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I mezzi di repressione del fascismo. Il Confino di Polizia [ di Strazza Michele ]

Nel 1926, nell’Italia Fascista, viene approvato il nuovo Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza ( R.D. n.1848 del 06.11.26). L’emanazione era stata preceduta, pochi mesi prima, dalla nomina a Capo della Pubblica Sicurezza del Prefetto Arturo Bocchini che grande parte ebbe nella riorganizzazione dell’apparato repressivo del Regime.
Il T.U.L.P.S. dedicava molto spazio alle misure di prevenzione, strutturate come semplici fattispecie di sospetto, funzionali alla repressione del dissenso politico e dotate di maggiore effettività rispetto alla disciplina repressiva della Legge Penale, sancendo l’ampia applicazione, in nuova forma, di un istituto giuridico già presente nell’Ordinamento: il Confino. Secondo l’art 185 del T.U. il confino di polizia si estendeva da uno a cinque anni e si scontava, con l’obbligo del lavoro, in una colonia o in un comune del Regno diverso dalla residenza del confinato.
Il “domicilio coatto” era stato applicato, dopo l’Unità d’Italia, per la prima volta all’interno della legislazione del 1863 sul Brigantaggio (Legge n.1409 del 1863 c.d. Legge Pica ), come provvedimento provvisorio e di emergenza, ma non aveva dato grossi risultati. L’istituto giuridico, tuttavia, venne introdotto stabilmente nella legislazione ordinaria nel 1865, come completamento logico dell’ammonizione, con l’emanazione del primo Testo Unico di Pubblica Sicurezza ed esteso, inizialmente, ai vagabondi recidivi, agli oziosi ed ai sospetti di alcuni reati.
In seguito, con la legge 294 del 1871, vennero coinvolti tutti gli ammoniti. La misura non poteva essere inferiore a 6 mesi e oltrepassare i 5 anni. La competenza ad emettere il provvedimento era attribuita al Ministero dell’Interno e, successivamente ed entro certi limiti, anche ai Prefetti.
Con il nuovo Testo Unico di P.S. del 1889 (Regio Decreto n.6144 del del 1889) l’ammonizione fu estesa anche ai “diffamati” sottoposti a procedimento penale ed assolti. I “diffamati” erano le persone indicate come colpevoli di certi reati dalla “voce pubblica”. Il domicilio coatto, invece, venne comminato agli ammoniti dopo due contravvenzioni all’ammonizione oppure dopo due condanne, sempre sussistendo la condizione della pericolosità per la sicurezza pubblica.
Nel 1894, infine, Crispi, per combattere le agitazioni contadine ed operaie, introdusse nuove disposizioni “eccezionali” sul domicilio coatto. La misura diveniva, cioè, applicabile nei confronti di chiunque fosse stato processato per delitti contro l’ordine pubblico o contro l’incolumità pubblica, nonché nei confronti dei promotori delle associazioni contro gli ordinamenti sociali.
Tale misura di Polizia, pur conservando certe regole del vecchio sistema, nel 1926 venne estesa ben oltre una generica area di emarginazione sociale, diventando uno strumento cardine del controllo poliziesco del Fascismo. Nel solo periodo novembre-dicembre 1926 vi furono ben 900 assegnazioni al confino.
Rispetto alla precedente disciplina rimase il duplice scopo di tutelare lo Stato contro i pericoli di turbamento della sicurezza pubblica, allontanando dal loro ambiente abituale persone che, per i loro precedenti e la loro condotta, dimostravano persistente tendenza a delinquere. La nuova misura, tuttavia, aveva una netta differenza con il “domicilio coatto” che andava a sostituire. A differenza di quest’ultimo, infatti, poteva essere applicato immediatamente e non solo a seguito di una trasgressione alle prescrizioni dell’Autorità di P.S.
Il confino, se era diretto a colpire le persone pericolose alla sicurezza pubblica, non poteva applicarsi che agli ammoniti, in quanto il provvedimento già adottato non si ravvisasse efficace o sufficiente a impedire attentati all’ordine pubblico; se invece si aveva riguardo all’ordine pubblico poteva applicarsi a chiunque avesse commesso o manifestato il deliberato proposito di commettere atti diretti a sovvertire violentemente gli ordinamenti nazionali, sociali ed economici costituiti nello Stato o a menomarne la sicurezza ovvero a contrastare od ostacolare l’azione dei poteri dello Stato, in modo da recare comunque nocumento agli interessi nazionali, in relazione alla situazione interna o internazionale dello Stato (Art. 184 del R.D. 06.11.1926 n.1848). Secondo Barile veniva cioè introdotta la “pena per un reato rimasto nella sfera del pensiero”.
A differenza delle sanzioni penali vere e proprie, il confino non richiedeva una responsabilità giudizialmente accertata per fatti considerati dalla Legge come reati, ma soltanto una condotta tale da produrre un pericolo effettivo alla sicurezza pubblica ed all’ordine politico, tanto da indurre l’Autorità a togliere il soggetto pericoloso dal luogo di residenza e sottoporlo a particolare vigilanza per un periodo di tempo che poteva variare da uno a cinque anni. Spesso, però, il limite massimo dei cinque anni non veniva affatto rispettato, nel senso che si procedeva ad una nuova riassegnazione ad altri cinque anni nei confronti di soggetti ritenuti particolarmente pericolosi per non aver modificato le proprie convinzioni sovversive.
Tale misura di Polizia completava, pertanto, la funzione punitiva dello Stato, non lasciando la società indifesa contro coloro che, pur non incorrendo in specifiche condanne per reati, presentavano, in sommo grado, una pericolosità spesso più grave e più nociva di quella derivante dalla consumazione di reati scoperti e puniti. Per tale motivo, venne impiegata indiscriminatamente contro tutti coloro che non sarebbe stato possibile perseguire con i metodi propri della giustizia ordinaria a causa della loro non provata reità.
Alcune volte, addirittura, essa venne usata per evitare la celebrazione di processi, per reati di pertinenza della magistratura ordinaria, a carico di persone note o iscritte al Partito Fascista, onde evitare le inevitabili ripercussioni sull’opinione pubblica.
Il provvedimento era affidato alla facoltà discrezionale della stessa Commissione Provinciale che emetteva le ordinanze di ammonizione, composta dal Prefetto che la convocava e presiedeva, dal Procuratore del Re, dal Questore, dal Comandante Provinciale dell’Arma dei Carabinieri e da un Ufficiale Superiore della Milizia Fascista, designato dal comandante di zona; svolgeva le funzioni di segretario un funzionario di Pubblica Sicurezza (Artt. 186 e 168).
Non erano prescritte speciali formalità. La proposta di confino veniva formulata dal Questore competente per territorio, sulla base delle risultanze di polizia, mentre era del tutto inesistente il diritto di difesa. La situazione della persona proposta per il confino era, da questo punto di vista, totalmente paradossale anche rispetto agli imputati davanti al Tribunale Speciale che usufruivano, invece, della presenza dell’avvocato difensore. L’ordinanza emessa dalla Commissione Provinciale per l’assegnazione al confino veniva poi trasmessa al Ministero dell’Interno per la designazione del luogo, diverso dalla residenza del confinato (Art.187 R.D. 06.11.26 n.1848).
Era anche previsto un ricorso, nel termine di 10 giorni dalla notifica dell’ordinanza, alla Commissione di Appello, istituita presso il Ministero dell’Interno, composta dal Sottosegretario di Stato all’Interno, che la convocava e presiedeva, dall’Avvocato Generale presso la Corte di Appello di Roma, dal Capo della Polizia, da un Ufficiale Generale dell’Arma dei Reali Carabinieri a da un Ufficiale Generale della Milizia, designati dai rispettivi comandi generali. Qualora il confinato si fosse allontanato dal luogo di confino, sarebbe stato punito con l’arresto da tre mesi a un anno (art. 193), mentre in caso di buona condotta era prevista la liberazione condizionale (art. 191).
Il 25 novembre 1926, con la Legge n.2008 (“Provvedimenti per la Difesa dello Stato”), emanata come legge di emergenza dopo l’attentato Zaniboni a Mussolini, veniva istituito il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, composto da un presidente scelto tra gli ufficiali dell’esercito, della marina, dell’aeronautica e della milizia volontaria per la sicurezza nazionale, dalla quale provenivano altri cinque giudici, ed un relatore scelto tra il personale della Giustizia Militare (Art.7 L. 2008/1926 e decreti di attuazione R.D. 12.12.26 n.2062, R.D. 13.03.27 n.313 e R.D. 03.10.29 n.1759).
Il Tribunale, il quale aveva competenza sui reati politici introdotti dalla nuova normativa e per quelli contro la sicurezza dello Stato, era, in definitiva, un vero e proprio organo di giustizia politica che giudicava secondo la procedura penale in tempo di guerra, con un rito inquisitorio e ridotte garanzia difensive: una fase istruttoria segreta senza patrocinio dell’avvocato, una fase predibattimentale con possibile segretazione degli atti processuali, obbligo del mandato di cattura, impossibilità della libertà provvisoria, non ricorribilità in Cassazione per le sentenze, inesistenza di altri mezzi di impugnazione, ad eccezione della revisione. Quest’ultima, peraltro, era affidata ad un Consiglio di Revisione composto anch’esso da membri scelti tra gli ufficiali dell’esercito e della milizia fascista e presieduto dallo stesso presidente del collegio di primo grado.
Con il nuovo Testo Unico di Pubblica Sicurezza del 1931 (R.D. 18 giugno 1931 n.773, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.146 del 26.06.1931) la disciplina delle misure di prevenzione resta sostanzialmente immutata rispetto al 1926, ma viene resa ancora più esplicita la possibilità di ammonire gli avversari politici e destinarli al confino.
Nel luglio del 1931 entra in vigore il nuovo codice penale preparato da Alfredo Rocco e quello di procedura penale. La contemporanea riforma carceraria (R.D. 18.06.1931 n.787) porta altresì ad un notevole inasprimento punitivo. L’apparato legislativo repressivo del Regime ha ormai assunto una forma definitiva ed il confino è diventato il migliore strumento per la lotta gli avversari politici. La genericità delle norme, basate sulla prevalenza dei momenti soggettivi e sganciate da una concreta pericolosità sociale, consentirà un controllo del dissenso molto più penetrante del ricorso ai delitti politici codificati.
Le nuove leggi di P.S. permetteranno, inoltre, un forte collegamento tra misure custodiali e misure di prevenzione grazie alla possibilità dell’arresto immediato delle persone proposte per l’assegnazione al confino ed alla prassi di trattenere in carcere gli imputati prosciolti del Tribunale Speciale, in attesa della valutazione, da parte dell’Autorità di P.S., di adottare o no provvedimenti di Polizia.
Fu proprio il potere di arresto concesso alle Commissioni Provinciali ad amplificare l’efficacia repressiva del confino. Le vittime venivano tenute a lungo in carcere prima che il loro destino fosse deciso. Ugualmente, i prosciolti e assolti per insufficienza di prove che si trovavano in stato di custodia cautelare spesso passavano dalla galera fascista direttamente al confino.
Con la nuova misura, dunque, ai vecchi confinati comuni (delinquenti, prostitute, mafiosi, ecc.) si aggiungono ora tutti coloro che in qualche modo deviano dal “comune sentire” fascista, dimostrando, anche solo vagamente, la loro dissonanza con i valori della Nazione e con i suoi simboli. Antifascisti veri o presunti, semplici mormoratori, sospetti, tutti incappano nelle maglie di questa sanzione che, per l’agilità della procedura e l’ampia discrezionalità di irrogazione, diventa il mezzo più veloce per eliminare soggetti pericolosi o soltanto fastidiosi. A questi si aggiungeranno, con l’abbraccio mortale della Germania e l’entrata in Guerra, gli ebrei, gli zingari, gli irredentisti slavi e tutti i nuovi oppositori politici.
In realtà il confino verrà utilizzato moltissimo anche per casi “marginali”, per soggetti cioè tutt’altro che pericolosi, colpevoli soltanto di aver commesso piccoli gesti di intolleranza, spesso perpetrati in stato di ubriachezza, nei confronti dei simboli del Regime. Saranno, infatti, numerosi coloro che verranno giudicati dalle Commissioni Provinciali soltanto per aver usato parole irriguardose nei confronti del Governo, per aver “maltrattato” il ritratto del Duce o per aver raccontato barzellette su Mussolini. Altre volte si tratterà di soggetti, giudicati sovversivi” soltanto per aver inneggiato in pubblico al Comunismo ed alla Russia oppure per aver cantato “bandiera rossa”.
Anche la distinzione tradizionale tra confinati politici e comuni non sarà mai troppo netta. L’ampia discrezionalità nell’irrogazione della misura di Polizia porterà spesso ad una confusione di tipologie, per cui semplici truffatori verranno ritenuti pericolosi per gli interessi economici dello Stato ed inviati al confino come “politici”.
Sotto l’implacabile scure del confino passò un numero altissimo di italiani. Con nomi noti o sconosciuti, dal fior fiore dell’antifascismo militante fino a semplici sfortunati solo per aver pronunciato, in un momento d’ira, invettive contro il Duce, tutti furono prima arrestati e poi inviati in zone dove dovevano perdere il contatto con il proprio retroterra, affinché fossero messi in condizioni di non nuocere. Si trattò veramente di una migrazione interna di vaste proporzioni che aveva come unico obiettivo quello di ridurre al silenzio quanti si opponevano all’unicità di pensiero del capo. Una vera e propria “persecuzione di popolo”, dunque, ma, come ogni persecuzione, essa fu anche la culla, per coloro che continuarono a tenere duro, nella quale crebbe il senso della democrazia e della tolleranza.


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Documento inserito il: 08/01/2015
  • TAG: ventennio fascista, partito nazionale fascista, benito mussolini, mezzi repressione, confino, leggi pubblica sicurezza, arturo bocchino, domicilio coatto, tribunale speciale difesa stato, milizia volontaria sicurezza nazionale, codice rocco, inasprimento
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