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Storia e leggenda della pirateria: corsari, bucanieri e tesori perduti degli Incas

di Davide Arecco


Scrivendo all’alba del secolo che avrebbe visto trionfare in via definitiva in Inghilterra scienza e Illuminismo, il romanziere e giornalista politico Daniel Defoe (1660-1731) raccontò nel 1724 dei predoni e delle scorrerie sul mare in area atlantica, dopo la stipula della pace di Utrecht (1713). Non senza una certa conoscenza di arte nautica e scienza della navigazione, Defoe narrò che soltanto due anni dopo la firma del trattato che aveva posto fine alla Guerra di successione spagnola, iniziata tra il 1700 e il 1701, nelle acque atlantiche

i galeoni spagnoli, o flotta dell’argento, erano naufragati nel golfo della Florida, e parecchi vascelli dell’Avana stavano lavorando con attrezzature da palombaro per ripescare il prezioso metallo che avevano a bordo. Gli spagnoli avevano recuperato alcuni milioni di pezzi da otto e li avevano trasportati tutti all’Avana, ma avevano ancora sul luogo trecentocinquantamila pezzi da otto in argento, e ne ripescavano ogni giorno. Nel frattempo due navi e tre corvette, armate dalla Giamaica, Barbados, ecc., al comando del capitano Henry Jennings, fecero vela per il golfo, e trovarono gli spagnoli al lavoro sopra i relitti; il denaro di cui abbiamo parlato era conservato a terra in un magazzino, sotto la custodia di due commissari e di una guardia di circa sessanta soldati. Quegli avventurieri accostarono direttamente a terra, ancorando la loro piccola flotta e, in breve, sbarcando trecento uomini, attaccarono i soldati di guardia, che subito fuggirono; e così si impadronirono del tesoro, che portarono via dirigendosi rapidamente verso la Giamaica. Sulla loro rotta incontrarono per buona sorte una nave spagnola diretta da Portobello all’Avana, con molte ricche mercanzie, ossia balle di cocciniglia, barili di indaco e altri sessantamila pezzi da otto, che presero e, depredato il vascello, lo lasciarono andare. Si recarono in Giamaica con il loro bottino, [...] divennero pirati, derubando non solo gli spagnoli. [...] Il capitano Jennings [...] era il loro comandante e aveva sempre avuto su di loro grande influenza essendo stato un uomo facoltoso e assennato prima che lo prendesse il capriccio di farsi pirata. Poco dopo Jennings, e sul suo esempio altri centocinquanta, si presentarono al governatore delle Bermuda e ricevettero i loro certificati, sebbene la maggior parte tornasse poi all’antica attività.

Le pagine primo-settecentesche di Defoe fotografano al meglio un’epoca di tensioni e uno dei suoi protagonisti sui mari, il capitano Henry Jennings (1681-1745), le sue azioni spregiudicate e la sua stessa genesi, in veste di pirata, in azione soprattutto nelle acque del Mare dei Caraibi. Jennings iniziò la propria carriera dapprima come corsaro al servizio del Regno Unito, impiegato dalla regina Anna nell’Atlantico – contro le navi francesi e, principalmente, spagnole – nel corso della Guerra di successione al trono di Madrid, vacante dopo la morte di Carlo II d’Asburgo. In seguito, Jennings fu tra i comandanti auto-proclamatisi tali della Repubblica dei Pirati, a Nassau, New Providence. Poco si sa della sua vita, prima di allora ed in generale. Le prime notizie su di lui riportano che fu corsaro dell’Impero britannico, al largo delle coste giamaicane, quando l’isola era governata per conto degli Inglesi da Lord Archibald Hamilton (1673-1754). Ricco e potente, navigatore esperto ed influente, anche a Londra, pare che Jennings non avesse concreti ed impellenti bisogni di darsi alla pirateria e che la sua scelta sia stata dettata in prevalenza quindi da gusto per l’avventura e sprezzo del timore e dei pericoli. Un rimettersi in gioco, dunque, che va controcorrente, rinunciando alla agiatezza e ad una vita altrimenti comoda. La terra gli stava stretta: il mare, con le sue incognite, era per lui il solo luogo ove un uomo potesse dirsi davvero tale, secondo una mentalità comune anche agli esploratori e in parte ai navigatori dei secoli XVI e XVII, veri protagonisti della grande stagione delle scoperte geografiche e dell’espansione europea, mossi spesso pure dal fascino dell’ignoto.
L’itinerario piratesco di Jennings prese il via, tra il 1715 e il 1716, con una flotta di tre navi e due corvette ed una ciurma di duecento uomini circa, quando tese l’imboscata, raccontata otto anni dopo da Defoe, con il suo abituale realismo, all’accampamento dei sopravvissuti al naufragio della cosiddetta flotta del tesoro spagnolo del 1715, sulle rive della Florida. Un tesoro di cui sono giunti a noi oggi alcuni pesos. Dopo avere costretto a ritirarsi sessanta soldati spagnoli, all’incirca, Jennings fece vela alla volta della Giamaica, con, a bordo, un carico di quasi quattrocentomila pesos. Inoltre, egli riuscì coi suoi velieri pirata a depredare altri sessantamila pesos dal carico di un’altra nave del Re di Spagna, salpata da Puerto Rico e diretta a L’Avana, imbarcazione incontrata fortunosamente in occasione del tragitto di ritorno.
Successivamente, l’ex-corsaro inglese si unì, per qualche tempo, alla flotta del pirata Samuel Bellamy (1689-1717), con cui intraprese svariate azioni di pirateria, questa volta contro le navi della monarchia francese del Re Sole. Tradito da Bellamy, Jennings si vendicò in maniera spietata e, per la collera, fece dar fuoco ad un mercantile britannico, uccidendo più di venti marinai, tra francesi ed inglesi, rivali in quegli anni tanto sui mari quanto nei territori europei. Erano di fatti gli anni dello scontro fra la Grande Alleanza – Inghilterra, Austria, Brandeburgo, Prussia, Olanda e Piemonte – e forze franco-spagnole agli ordini di Luigi XIV.
Jennings – che, dal 1710, aveva calato l’àncora a New Providence, la sua base – fu dichiarato pirata dallo stesso governatore che in un primo momento ne aveva richiesto i servigi come corsaro e per tale ragione si trovò obbligato a lasciare temporaneamente le coste giamaicane in direzione delle vicine Bahamas. Qui, stabilì a Nassau la propria nuova roccaforte, diventando e in breve tempo – se non il maggiore – uno dei più importanti capi della crescente colonia pirata locale, limitando nello stesso tempo le azioni di pirateria in alto mare e al largo delle coste caraibiche. Tra il 1716 e il 1717 Jennings fu quindi tra quei capitani di mare i quali avevano la loro base nel porto naturale di Nassau nelle Bahamas (stando a quanto riportato, oltre che dalle fonti legali dell’epoca, anche dalla General History of the Pirates dal capitano Charles Johnson, apparsa a Londra presso il libraio Rivington tra febbraio e marzo del 1724).
Durante i primi mesi del 1718, come diversi altri suoi colleghi bucanieri (l’elenco completo è fornito ancora una volta dalla History of Pirates di Defoe), Jennings si consegnò infine alle autorità della madrepatria, ottenendo il perdono (grazie in particolare alle sue trascorse gesta di corsaro) e la amnistia generale proposta da Woodes Rogers (1679-1732), divenuto intanto per volere di Giorgio I il nuovo governatore delle Bahamas. Pertanto, Jennings poté così ritirarsi a vita privata, propietario di molte piantagioni, nelle Isole Bermuda, guardando, dalla propria tenuta, quel mare che di lui e di altri famosi pirati aveva visto atti in egual misura eroici e sanguinosi. Jennings fu quindi uno di quei pochissimi pirati, di cui si abbia notizia, che riuscì a godere delle sue ricchezze, guadagnandosi una vita negli ultimi anni tranquilla, dopo un tempestoso periodo da fuorilegge sugli oceani.
Fin qui, una storia in parte nota, comunque lacunosa, come la biografia di tanti corsari e pirati della prima età moderna. Il resto, in termini di rappresentazione para-storiografica, è stato costruito con abbondanti dosi di mitografia, tuttora serpeggiante e dura a morire quando si parla dei bucanieri atlantici. Sovente difficile è in effetti separare al riguardo la storia reale dagli elementi leggendari, i quali iniziarono a circolare, su Jennings e gli altri membri della Repubblica dei Pirati, e nei porti e nelle taverne del Vecchio come del Nuovo Mondo, a partire già dalla prima metà del XVIII secolo, se non in età ancora anteriore, nell’ultimo scorcio del Seicento, pure in Europa.
Il principio del secolo XVIII, nelle Indie occidentali, era l’epoca aurea della pirateria e feroci personaggi, destinati a divenire presto leggenda, seminavano il terrore sui mari, soprattutto in quel tratto noto, in seguito, come Triangolo delle Bermuda. Tra di loro, vi era Edward Teach, conosciuto come Barbanera, con guidava gli arrembaggi con grande spiegamento di fuoco, volutamente simile a un diavolo uscito dall’Inferno. Se Henry Jennings era il capitano per antonomasia – fu infatti lui a proclamare la Repubblica dei Pirati, sull’isola di New Providence – Jack Rackam era detto Calico Jack, per via dei suoi eleganti abiti di cotone ricamato, e Charles Vane era sicuramente la figura più crudele: egli sterminava infatti ogni volta senza pietà l’equipaggio della nave che catturava.
A fine luglio 1715, una flotta spagnola costituita da nove galeoni – che, nei progetti originari, doveva fare ritorno in Europa meridionale, con un ricco carico di spezie, oro e argento – fu sorpresa da un uragano ed obbligata a ripiegare sulle coste della Florida, dove naufragò. Poco tempo dopo, il capitano Jennings, venuto a conoscenza dell’accaduto, interrogando un prigioniero, organizzò una spedizione e, con la sua flotta di meno di trecento uomini – tra cui Teach, Rackam e Vane –, attaccò come detto l’accampamento della spedizione spagnola, mandata a ricuperare il cargo. Mentre Vane si abbondonava ai suoi macabri divertimenti, Jennings e Teach trovarono quasi subito la tenda con il lauto bottino. Una parte del carico era stata portata via, ma nei forzieri rimasti vi erano vari pezzi da otto. Secondo gli spagnoli sopravvissuti e fatti prigionieri dai pirati inglesi, si trattava di argento maledetto, il famigerato tesoro della Urca de Lima, che avrebbe recato sventura sugli assalitori. Non un tesoro qualsiasi, per i cercatori di inizio Settecento, bensì uno dei più leggendari di tutta la storia della pirateria. Si trattava in origine di un galeone – urca in spagnolo sta di fatti a indicare una nave da carico – così denominato per via del suo capitano, Miguel de Lima. Faveva parte dell’imponente flotta dei nove galeoni provenienti dalle Americhe, che era salpato da L’Avana, diretto in Spagna, come detto carico di oro, argento e varie spezie. La flotta era stata sorpresa da una terribile tempesta e trascinata in prossimità di un punto della costa orientale della Florida, affondandovi. Le navi, tutte tranne la Urca de Lima, arenatasi sul litorale luogo del naufragio, si erano inabissate. Gli spagnoli si erano dati immediatamente da fare, allestendo una spedizione di recupero ed approntando sulla riva un accampamento di fortuna, desiderosi di rimettere le mani sul tesoro, affondato e destinato a non raggiungere mai le coste occidentali dell’Europa. Infatti la minacciosa flotta comandata da Jennings attaccò e saccheggiò il campo spagnolo, impadronendosi, in tale modo, di tutto l’oro e l’argento che era stato, frattanto, ritrovato nelle acque. Quella fu la fine della vicenda, secondo le cronache, tanto dell’epoca, quanto successive. La leggenda ha, tuttavia, aggiunto alla storia altri retroscena, assenti nei resoconti ufficiali settecenteschi. Le storie passate di bocca in bocca tra marinai, pirati e figli di pirati cominciarono presto a favoleggiare di racconti circa il tesoro della flotta cui era appartenuta la Urca de Lima, tesoro portato via dalle coste della Florida. Senza dubbio una parte anche cospicua di oro e argento non venne più recuperata e ancora giace sul fondo oceanico. A bordo della nave vi era infatti, parte del più ampio carico, un grosso forziere contenente pezzi da otto in argento. Non poche leggende riferiscono che i conquistadores al seguito di Pizarro – i quali avevano preso possesso dei territori già appartenuti all’Impero degli Incas nel XVI secolo, aprendo la strada alla creazione di un vicereame, con l’arrivo di Francisco de Toledo (1572) e l’introduzione dell’Inquisizione – avessero estratto quell’argento da una miniera perduta sulle Ande, presso un monte sacro a Supay, il dio della morte degli Incas, e che, per questa ragione, il prezioso metallo fosse maledetto. Gli spagnoli, forse, avevano ritenuto che la stessa tempesta a seguito della quale era affondata la loro flotta fosse, nello stesso tempo, una conseguenza e una conferma dell’antica maledizione incaica.
Ad ogni modo, quando giunse il momento della divisione del bottino, sottratto agli spagnoli, i capitani pirati che avevano preso parte alla razzia sul mare si attennero al codice dei filibustieri. A fianco di Jennings, vi erano anche le navi di Vane, Rackam e del più giovane Teach, celebre poi con il nome di Barbanera. La parte maggiore del tesoro, cioè il forziere della Urca de Lima, al momento di dividere, spettò a Jennings, in quanto capo della spedizione, mentre gli altri si spartirono il resto del bottino. Quanto alcuni pretendono essere avvenuto successivamente è solo leggenda e non lo si trova sui libri di storia. Si racconta ad esempio che, una volta che la flotta pirata si fu divisa, la mala sorte si abbatté sul vascello di Jennings. Appena preso il mare, la traversata venne funestata da una serie di strani e sinistri incidenti. Inoltre, si scatenò, a bordo, una epidemia di colera (cosa, peraltro, allora abbastanza frequente e non certo solo nel caso della navigazione d’altura e della vita corsaro-piratesca). La nave inglese venne, poi, catturata da un fortissimo uragano – anche in questo caso, le tempeste erano quasi all’ordine del giorno, in quel tratto di mare – che durò quasi una settimana e che pareva non volere cessare. Le voci e dicerie del viaggio maledetto presero così probabilmente a circolare presso i più superstiziosi tra i membri dell’equipaggio di Jennings. Diversi marinai fecero inevitabili collegamenti a quanto prima verificatosi alla flotta spagnola ed alla presenza a bordo del ‘forziere maledetto’, contenente l’argento sottratto alla popolazione Inca, meno di due secoli prima: vi era chi sulla nave voleva restituire il forziere alle acque del mare e chi – come Black Robe Kelly, un ex pastore protestante divenuto poi pirata – desiderava addirittura, colto da una sorta di isterismo para-religioso, renderlo al suo legittimo proprietario, il Diavolo (il protagonista anche della vicenda dell’Olandese Volante, immortalata in chiave letteraria tra Sette e Ottocento da Washington Irving); secondo le tradizioni mitologiche ed animistiche dei popoli delle Ande, Supay era rappresentazione infatti dell’equivalente cristiano di Satana, divinità maligna, foriera di maledizioni e nota agli storici delle civiltà e religioni pre-colombiane. Ancora all’inizio del XVIII secolo, tra le lagune sulle coste della Florida, vi erano zone consacrate ai demoni dimenticati degli antichi Incas, che si erano spinti in quei luoghi paludosi, secoli addietro. Fra gli acquitrini, si trovavano rocce segnate da graffiti, con raffigurazioni di divinità mostruose e diaboliche. Secondo il ‘reverendo’ Kelly, occorreva fare rotta laggiù per depositarvi l’argento della Urca de Lima e spezzare dunque il cerchio di sfortune.
La leggenda narra che, guidata dal fanatismo puritano di ‘Black Robe’, la nave di Jennings si mosse, in direzione della presunta Laguna delle Rocce dipinte: dopo avere gettato l’àncora al riparo della scogliera, il capitano fece sbarcare il suo dimesso e malconcio equipaggio sul litorale, quindi quattro uomini scelti con il forziere sulle spalle si inoltrarono nella cupa foresta. All’alba del giorno dopo, ne fece ritorno il solo Jennings. Pare che quest’ultimo raccontò che i quattro uomini con lui si fossero ammutinati con lo scopo di impossessarsi del tesoro e che si era trovato costretto a ucciderli: una versione che nessuno dell’equipaggio rimasto a bordo volle mettere in discussione, anche per l'autorità di cui godeva il capitano inglese. Altre leggende riferiscono che Jennings avesse eliminato i quattro invece su indicazione di Kelly, d’accordo con lui e con gli altri, per placare Supay, mediante un sacrificio di sangue. O – come alcuni marinai dovettero certo sospettare, se davvero la vicenda si svolse in tale maniera – al fine di restare il solo a conoscenza del nascondiglio del tesoro, pensando di recuperarlo in seguito lontano da occhi indiscreti. Cosa che nondimeno non fece. Jennings infatti, ottenuta l’amnistia dal governatore Rogers, per conto del sovrano britannico, si ritirò a vita privata, dopo poco, lasciando le Bahamas, per passare il resto della sua vita in una proprietà nelle Bermuda, senza particolare sfarzo, né problemi o rimorsi. Sembra che nessuno degli altri pirati sia mai tornato a ricercare il forziere. Del resto, una volta abbandonato il tesoro della Urca de Lima, la nave inglese poté riprendere il mare senza più incidenti e anche il colera se ne andò, il che naturalmente rafforzò in quasi tutti i componenti della flotta pirata la convinzione di essere, per davvero, scampati ad una tremenda maledizione. Storia o leggenda? Senz’altro, più la seconda. Non abbiamo a disposizione a riguardo nessuna mappa del tempo, che segnali lagune nascoste sulle coste floridiane, che sarebbe – oggi, soprattutto – pressoché impossibile da individuare. Né disponiamo di diari di viaggio di altri i quali potrebbero avere, all’epoca in questione, navigato in quelle acque, nella prima metà del secolo XVIII solcate, oltre che dai pirati e mercantili, solo da poche baleniere, spintesi più a Sud delle loro altrimenti abituali rotte. Tuttavia, un anno dopo i fatti accaduti a metà estate del 1715, e colorati da molteplici aggiunte, certo leggendarie, pare che proprio una baleniera – la White Dolphin, sotto la guida del capitano scozzese James McGrath – abbia raccolto un naufrago alla deriva in mare aperto, presto riconosciuto come il pirata Samuel Flynn, ossia un membro della ciurma di Jennings (come la lista redatta da Defoe nel suo libro a stampa del 1724 ci conferma). Ferito, Flynn era reduce dallo scontro con la Marina hannoveriana. Per evitare di essere consegnato ai soldati, sembra che Flynn si sia offerto di rivelare, al capitano McGrath, l’indicazione precisa del luogo in cui Jennings avrebbe sepolto il forziere d’argento. Si tratta, con tutta probabilità, di un’altra leggenda, creata ad arte, allo scopo, palese, di supportare e corroborare l’avventurosa narrazione della prima. Non solo, se oggi si scoprissero comunque carte dell’epoca, non sarebbe facile credere alla veridicità del loro contenuto: i pirati scrivevano pochissimo (quasi nulla, in vero) e quei pochissimi documenti a loro attribuiti – neanche con assoluta certezza – sono quasi sempre incompleti, frammentarii e di complessa lettura, non certo facilitata dal problema di interpretare poche scarne note e disegni, se presenti, tracciati in modo grossolano, tanto da essere pochi e semplici schizzi, in fretta e malamente abbozzati, talvolta passati di mano in mano non senza interpolazioni successive. Né ci possono aiutare gli archivi degli armatori settecenteschi. Un unico punto di partenza, più archeologico che altro, in verità, potrebbero essere gli spuntoni rocciosi (per quanto oggi estremamente levigati dall’azione del mare, dal passare del tempo e dalla erosione dovuta al vento) con primitivi dipinti rupestri – questi sì di chiara origine Inca – in Florida, con incise rappresentazioni di mostri e diavoli, alcune miglia a Sud della odierna Jacksonville. Ma rimaniamo nel campo delle mere ipotesi, anzi di affascinanti, sia pure evocative ed inconcludenti, suggestioni storiche. Non pertanto vera storia.
D’altra parte, la stessa reale estensione storico-geografica dell’Impero incaico resta oggetto di discussioni erudite tra accademici non sempre concordi. Gli stessi territori peruviani cominciarono a essere mappati in termini cartografici moderni solo tra il XVII e XVIII secolo. In precedenza, erano stati il tragico teatro delle spedizioni e scorrerie spagnole, contro gli Indios del Mato Grosso, della Amazzonia e del Sertao. Vere e proprie esplorazioni del territorio già appartenuto all’affascinante Impero degli Incas si ebbero solo al traino delle missioni gesuitiche – un’eco, ma riferita all’attuale Paraguay, nelle relazioni primo-settecentesche del nostro Muratori – nonché delle ricerche di zone e aree per estrazioni minerarie, analoghe al Potosì, dove già alla fine del Cinquecento copie del De re metallica del tedesco Giorgio Agricola (al secolo, Georg Bauer), l’atto di nascita della metallurgia, veniva di solito incatenato dai visitatori europei agli altari delle neo-costituite chiese cattoliche nel Nuovo Mondo.


Nell'immagine Henry Jennings, pirata e corsaro inglese del XVIII secolo.


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Documento inserito il: 22/09/2023
  • TAG: storia moderna, pirateria, guerra di corsa, bucanieri, storia atlantica, guerra di successione spagnola, civiltà Inca, scoperte ed esplorazioni geografiche, civiltà precolombiane

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