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Venezia nella seconda metà del Settecento: lo Stato [ di Federico Moro ]

Se la lunga durata della costituzione di uno stato fosse la miglior prova che essa è la miglior forma d’amministrazione per la felicità dei sudditi, quella di Venezia la supererebbe tutte. Tale questione non sarebbe un problema politico da risolvere. Norbert Jonard, La vita a Venezia nel Settecento.

Venezia è sempre rimasta una città-stato: le modificazioni territoriali non hanno influito in modo determinante sul piano istituzionale. Alcuni organi si sono aggiunti, altri mutato fisionomia e importanza, ma l’impianto costituzionale complessivo non ha recepito nella compagine statuale le nuove dimensioni geografiche, etniche e sociali della Repubblica.
La costituzione veneziana si conserva aristocratica sotto il duplice aspetto d’attribuire a un’oligarchia la guida della Repubblica e alla città non il ruolo di Capitale, bensì quello di Dominante. Le più rilevanti novità dell’ordinamento risalgono addirittura al XIV secolo. In seguito le correzioni hanno apportato ritocchi diluiti in un arco temporale così lungo da dare l’impressione di sostanziale continuità. Osservatori ingenui o poco attenti rimangono affascinati da tanta coerenza. “Attualmente la saggezza del suo governo, l’attaccamento alle sue leggi e ai suoi usi, il rispetto che tutto il paese, sia coloro che stanno alla testa dello stato, sia quelli che sono semplici sudditi, nutre per il corpo delle leggi, le meritano tuttora la stima di tutta l’Europa e le conservano nella gerarchia delle potenze sovrane il posto segnalato che essa occupa in ragione della sua antichità e della sua potenza.
L’entusiasmo dell’abate Richard non viene affatto condiviso dal governo del suo paese, la Francia, che nelle istruzioni impartite all’ambasciatore a Venezia chiarisce: “È impossibile non accorgersi che questo governo, non avendo né forza, né attività per tutto ciò che ha attinenza coll’estero, è stato ben calcolato perché Venezia non mutasse forma, ma molto male perché essa riuscisse ad acquisire una potenza reale o la conservasse.
La mancanza di una Legge Fondamentale configura quello veneziano come ordinamento aperto, basato su una stratificazione di statuti differenti, nonché su una serie di usi e consuetudini universalmente accettati e percepiti come parti essenziali del patto costituzionale. L’immagine tradizionale della distribuzione del potere come di una piramide con al vertice il Capo dello Stato e/o del governo, il Doge, e alla base il popolo, detentore della sovranità, risulta falsante.
Innanzitutto, manca una netta distinzione tra attività esecutiva, legislativa e giudiziaria. Amministrare, produrre norme e rendere giustizia spetta, in varia misura a ciascun ente con rilevanza costituzionale. Le specifiche competenze si dilatano o si restringono a seconda della maggiore o minore attitudine dei suoi membri a impadronirsi di fette di giurisdizione. Il che produce, spesso in forma ambigua e sfumata e pertanto ancor più insidiosa, la tanto temuta personalizzazione del potere.
Certo non nel senso della sua acquisizione legale da parte di un singolo, ma come conseguenza del rafforzarsi ella tendenza oligarchica entro e nei limiti del regime aristocratico: il peso reale dell’organo non derivando dalla norma, bensì dall’autorevolezza dei componenti.
In teoria, il Doge occupa un ruolo sostanziale. Dell’antico Dux, capo politico e militare, conserva nome e apparenze. Riveste una delle tre sole cariche vitalizie della Repubblica, le altre sono quelle di Procuratore di San Marco e Gran Cancelliere; presiede i consigli di governo, Signoria, Pien Collegio, Consiglio dei Dieci; nonché gli organismi dove si concentra prevalentemente la funzione parlamentare, Senato e Maggior Consiglio; viene con regolarità aggiornato dalle relazioni di ambasciatori e comandanti militari; rappresenta l’unico elemento di stabilità nel continuo variare della composizione dei consigli elettivi. In realtà, le sue facoltà sono piuttosto modeste. A ogni successione la nomina di Correttori produce nuovi vincoli, mentre l’indagine post-mortem degli Inquisitori passa al setaccio gli atti del defunto, chiamando a risponderne sotto il profilo patrimoniale gli eredi legali. Lo scopo è quello d’ingabbiare il detentore della carica entro confini rigidi. Il Serenissimo Principe in autonomia non compie quasi nessun atto. Viene controllato, consigliato e in aggiunta risucchiato da un cerimoniale tanto vasto e complesso da assorbire buona parte del tempo suo e dei sei consiglieri ducali. Situazione paradossale…al vertice dello Stato, l’oligarchia dominante pretende un eunuco politico… abiura della propria storia, le grandi svolte della Repubblica sono state scandite da formidabili figure di uomini, capaci di far prevalere, al di là dei limiti imposti, le proprie intuizioni e soluzioni. Eppure la carica emana sempre un gran fascino. Tutti la vogliono. Rappresenta il coronamento di un perfetto cursus honorum, il sigillo a una fruttuosa carriera al servizio dello stato. Poco importa che il ruolo risulti sterilizzato, per uomini al termine della fatica, niente di meglio di una poltrona gravata da obblighi in prevalenza formali. Da Francesco Loredan a Marco Foscarini, Alvise IV Mocenigo, Paolo Renier, per concludere con Ludovico Manin è una carrellata di personalità deboli e indecise, contente di parcheggiarsi in un incarico prestigioso, ma vuoto. Le conseguenze si misureranno il 12 Maggio 1797, quando la tragedia della Repubblica e della città volge al patetico grazie all’ultimo Doge.
Comunque sia questa singolare figura di Capo di Stato e di Governo senza forza presiede i consigli depositari della vera autorità. Innanzitutto la Signoria: al Doge e ai sei Consiglieri Ducali si affiancano i sei Savi del Consiglio o Savi Grandi, i tre Capi del Consiglio dei Dieci e, soprattutto, i tre Inquisitori di Stato. Nel concreto dei rispettivi rapporti, questi ultimi e i Savi Grandi si devono porre al vertice dell’ordinamento repubblicano, a fianco del Doge e al di sopra di chiunque altro, snodo fondamentale, quindi, delle decisioni importanti.
Uno degli Inquisitori è di diritto Consigliere Ducale, due sono membri del Consiglio dei Dieci, partecipano pertanto agli enti chiave di governo, sulle cui attività sono direttamente aggiornati. In quanto alla funzione specifica, gli Inquisitori rappresenterebbero una duplicazione dei Dieci, visto che si occupano della sicurezza dello stato. Il conservatorismo della classe dirigente veneziana s’è trasformato in patologica ossessione nei confronti di qualunque ipotesi di cambiamento. Questo determina il successo di una magistratura così ristretta e con molteplici opportunità d’interferire nella vita politica. Gli Inquisitori si avvalgono di un particolare gruppo d’informatori e agenti, segreti come i loro procedimenti. Abusi, vendette, uso personalistico della forza diventano inevitabili. Non ci sono dubbi: buona parte della cattiva fama di cui il governo della Repubblica gode nel Secolo dei Lumi, più che ai Dieci, è da attribuire agli Inquisitori.


Nell'Immagine, il Palazzo Ducale di Venezia, sede dei Dogi veneziani.
Documento inserito il: 23/12/2014

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