Cookie Consent by Free Privacy Policy website Tutto storia, personaggi storici: Tito Tazio: un grande trono per il Re dimenticato

Tito Tazio: un grande trono per il Re dimenticato [ di Carlo Ciullini ]

Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marcio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo...I sette re di Roma, i protagonisti assoluti di quell'età regia che, per due secoli e mezzo, caratterizzò la fresca esistenza di una piccola città sorta sulle sponde limacciose del “flavus Tiber”, il biondo Tevere.
La lista dei sovrani romani, enumerata a mò di cantilena dai giovani liceali con la stessa naturalezza con la quale si potrebbero snocciolare i giorni della settimana, è tuttavia inficiata gravemente da un errore storico, da una mancanza di memoria inspiegabilmente protrattasi sino ai giorni nostri: i re di Roma furono otto, in realtà.
Per quanto molteplici fonti facciano, in effetti, menzione dell'ottavo sovrano e ce lo dipingano attore di primo piano di un governo regale assieme a Romolo (in una sorta di vera e propria diarchia di stampo spartano), il ricordo ne pare annacquato, sovrastato da figure ben più epocali.
E' il 21 Aprile del 753 avanti Cristo: Romolo, dopo aver tracciato il pomerium e ucciso il fratello che lo aveva oltrepassato, diviene il primo re capitolino, dando agio, lui pastore fra pastori, a una entità politica che nei secoli appresso sarebbe divenuta dal punto di vista storico, sociale, militare, economico e commerciale, grande quanto nessun'altra mai, prima e dopo.
Il piccolo villaggio abbarbicato sul Palatino, ricettacolo di mandriani, fuoriusciti e avanzi di galera (così ci riporta la tradizione) non si sarebbe però trasformato in “Caput mundi” se la prima generazione dei suoi abitanti, composta di soli uomini, non avesse potuto perpetuarsi: donne...mancavano donne che, da spose, divenissero poi madri di nuovi Romani, pena l'estinzione della città.
I Sabini, antico popolo latino che, da secoli, viveva nell'entroterra laziale, erano gente rustica e genuina, certo non raffinata come gli Etruschi, stanziati poco più a nord di Roma, o come gli abitanti della Magna Grecia: le loro femmine, svezzate a campi e a lavori domestici, sicuramente di parchi costumi, sembravano offrire tutte le garanzie per rivestire i panni di mogli esemplari e irreprensibili, genitrici senza fronzoli di novelli Quirites.
Il ratto di queste procaci agricoltrici rappresenta uno degli eventi, sospesi tra leggenda e realtà storica, più noti della multiforme e millenaria parabola della “Città eterna”.
L'invito espresso dai nuovi vicini, i Romani, ai loro limitrofi sabini e il conseguente, concitato rapimento delle giovani donne che ne seguì, hanno riempito le tele dei pittori di ogni secolo; grandi scultori si sono adoperati a rappresentare plasticamente l'episodio, e innumerevoli sono state le pagine riempite al riguardo.
Il sovrano sabino, che reggeva il suo popolo con rettitudine è, come detto, uno dei monarchi misteriosamente meno reclamizzati della Storia, e ciò colpisce soprattutto se lo si mette in relazione con un trono, quello di Roma, tra i più importanti del percorso umano.
Una figura, quella di Tito Tazio, che raramente ha saputo fendere le nebbie dell'oblio nel quale è precipitato, suo malgrado.
Eppure, i grandi narratori di Roma antica, chi più chi meno, hanno compiutamente parlato di quest'uomo: da Plutarco, nella sua “Vita di Romolo”, a Dionigi di Alicarnasso, al Tito Livio dell'“Ab Urbe condita”.

Non sappiamo se re Tito Tazio fosse stato testimone oculare del rapimento delle giovani donne del suo popolo, allorquando a Roma Romolo e i suoi accoliti organizzarono dei giochi, detti Consuali, in occasione della festa di Nettuno Equestre, giochi a cui furono invitati i rappresentanti di città e genti del Latium.
Certo è che lo scompiglio, scatenatosi in quel giorno fatidico sulle rive del Tevere, non solo fece infuriare i Sabini (direttamente colpiti dal misfatto) ma trasmise all'intera regione laziale, oltre allo sdegno, anche un senso di ragionevole, crescente timore: Roma, nazione impetuosa, forte della sua gioventù, priva di regole e (come assodato) di buona educazione, spaventava le antiche popolazioni locali.
Stretta attorno al suo sovrano, la gente sabina meditò, da subito, di punire Roma per l'affronto e di recuperare le fanciulle: le più belle delle quali, ci narra Tito Livio nel primo libro delle sue Storie, erano state non a caso condotte, dopo il ratto, nelle abitazioni dei notabili di Romolo.
Anche a quei tempi, dunque, potere politico e fascino femminile erano qualità che ben s'accompagnavano...
I Sabini, padri e fratelli delle rapite, formato un esercito conquistarono all'interno dell'Urbs la Rocca Tarpeia, grazie al tradimento di una fanciulla, l'omonima Tarpeia che, fatti entrare gli stranieri in città, fu ricompensata con disprezzo dagli invasori: venne soffocata dal peso di decine di scudi, gettati addosso al posto di quei monili che le erano stati promessi in cambio del suo gesto proditorio.
I Romani intervennero, e già lo scontro si faceva cruento quando giunsero trafelate le giovani Sabine, che interponendosi tra i propri parenti e i nuovi mariti, posero fine ai combattimenti e portarono alla riconciliazione tra i due popoli.
Da quel giorno, e per un quinquennio circa, Roma fu governata da una diarchia: accanto a Romolo sedette, nelle vesti di secondo re, anche Tito Tazio.
La duplice corona ben rappresentò la doppia anima, la romana e la sabina, che da allora caratterizzò le istituzioni della città dal punto di vista politico-sociale, fino all'avvento del sesto re (o dovremmo dire piuttosto il settimo..?) Servio Tullio, che le riformò profondamente.
La città venne suddivisa in trenta curie, a ciascuna delle quali si appose il nome di una donna sabina, probabilmente tra quelle effettivamente neo-maritate.
Questo legame onomastico col mondo sabino, e il fatto concreto che ormai gran parte, se non tutte, delle giovani rapite fossero divenute, dopo spose, anche madri di nuovi Romani, dimostra la saldezza dei vincoli che, dopo gli attriti iniziali, si instaurarono tra i due popoli, uniti nella comune convivenza in un unica città.
Tuttavia deduciamo che un poco di senso di appartenenza “nazionale” continuasse a sopravvivere, se è vero il fatto tramandatoci che i Romani preferirono insediarsi, all'interno della cinta di difesa dell'Urbs, sopratutto sulle pendici del Campidoglio, mentre i Sabini optarono per una dislocazione sul Quirinale.
La divisione della Roma romuleo-taziense non si limitò alle curie; anche i cavalieri furono ripartiti in tre centurie, non legate a criteri censuari ma determinate dalla differente origine etnica delle stesse: i Ramnes rappresentavano la stirpe romana, i Titienses quella legata al re Tito Tazio (e quindi sabina); riguardo alla terza centuria, formata dai Luceres, la critica storica trova difficoltà nella formulazione dell'esatta etimologia.
L'influenza sabina sull'onomastica della giovane Roma è sicuramente importante: ne è prova tangibile l'appellativo di “Quirites”, che i Romani si affibbiarono entusiasti, e che portarono sempre con orgoglio.
Anche in questo caso è necessario ricorrere alla figura di Tito Tazio: egli era infatti nativo di Cures, la città più importante della Sabina, gli abitanti della quale si chiamavano, appunto, Curiti.
Da qui l'epiteto in loro onore: in questa interessante opera di assimilatio delle culture limitrofe, si evidenzia la tendenza dei Romani a considerarle degne di rispetto e di imitazione in diversi dei loro aspetti, e rendendole quindi importabili.
Anzi, proprio nel processo di inglobamento di una arcaica e genuina civiltà, coltivata da gente semplice, schietta e laboriosa, che per secoli aveva prosperato nei territori dell'entroterra laziale a poche decine di chilometri dalla nuova Urbs, è percepibile il desiderio, da parte del popolo romano, di nobilitare la propria origine altrimenti legata a oscure radici: radici incarnate, in definitiva, da pastori, briganti, esiliati che formarono il primitivo ceppo romano.
La diarchia romuleo-taziense (per quanto i reali limiti cronologici siano difficilmente verificabili) si è probabilmente protratta per un lustro circa.
Prendendo infatti a parametro la data del 753 avanti Cristo, quale anno del Natale di Roma (questo il calcolo di Varrone Reatino, ufficialmente accettato dalla cronologia repubblicana e imperiale), il re romano e quello sabino dovrebbero aver governato la città dal 750 al 745 circa: a partire, quindi, da un paio di anni dopo la fondazione da parte di Romolo.
Il co-regno non fu di ampia durata a causa della morte violenta di Tito Tazio.
Le fonti, Livio in primis, ce ne riportano a sommi capi le circostanze: certo, la sua fu una fine ben più miserrima rispetto a quella tramandataci riguardo a Romolo, che sarebbe stato oggetto di un vero e proprio “rapimento celeste” nel bel mezzo di una tempesta, con la conseguente “apoteosi” del re-fondatore e la successiva, acclamata divinizzazione.
Ben più prosaicamente, invece, se ne partì da questa terra il buon Tazio, vittima innocente di una vendetta trasversale.
Tito Livio ci descrive le circostanze del regicidio, che appaiono senz'altro storicamente più credibili di quelle legate a una mitica ascesa al cielo, come nel caso del suo collega Romolo.
Alcuni parenti del sovrano sabino, infatti, avrebbero maltrattato e vituperato per motivi trascurabili alcuni ambasciatori provenienti da Laurentum, e ciò in spregio alle elementari norme del diritto delle genti; per tutta risposta, Tito Tazio venne assalito e assassinato a Lavinio, durante una partecipazione a un evento a carattere regionale tenutosi in quella città: i sicari sarebbero stati laurentes, decisi a lavare nel sangue l'affronto perpetrato alle loro ambascerie.
Il corpo del diarca sarebbe stato poi riportato a Roma, e sepolto con tutti gli onori presso un boschetto sacro d'alloro, sull'Aventino.
Proprio la tumulazione all'interno dell'Urbs ci mostra, appieno, il livello di grande dignità e prestigio cui era assurto il vecchio re della Sabina, nell'ambito del governo di Roma.
Non la ruota di scorta di un potere monarchico, non un componente aggiuntivo e di facciata per il quieto vivere, gomito a gomito, di due popoli: quello sabino, al contrario, sembra aver rivestito un ruolo importante nel plasmare l'identità nazionale dei primi abitanti di Roma, che dalla rustica e sana terra di Cures seppero assimilare e far propri princìpi, virtù e sobri costumi.
Questi mores ancestrali caratterizzarono in profondità l'indole e il modello di vita dei Romani dell'era arcaico-repubblicana.
Ben altri modelli, poi, sarebbero giunti a Roma nel corso dei secoli; quelli orientali risulteranno addirittura perniciosi, per la salute etica della città: da qui corruzione, lusso ostentato e tracollo dell'avita integrità morale dei cives.

La terra di Sabina fu sempre prodiga di grandi personaggi, assoluti protagonisti della storia della latinità: da Varrone Reatino ai Flavi che, con gli optimi principes Vespasiano e Tito e lo scellerato Domiziano, marcarono a fuoco un periodo nevralgico della parabola imperiale.
Tito Tazio non è noto quanto lo furono i suoi illustri conterranei: eppure egli, di quella razza sabina che col tempo s'ammantò sempre più di romanitas (a sua volta influenzandola, e non poco), rappresentò una delle figure più significative dal punto di vista politico-istituzionale.
Certamente egli visse sommerso in una età, quella regia di due secoli e mezzo di storia romana, dentro la quale risulta difficile, per gli studiosi, scindere il mito e la leggenda dall'accaduto reale.
A questa nebulosità del periodo monarchico, si accompagna il sostanziale ruolo di secondo piano cui il Sabino fu costretto dalla figura étonnant e carismatica di Romolo.
Queste, forse, alcune delle cause varie che hanno fortemente contribuito a eclissare, nella memoria collettiva, il nome di Tito Tazio.


Riferimenti bibliografici

TITO LIVIO, “Ab Urbe condita”, libro I°, Newton & Compton, Roma, 1975

PLUTARCO, “Vite parallele-Romolo”, Mondadori, Milano, 2008

Documento inserito il: 07/12/2014
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