Cookie Consent by Free Privacy Policy website Tutto storia, personaggi storici: Marco Licinio Crasso. Storia del triumviro dimenticato

Marco Licinio Crasso. Storia del triumviro dimenticato [ di Giulio Talini ]

Charles A. Milles lo ha inserito nella sua opera “I dieci peggiori generali della Storia”; Giuseppe Antonelli gli dedica un capitolo in “Il libro nero di Roma antica”; Sara Prossomariti lo annovera tra i personaggi più malvagi della Storia romana, affiancandolo a una serie di figure poco raccomandabili come Publio Clodio Pulcro, Catilina, Agrippina Minore, Caligola, Nerone. Di chi si tratta? Né di un imperatore folle, né di un sovvertitore dello Stato, ma di Marco Licinio Crasso, politico, uomo d'affari, triumviro assieme a Cesare e Pompeo. La storiografia di ogni epoca lo ha etichettato come avido, incapace, invidioso, profondamente crudele e inevitabilmente il suo nome ha subito la severità di un giudizio semplicistico i cui sedimenti influenzano ancora oggi finanche gli storici più autorevoli. Diviene perciò un obbligo non solo scientifico, ma anche morale quello di far luce su chi realmente fu Crasso e su quanto pesò sulle vicende della Roma repubblicana. Sia la Storia a parlare.


L'UOMO PIU' RICCO DI ROMA
“I Romani dicono che l'unico vizio che oscurò le molte virtù di Crasso fosse l'avidità di denaro” scrive Plutarco all'inizio della Vita dedicata al nostro personaggio. Non è un caso che il biografo abbia messo in chiaro questo punto dopo poche righe, poiché di Crasso la philoplutìa, ossia l'ambiziosa avidità di ricchezze, colpiva coloro che lo conoscevano più di ogni altro aspetto del suo carattere. Divenne il suo marchio, la causa ultima della sua notorietà.
Sappiamo con certezza che per il denaro aveva un talento naturale. Fin da giovane (si pensa fosse nato tra il 115 e il 114 a.C.), Crasso si ingegnò zelantemente nella ricerca di tecniche e metodi per far ingrossare il suo patrimonio iniziale di sette milioni di sesterzi, somma misera ai suoi occhi. In breve tempo, ci si rese conto di esser di fronte al nuovo Creso, che fiutava l'affare prima degli altri, e quasi mai si sbagliava. Quando si trattava di denaro non operava distinzioni: dal suo punto di vista, poco importava se dei sesterzi provenissero da terreni e miniere d'argento o dall'acquisto dei beni dei proscritti brutalmente assassinati sotto il regime sillano. Sempre sesterzi erano. Alle malelingue del mondo romano piaceva sempre addurre come prova della sua sconsiderata bramosia di quattrini il modo in cui buona parte degli edifici dell'Urbe vennero in suo possesso: “Vide come fossero sventure congenite di Roma gli incendi e i crolli, a causa del peso e della moltitudine delle costruzioni” racconta Plutarco “quindi si diede a comprare schiavi che fossero architetti e muratori, e quando ne ebbe oltre 500, comprava le case in fiamme o adiacenti a quelle in fiamme, che i proprietari vendevano a poco prezzo per la paura e l'incertezza”.
Indubbiamente Crasso sapeva essere avido e senza scrupoli, e su questo ben poco si può aggiungere. Una precisazione però: era in bella compagnia tra i giovani aristocratici dell'epoca. Cupidigia e spregiudicatezza infatti costituivano il nitido riflesso dello spirito dei tempi dell'agonia repubblicana, caratterizzata da una generale personalizzazione della politica. Per citare solo un paio di esempi, lo stesso Silla aveva arrotondato la sua “misera rendita di patrizio decaduto” (Giuseppe Antonelli) grazie a eredità lasciategli da attori omosessuali di basso profilo e vecchie etere ai quali, in gioventù, si era concesso in tutto il suo proverbiale furore erotico e molto sul tema potrebbe dirsi anche di Cesare. Eppure Crasso, nonostante fosse spinto dalle “naturali” inclinazioni del patriziato romano del I secolo a.C., divenne a Roma il paradigma dell'antieroe, la negazione vivente dell'austera lezione degli avi. Si evitino in proposito spiegazioni banali e anacronistiche: i Romani rispettavano la ricchezza e potevano anche ammirare l'ambizione sfrenata, purché seguita da successi. Tuttavia, quel che era imperdonabile in chicchessia era la mancanza di decorum, ravvisata da Cicerone e da molti altri come il punctum dolens dell'indole di Crasso. A Roma potevi vivere nell'opulenza e nutrire aspirazioni di ogni sorta, ma dovevi avere contegno ed evitare ostentazioni, perché di un tuo atteggiamento contrario al buon costume si sarebbero serviti i tuoi avversari politici per screditarti. Odiosa risultò la sua condotta quando, appresa la notizia di aver ricevuto una cospicua eredità, si mise a danzare nel Foro per la contentezza e più vergognose ancora furono le avances ad una delle vestali, Licinia, della quale Crasso desiderava acquistare, si diceva, una proprietà appetibile nel suburbio. Con ciò si spiegano, in un sol colpo, l'ombra secolare in cui si sono dissolte le molte virtù dell'uomo e il saldo radicamento nell'opinione comune dell'idea di un Crasso buono solo a far da contrappeso agli autocrati, Cesare e Pompeo. Mommsen lo ha bollato sommariamente quale “figura secondaria”, e forse lo fu. Ma accettare il dogma in Storia significa negare la Storia stessa.


ORATORE, POLITICO, GENERALE
Piace (e in un certo senso conviene) associare Crasso al rozzo uomo d'affari che “da commerciante non guardava tanto per il sottile”. Stando alle fonti, si evincono non solo l'imprecisione dell'immaginario collettivo ma anche la fallacia della storiografia più autorevole in materia. Si può senz'altro dire infatti che Crasso fosse colto, e non poco. Versato in filosofia, stupiva gli astanti per conoscenze storiche e ancor maggiormente per abilità oratoria. Persino nei processi dove Pompeo, Cesare o lo stesso Cicerone stentavano a prender parola, egli sapeva destreggiarsi alla perfezione. Era soprattutto l'infaticabile spinta al miglioramento che, in ogni campo, da quello economico alle discipline letterarie, faceva di Crasso un uomo genuinamente virtuoso. Desiderava eccellere e, inutile nasconderlo, quasi sempre vi riusciva. Anche nel momento di sfoggiare la propria liberalitas, vale a dire la generosità in termini materiali che nella Roma antica tornava politicamente utile per garantirsi l'appoggio delle masse, non aveva eguali: le fonti antiche raccontano che aprisse la sua casa a tutti, che allestisse grandi pranzi, che prestasse denaro agli amici senza interessi. Il ruolo di gelido contabile crudele conferitogli, insomma, dovrebbe quantomeno essere rivisto.
Cultura, nobiltà, opulenza: gli ingredienti per un brillante futuro in politica c'erano tutti. Cionondimeno, per emergere in una realtà politica nella quale niente era più facile che annegare non erano sufficienti buon sangue e doti eccelse. Ci voleva l'occasione. E i numi, dopo qualche tempo, la concessero a Crasso, quando Silla, assetato di potere, sbarcò a Brindisi nell'83 a.C., dopo aver dato prova a Mitridate VI Eupatore della grandezza delle armi romane.
Agli occhi dei giovani aristocratici, Silla incarnava lo spirito della riscossa, della revanche dopo le soppressioni, i massacri, gli intollerabili autoritarismi del partito popolare prima di Mario, poi di Cinna. Possiamo immaginare il rinvigorirsi delle speranze del giovane Crasso che, sotto il regime del partito mariano, era stato costretto perfino a fuggire in Spagna per otto mesi, onde evitare di finire come il padre e il fratello, coinvolti tragicamente nelle turpi stragi di aristocratici.
Nei due anni di guerre civili che seguirono, Crasso (e così, per sua sfortuna, anche Pompeo) si distinse su tutti per la totale dedizione al conseguimento della vittoria. Ma fu solo nell'epilogo del conflitto che rivelò in sé le qualità del generale: nello scontro finale, avvenuto presso Porta Collina, alla fine dell'82 a.C., mentre Silla era schiacciato dalle forze nemiche e la sconfitta pareva l'unico possibile esito per le sue armate, Crasso, al comando dell'ala destra, rovesciò miracolosamente le sorti della battaglia e inseguì il nemico fino a notte. E questa non fu che la prima di una serie di rimarchevoli prestazioni militari, delle quali ad essere ricordata è soprattutto quella nella guerra contro Spartaco (73-71 a.C.). Contro lo schiavo che aveva umiliato Roma, Crasso ricorse ad una strategia stringente: dapprima isolò i ribelli in Calabria; poi, quando questi tentarono di spezzare il blocco, li sbaragliò in Lucania, ponendo fine ad una questione in cui la Repubblica non aveva esattamente brillato. L'unica irritante pecca fu il fatto che Pompeo aveva sterminato i circa 5000 schiavi fuggitivi: non Crasso. Ciò valse al primo, unitamente alla sconfitta inflitta a Sertorio in Spagna, la celebrazione di un trionfo. A Crasso, viceversa, non si concesse nulla di più di una misera ovatio, la cerimonia riservata a vittorie considerate minori. In fondo aveva solamente massacrato degli schiavi straccioni, si pensava. Perciò la sua fu una vittoria sminuita in partenza, nonostante rimanga oggettivamente superba.
Per quanto fosse poco riconosciuto all'epoca come generale, negli affari bellici, come si è visto, Crasso sapeva il fatto suo. Intendiamoci bene: sarebbe imprudente definirlo uno stratega d'eccezione, ribaltando completamente l'opinione storiografica prevalente. Ciononostante, per quanto ne sappiamo, alla testa delle truppe era migliore di tanti altri. Si dovrebbe convenire con quanto scrisse Marx a Engels, quando lo definì un “ordinario generale romano”. La sua sfortuna fu quella di capitare in un momento in cui essere “ordinario” non bastava a reggere la competizione con dei giganti della Storia militare, quali furono Pompeo, e, in primis, Cesare. La disfatta di Carre, poi, avrebbe dato il colpo di grazia immeritato ad una fama già logora.
Ad ogni modo, nel 70 a.C. Crasso, assieme a Pompeo, rivestì la carica di console. Seppur con fatica, il suo prestigio aumentava.


SOGNI DI GLORIA: IL TRIUMVIRATO
Due i motivi per i quali il nome di Crasso non è stato inghiottito negli abissi della Storia: la ricchezza e il ruolo di triumviro. Se della prima abbiamo trattato, è necessario soffermarci sul secondo. Nell'estate del 60 a.C. Cesare, Pompeo e Crasso davano vita ad un accordo formalmente privato ma dalle forti implicazioni per i pubblici affari degli anni a venire. Era il triumvirato, una mostruosa creatura politica i cui componenti erano mossi ciascuno da propri, personalissimi interessi. Quello di Crasso non era difficile da comprendere: ambiva a migliori assicurazioni per una posizione di primo piano. La sua ascesa politica, infatti, non aveva fatto che subire battute d'arresto nel precedente decennio, offuscata da un lato dalle glorie per mare e per terra di Pompeo, dall'altro dalle difficoltà di affermarsi agli occhi della plebe. La frustrazione fu tale da indurlo perfino ad aderire, seppur con prudente distacco, a piani sovversivi per lo Stato. Vi sono infatti elementi oggettivi in grado di avallare l'ipotesi che Crasso fosse stato coinvolto nella tristemente nota congiura di Catilina (63 a.C.). Particolarmente eloquente in tal senso fu la deposizione, attestata sia da Plutarco che da Sallustio, di un certo Lucio Tarquinio, il quale, per negoziare la propria incolumità, riferì circa le implicazioni di Crasso nel complotto. In molti non ne furono sorpresi, ma nessuno fu tanto ardimentoso da sfidare un uomo così potente, con il quale, del resto, la maggior parte dei cittadini “aveva un debito negli affari privati”.
Il triumvirato poteva garantire a Crasso il tanto anelato peso politico, forse addirittura un ruolo di primo piano, sebbene arrecasse lo stesso accrescimento anche agli altri due componenti. Si trattava, in buona sostanza, di un abbraccio mortale, che, tuttavia, almeno ai suoi inizi sembrava la chiave di volta per tenere nel palmo della mano la grande Roma. Gli accordi presi a Lucca tra i triumviri, nel 56 a.C., sono emblematici della fiducia riposta in questo patto tra potenti: Cesare otteneva il prolungamento di quattro anni del suo comando in Gallia, dove i suoi successi bellici si accatastavano l'uno sull'altro; a Pompeo e Crasso fu promesso il consolato del 55 a.C. e, allo scadere della magistratura, si sarebbero occupati, a seguito di un sorteggio, della Siria e della penisola iberica. A Crasso toccò la prima.
In una fase storica in cui erano i signori della guerra a scalare la vetta, come le esperienze di Cesare e Pompeo stavano ampiamente dimostrando, l'occasione per Crasso era piuttosto ghiotta. L'Oriente, nell'immaginario collettivo, era associato ad antiche glorie, miti, splendore, imprese ai confini della realtà. Lo stesso Pompeo aveva dato l'impressione di essere il nuovo Alessandro Magno quando, di ritorno dalla terza guerra mitridatica, aveva sfoggiato in trionfo il proprio ritratto interamente composto da perle del Mar Rosso e del Golfo Persico. Crasso ne era rimasto colpito, aveva letto negli occhi dei cittadini lo stupore e l'ammirazione di fronte a tanta magnificenza, aveva colto il senso profondo dei suoi tempi. Maturò così l'ambizione di inseguire la gloria (e forse l'oro) attraverso l'unico strumento che sembrava prometterne in quantità: la guerra. Ma, affidandoci alla purezza del verso ovidiano, giova ricordare che “arduo e scosceso è il cammino per la gloria”.


DISASTRO A CARRE
I Parti erano una di quelle tribù di nomadi iranici che i Greci definivano genericamente “sciti”. Arsace, il loro primo re, occupò una satrapia dell'Impero Seleucide detta Parthava, situata tra gli odierni Iran orientale e Turkmenistan, intorno al 240 a.C. Non erano altro che un'orda di guerrieri, in principio, ma in pochi decenni divennero la potenza egemone dell'Oriente antico, sulla scia della dinastia degli Achemenidi. L'aquila romana, per dir la verità, volse tardi il suo sguardo verso i Parti, o meglio, lo fece solo quando si rese conto che avevano qualcosa che poteva interessarle: si parlava di ricchezze smisurate, di favolosi tesori, di un'apertura commerciale verso l'India, la Cina. I Parti, tuttavia, non presentavano un atteggiamento ostile nei confronti di Roma, e fu solo per una questione dinastica che il Senato trovò il casus belli. Nel 58 a.C. era stato infatti assassinato il re Fraate III, probabilmente per mano dei figli Orode e Mitridate e, come si sarà immaginato, tra i due sorse fin da subito un'aspra contesa per il prestigioso titolo di “re dei re”. Proprio Mitridate trovò rifugio in Siria e chiese l'aiuto di Roma, dalla quale ottenne il pieno appoggio. Aulo Gabinio, governatore della provincia siriana, era pronto ad intervenire militarmente contro Orode, ma i piani saltarono per una urgente questione in Egitto. Mentre i Romani posticipavano l'intervento, Mitridate, indispettito, decise di fare da sé e, sconfitto in battaglia dalle forze del fratello, fu giustiziato. Oltre al danno, l'affronto: i Parti avevano tolto di mezzo il candidato al trono appoggiato da Roma, arrecando all'Urbe una gravissima offesa e minandone la credibilità internazionale. Condurre le legioni sul suolo partico, adesso, era un dovere imposto non solo da vaghi interessi economici, ma anche dalla ragion di Stato.
Certuni ebbero a dire addirittura che Crasso si mosse contro i Parti senza permesso alcuno e senza che vi fosse l'intenzione della Repubblica romana. Questo almeno è quanto riporta, in primis, Dione Cassio, che come storico, occorre precisarlo, lascia spesso a desiderare. Il contesto appena delineato, tuttavia, è quanto di più eloquente si possa dire in difesa del triumviro: la guerra con Orode era nell'aria da tempo, come confermano le svariate fonti che attestano il celere assenso del Senato alla nuova campagna partica. Crasso, in tale ottica, non fu quindi mosso da folli velleità o da smanie incontrollabili di denaro, nonostante quel che si è detto e scritto, bensì da un calcolo politico ben ponderato. Solo così, dopotutto, poteva sperare di competere con Cesare e Pompeo. Solo sfidando il destino poteva dominarlo.
Con il mare in burrasca, presagio infausto, Crasso si imbarcò nel 54 a.C. a Brindisi, diretto ad Oriente. All'epoca aveva sessant'anni, non esattamente l'età adatta a spedizioni avventurose. Il re dei Galati che il generale romano incontrò nel tragitto, di nome Deiotaro, a Crasso che lo denigrava per il fatto che in età avanzata si stesse accingendo a fondare una città ribatté tutto sorridente: “Neanche tu, a quanto vedo, sei in marcia di buon mattino contro i Parti!”.
Ciononostante, una volta giunto in Siria, si mise all'opera con energia, sognando ad occhi aperti, pare, battaglie memorabili e lande sconosciute. Dapprima compì alcune ricognizioni in Mesopotamia, il ventre molle dell'impero partico, onde sondare di che pasta erano fatti questi Parti. Non volendo alzare troppo la posta, tuttavia, ritornò poco dopo in Siria a svernare. Quest'ultimo, a detta di una folta schiera di storici, fu il suo primo, fatale sbaglio, tanto grossolano da condizionare fin dal principio l'esito futuro della campagna. Prima di muovergli simili accuse ci si dovrebbe chiedere: cosa spinse Crasso a tale scelta? “Motivazioni politiche serie”, per dirla con Daniela Manetti. Voleva attendere infatti l'arrivo del suo secondo figlio, Publio Licinio Crasso, “decorato per atti di valore”, che conduceva mille cavalieri scelti inviati con un augurio di buona fortuna dal collega di triumvirato Cesare, direttamente dalla Gallia. Inoltre ritenne prudente dedicarsi almeno un poco all'organizzazione della provincia, che sarebbe divenuta di lì a poco la base della sua campagna militare: raccolse fondi, impose tributi e predispose leve militari. Forse che la preparazione finanziaria di una spedizione in territorio nemico sia da considerarsi una pecca per un generale? Certo che no. Semmai, se una colpa vi fu, fu certamente quella di aver trascurato il morale delle truppe, palesando una certa aristocratica arroganza che un Cesare o un Pompeo mai avrebbero avuto di fronte all'armata. Non una gara ginnica, non un tentativo di smorzare la tensione: solo conti, rapporti e piani.
L'anno seguente, il 53 a.C., l'esercito di Crasso, composto da ben sette legioni, circa quattromila cavalieri e altrettanti fanti leggeri, intraprese la marcia ad Oriente, tallonato da una densa nube di polvere alzata dalla moltitudine delle calzature. Anziché la via attraverso l'Armenia, propostagli dal suo re, Artavasde, Crasso preferì condurre la direttiva d'attacco in Mesopotamia, confidando nell'appoggio delle molte città greche nella regione da tempo insofferenti al dominio partico (e ciò denota una conoscenza del territorio non di poco conto). Per prudenza, marciava lungo il corso dell'Eufrate, sebbene ciò non bastasse a rasserenare l'animo del questore, Cassio Longino, meglio noto nella veste di cesaricida che non in quella di militare. Era un uomo avveduto, saggio per natura e il suo fiuto gli diceva che qualcosa non andava. Troppa calma. Dunque esortava insistentemente Crasso ad attendere finché non si fosse venuti al corrente degli spostamenti e della consistenza delle armate di Orode. Ad aggravare il quadro contribuivano in larga misura i rapporti poco confortanti degli esploratori intorno a massicci preparativi del nemico, che, per la loro gravità, iniziavano a intimorire lo stesso Crasso.
Proprio in una fase tanto delicata, un uomo si presentò al cospetto del generale romano. Era un capotribù arabo, “falso e infido”. Si chiamava Abgaro. Non dovettero esser necessarie particolari presentazioni, considerato che era stato amico di Pompeo, dal quale aveva ottenuto l'assegnazione del regno di Osroene. “Se hai intenzione di combattere” esordì “dovresti affrettarti, prima che il re prenda coraggio e concentri in un punto tutte le sue forze”. Gli consigliava di staccarsi dall'Eufrate, dunque, e di incamminarsi accompagnati dal caldo torrido dell'estate siriana verso est, cogliendo così di sorpresa i Parti. Quel che ometteva di dire, ed era un dettaglio non irrilevante, era che in realtà Orode stava già devastando l'Armenia per punire Artavasde dell'aiuto offerto ai Romani, mentre un secondo esercito era stato inviato prontamente contro l'imponente armata di Crasso. A guidarlo era il primo dignitario dell'Impero partico, nonché validissimo stratega, tramandato come Surena (appellativo in realtà riferito alla sua stirpe; di lui non conosciamo il nome personale). Abgaro mentiva dunque, e vien da pensare ad un accordo segreto con le autorità partiche che lo avevano incaricato di staccare i Romani dal fiume e di condurli in pianura, dove sarebbe stato relativamente semplice accerchiarli. Non sappiamo di preciso perché, ma Crasso si fidò del traditore. Questo fu il peggiore tra i suoi errori nella campagna, giustificato almeno parzialmente dal fatto che ben pochi avrebbero potuto immaginare che un amico di Roma concepisse simili trame.
Lasciatosi il fiume alle spalle, altro non si vedeva se non una sconsolante distesa oceanica di dune desertiche. Nient'altro. Quanto più il deserto appariva profondo e sconfinato, tanto più crescevano la sfiducia e il sospetto nei soldati. Poi Abgaro si dileguò, con la scusa di andare a scompigliare i piani del nemico. Non sarebbe più tornato.
Fermo nelle sue decisioni, Crasso accelerò la marcia. Dopo poco giunse la terrificante notizia della prima scaramuccia con i nemici: “Alcuni di quelli mandati in avanti” narra Plutarco, drammatico “tornarono a riferire che gli altri erano stati massacrati e che essi erano fuggiti a stento: i Parti stavano avanzando per combattere”. Surena, dunque, compiva la sua mossa, nel posto giusto al momento giusto. Certamente Crasso non aveva immaginato così la sua Gaugamela. Nella condizione in cui si trovava, infatti, era già condannato alla disfatta, e così il suo numeroso esercito.
Ciononostante non bisogna ingannarsi: la quasi totalità degli “ordinari generali romani” sarebbe rimasta intrappolata in una situazione come quella. Combattere contro un nemico tanto scaltro e tatticamente raffinato non era come combattere in Spagna o in Gallia.
Crasso, ancora sbigottito dalle inquietanti novità, dapprima schierò l'esercito in modo da formare una lunga linea sottile, con la cavalleria alle ali, per poi cambiare idea disponendo le truppe in un massiccio quadrato, protetto all'esterno da reparti di cavalleria e fanti leggeri, nel rispetto delle cautele abituali. I Romani raggiunsero in questo modo il fiume Belikh (che gli antichi chiamavano Balisso), ma non poterono ivi sostare, né accamparsi: Crasso ormai bramava la battaglia, e la gloria.
Il 9 giugno del 53 a.C., non lontano dalla cittadina di Carre, i Parti si mostrarono ai Romani, al suono cupo e terrificante dei loro tamburi. Surena, vista la profondità dello schieramento degli uomini di Crasso, non lanciò la tradizionale carica di catafratti, il corpo d'élite delle sue truppe, ma preferì piuttosto dar inizio allo spargimento di sangue facendo assaggiare alle inermi fanterie romane le famose “frecce del parto”. I corpi di arcieri montati (chiamati hippotoxòtai), secondo lo schema di combattimento partico tradizionale, si avvicinarono alle linee romane e presero a scagliare salve violente su una massa compatta. Difficile mancare il bersaglio. A nulla servì il contrattacco di fanti leggeri, subito ricacciati tra i ranghi. Ancora una volta ci affidiamo a Plutarco, inarrivabile per doti espositive: “Stretti in così poco spazio e scontrandosi l'uno con l'altro, (i Romani) erano colpiti e morivano di una morte non breve né rapida, ma in preda a spasmi atroci di dolore; rotolandosi per terra intorno ai dardi li spezzavano dentro le ferite”. Occorreva reagire. Crasso, sorprendentemente energico, come del resto fu per tutta la durata dello scontro, ordinò celermente al figlio Publio, suo legato, di attaccare e creare così un diversivo in grado di dare al corpo principale il tempo necessario per schierarsi a testudo. La diversione riuscì, così che un tenue bagliore di speranza riempì i cuori di quell'armata disperata e del suo generale. Tuttavia, si trattò di un attimo fugace, poiché Publio, lanciatosi all'inseguimento degli arcieri montati, si spinse troppo in là e si trovò con il suo contingente a fronteggiare la solida cavalleria corazzata, isolato. Bersagliati dai dardi e caricati violentemente dai catafratti, Publio, i suoi mille cavalieri galli e gli altri soldati che erano con lui divennero carne da macello. Morirono tutti, perlopiù di una morte orribile.
Nel frattempo Crasso, con una forza d'animo che nessuno gli avrebbe attribuito, era riuscito a riorganizzare le sue linee e avanzava con maggior compattezza e con maggior coraggio. Il diversivo, almeno in apparenza, era riuscito e, dopo lo sbandamento iniziale, i suoi iniziavano a recuperare terreno, seppur ancora subissati dai dardi. Ogni costruzione della speranza, malgrado ciò, fu nuovamente abbattuta quando ricomparvero folte schiere di nemici con un macabro trofeo: la testa impalata di Publio, evidentemente caduto nello scontro. I Parti di Surena, agitando il capo mozzato del giovane, chiedevano chi ne fossero i genitori, “giacché non era possibile che un figlio così generoso e splendidamente valoroso fosse nato da un padre tanto vile e inetto come Crasso”. Fiaccati nel morale, ridotti considerevolmente nel numero e incalzati dai catafratti, i Romani e il loro generale si piegarono al fato che aveva emesso il suo spietato verdetto. Al calar della notte la battaglia era finita.
Durante la tragica ritirata, Crasso fu trovato e assassinato dalle forze di Surena, che ne inviò la testa a Orode. I numeri del trionfo parlavano per lui: dei circa 40000 Romani che passarono l'Eufrate circa 20000 perirono e 10000 caddero prigionieri in mano ai Parti. Una nuova Canne, si potrebbe dire. Nei mesi successivi, comunque, grazie agli sforzi di Cassio Longino, che era riuscito a mettersi in salvo dal disastro, i Romani riuscirono almeno a tamponare la pressione delle armate partiche e a difendere la Siria.
Questo l'epilogo drammatico di Marco Licinio Crasso. A Carre si consumò la tragedia di un uomo vissuto nella disperata ricerca di una via per liberarsi dall'ombra formatasi attorno al suo buon nome. Perì nel tentativo ma giudicarlo sulla base della sua più tremenda sconfitta, nella quale, peraltro, tenne una condotta tutto sommato valorosa, significa approssimare, distruggere, cancellare. Lo possiamo dire: non fu grande, sicuramente non al pari di alcuni giganti del suo tempo. Tuttavia, fu una figura indispensabile nella fase storica che attraversò, condizionandola in molteplici modi, come si è tentato di dimostrare nel presente scritto. E se non gli si volesse riconoscere neanche questo, si ricordi almeno che, nonostante si sia indotti a collocarlo sospeso nella nube dai contorni poco definiti della semplificazione, della lunga strada dell'esperienza storica romana fu, al di là di ogni possibile obiezione, un costruttore. Non un passante.


BIBLIOGRAFIA
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– Theodor Mommsen, “Storia di Roma”, Armando Curcio Editore, Roma, 1964;

– Plutarco, “Le vite di Nicia e di Crasso” a cura di Maria Gabriella Angeli Bertinelli, Carlo Carena, Mario Manfredini e Luigi Piccirilli, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore, 1993;

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– Giovanni Brizzi, “Il guerriero, l'oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo classico”, Società Editrice il Mulino, Bologna, 2002;

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– Giuseppe Antonelli, “Il libro nero di Roma antica”, Newton Compton Editori, Roma, 2007;

– Philip Matyszak, “I grandi nemici di Roma antica”, Newton Compton Editori, Roma, 2005;

Documento inserito il: 07/12/2014
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