso della incoscienza della sua terribilità! Mossero col capo nel sacco. Credettero di avere a che fare poco più che col famoso esercito borbonico del 1860. Perché uno de’guai maggiori della nuova Italia fu quello di essersi fatta a colpi incredibili della fortuna; e noi credemmo che, viceversa, tutto fosse stato frutto del nostro eroismo, del nostro sacrificio, del sangue, de’martirii, del patriottismo”.

In quello stesso anno, a Rionero, viene assalito da un bracciante che lo ritiene colpevole proprio del prolungamento dell’intervento militare italiano. Trasferitosi definitivamente a Napoli, si dedica assiduamente ai suoi studi economici e sociali cui affianca le numerose pubblicazioni di natura storica, ma una grave malattia agli occhi lo costringe a realizzare meno di quanto vorrebbe. Anche la sua attività filantropica, nonostante l’apertura degli asili infantili di Lavello e Rionero, subisce un rallentamento. La morte del fratello Ernesto, avvenuta il 6 dicembre 1921, lo getta nello sconforto.

L’avvento del Fascismo, di cui avverte la tragicità, aggrava il suo pessimismo, pur firmando, insieme a Benedetto Croce, il manifesto degli intellettuali antifascisti. Per lui il fascismo non è semplice “fugace farsa” ma la “più incredibile, terribile tragedia” degli ultimi anni. Il nuovo movimento politico non è “rivoluzione”, bensì “rivelazione” dei mali antichi del Paese, il cui detonatore era stata la guerra. Ed esso non ha la sua culla nel Mezzogiorno ma nel nord della nazione (“un regalo venuto di lassù”).

Quando Mussolini viene chiamato al governo, nell’ottobre 1922, Fortunato, diversamente da Croce e Salandra, non ha alcuna illusione che il fascismo possa essere un mezzo per restaurare lo Stato liberale, minato dopo quattro anni di violenze e disordini. Ma l’affermazione del fascismo, secondo lui, non è dipesa dalla semplice vittoria dello squadrismo agrario ma dalla debolezza della vita civile e per il trasformismo conformista della sua classe dirigente.
Lasciata del tutto la politica, si dedica soltanto, per quanto gli consente il precario stato di salute, ai suoi studi. Con il trascorrere degli anni in lui è sempre presente il desiderio di dire un ultimo no alla protervia dittatoriale, insieme ad un aggravarsi del suo pessimismo politico per le sorti dell’Italia. Scrive, infatti, a Luigi Corapi il 22 agosto 1925; “… manco da Roma dal giugno 1919, spero tornarvi l’ultima volta per dire l’ultimo de’ tanti miei no agli orridi disegni-legge, votati già dalla Camera fascista”.

Ma ormai il suo pessimismo è diventato ancora più cupo e disperato, consolato soltanto dalla “amarissima gioia” di vedere confermate le sue previsioni di tempi “dolorosissimi e vergognosissimi”, mentre si allontana la speranza di una redenzione del Mezzogiorno. Di qui la sua amara conclusione: “L’Italia non è compatibile con un governo modernamente democratico e liberale”, né è in grado di stare alla pari dei grandi governi liberali e democratici dell’Europa occidentale.

Nel settembre del 1925 parla ormai di “misero paese”. Certo, in quello stesso mese, costituitasi a Roma la sezione del Partito liberale, le ha dato il suo nome, iscrivendosi per la prima volta nella sua vita ad un’associazione politica. Ma quell’adesione non ha che un valore morale: egli non è più in grado di prender parte ad iniziative politiche, il suo spirito è sempre più depresso.

Le notizie di Salvemini, la paura che la spedizione a Nello Rosselli della prefazione al II volume di Pagine e ricordi parlamentari (definita dal Ciasca “la più alta e fiera parola di un nobile spirito nutrito di quei principi, cui ora è moda troppo abusata irridere”) abbia motivato l’intervento della polizia fascista, tutto contribuisce a gettarlo sempre più nello sconforto e a farlo affermare, in una lettera dell’11 giugno 1927: “Impera il Terrore!”.

L’anno prima ha scritto Nel regime fascista, cercando di diffonderlo tra gli amici, per “rendere manifesto, nel modo più corretto e più compendioso” il suo pensiero sull’avvento del fascismo, perché il silenzio gli appare ormai “intollerabile”, quel silenzio che, “in occasioni definitive”, può essere “una finzione”, cioè “una viltà”. Ormai “tutto un nuovo ordine di cose” si è instaurato: “Non più libertà di stampa, di associazione e di unione, non più competizione di idee, di programmi e di opere”. E scrivendo al rionerese Giuseppe Catenacci, il 18 febbraio 1930, afferma “Il fascismo non è che l’Italia”, mentre “tutto il Mezzogiorno è irrimediabilmente condannato alla miseria dalla guerra e, peggio, dall’anarchia succeduta dopo, e che persiste col fascismo, resa anche più pericolosa dalla maniaca esaltazione del Capo del Governo, che da lui si propaga per tutto il paese e lo trascinerà Dio sa dove”.

Il 27 luglio 1932 muore nella sua casa napoletana, lasciando numerosissime pubblicazioni storiche e politiche.


Nell'immagine, Il grande meridionalista Giustino Fortunato.


Bibliografia essenziale
Saverio Cilibrizzi, I grandi lucani nella storia della nuova Italia, Ed. Conte, Napoli s.d. (1956).
Sergio De Pilato, Nuovi profili e scorci, Tip. Marchesiello, Potenza 1928.
Emilio Gentile (a cura di), Giustino Fortunato. Carteggio, vol. 4 (1865-1911, 1912-1922, 1923-1926, 1927-1932) Laterza Ed., Collezione “Storia e Società”, Roma-Bari 1978-81.
Leonardo Sacco, Giustino Fortunato e la Basilicata, in AA.VV., “Giustino Fortunato”, Collezione di Studi Meridionali, Laterza Ed., Roma-Bari 1984.
Michele Strazza, Prefazione a Michele Traficante-Leo Vitale, “Corrispondenze di Giustino ed Umberto Zanotti Bianco, Giustino Fortunato (1848-1932), in AA.VV., “Giustino Fortunato”, Collezione di Studi Meridionali, Laterza Ed., Roma-Bari 1984.

Documento inserito il: 10/05/2025
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