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In un mondo di ghiaccio: la ricerca del passaggio a Nord-Ovest dal XV secolo ad Amundsen

di Davide Arecco


Rotta navale che collega l’Oceano Atlantico a quello Pacifico passando attraverso l’arcipelago artico canadese, all’interno del Mar glaciale artico, il passaggio a Nord-Ovest è stato, sin dalla fine del Quattrocento, uno dei grandi miti scientifici e geografici dei viaggi europei e di esplorazione, e di scoperta. Sin dal secolo XV, infatti – all’indomani quindi della scoperta dell’America –, gli Stati del Vecchio Mondo tentarono di trovare una rotta commerciale marittima, passante a settentrione ed a occidente del continente americano, incoraggiando poi le prime esplorazioni di un’Artide sepolta da tempo immemore quasi del tutto sotto i ghiacci.
Gli inglesi denominarono la rotta passaggio a Nord-Ovest, mentre gli spagnoli la battezzarono Stretto di Anián. Il desiderio di trovare tale rotta motivò grande parte dell’esplorazione europea, di entrambe le coste del Nord America, durante il Rinascimento e la prima età moderna. Nel 1539, uno dei più importanti conquistadores, Hernàn Cortés, diede a Francisco de Ulloa il compito di navigare lungo le coste dell’attuale California meridionale, in cerca dello Stretto di Aniàn, il quale avrebbe, a parere dei geografi iberici di allora, dovuto collegare, appunto, il Golfo californiano con il Golfo di San Lorenzo, nell’ipotesi naturalmente che la California fosse stata un’isola. Fu proprio il viaggio di Ulloa a dimostrare una volta per tutte il carattere peninsulare della Bassa California. Egli seguì tutta la costa del golfo californiano sino a Cabo San Lucas (lo avrebbe confermato in seguito il navigante Hernando de Alarcòn). La natura insulare della terra californiana era stata viva, nella cultura della Spagna primo-seicentesca, per via dei diari di bordo del missionario padre Antonio de la Ascensiòn, che si era imbarcato, sulla nave di Sebastian Vizcaino, nei suoi viaggi esplorativi, nel 1602. Il nome Aniàn era una variante di Ania, la provincia cinese menzionata da Marco Polo nel Milione e, sotto il profilo iconografico, era apparsa a stampa per la prima volta in una mappa, pubblicata, nel 1562, dal disegnatore e cartografo piemontese Giacomo Gastaldi, il collaboratore, a Venezia, di Gian Battista Ramusio. Nel 1566, Bolognini Zaltieri rese pubblica un’altra carta – che mostrava uno strettissimo e contorto passaggio, lo Stretto di Aniàn – il quale separava i continenti asiatico e americano. Fu una delle prime rappresentazioni grafiche di quella che sarebbe stata da allora una delle maggiori utopie, tanto geografiche quanto economiche, dell’Occidente moderno.
In realtà, già nel 1523, Francesco I, Re di Francia, aveva inviato Giovanni da Verrazzano ad esplorare l’Atlantico settentrionale, e le coste nord-americane, dalla Florida sino a Terranova, nella ricerca di un passaggio per giungere in Oriente. Nel 1534, pure lui impegnato nella stessa impresa, il geografo e viaggiatore Jacques Cartie, esplorò vasti tratti delle coste di Terranova ed inoltre entrò nel fiume San Lorenzo scoprendone le foci.
Da parte loro, anche gli inglesi – le cui iniziative sui mari del globo furono celebrate in favore della Regina Elisabetta e della monarchia tudoriana dal matematico e medico John Dee (1527-1608) – erano alla ricerca di percorso, tra l’Oceano Pacifico e l’Artico, esplorando i margini settentrionali dell’America del Nord. L’iniziale insuccesso di Caboto (1497) li aveva convinti a considerare anche un percorso alternativo situato più ad est.
L’8 agosto 1585, l’esploratore inglese John Davis entrò nello Stretto di Cumberland, presso le coste dell’Isola di Baffin. Davis circumnavigò la Groenlandia, e divise quindi le navi della sua flotta in quattro ulteriori spedizioni marittime, separate, allo scopo di cercare un passaggio verso ovest. A fermarlo, furono le gelide acque artiche, ma egli era matematicamente certo della effettiva esistenza del passaggio. L’Inghilterra non smise di supportare il progetto e, pochi anni dopo, nel 1609, Henry Hudson (1565-1611) navigò lungo il fiume a lui intitolato sempre alla ricerca del passaggio a Nord-Ovest, esplorando l’Artico canadese e scoprendo la baia che ancora oggi reca il suo nome. Gli sforzi inglesi vennero temporaneamente interrotti dallo scoppio della Guerra anglo-spagnola (1585-1604), tra Elisabetta e Filippo II, ma, in ogni caso, i resoconti di viaggio prima di Davis e poi di Hudson, in merito alle zone e popolazioni nord-americane, entrarono a fare parte della cultura geografica della scienza britannica, continuando a stimolare gli esploratori del XVII secolo che si mettevano in cerca del mitico passaggio, supportati dopo metà Seicento dalla Royal Society e dall’Ammiragliato.
In precedenza, il corsaro inglese Martin Frobisher (1539-1594) si era mosso per cercare una rotta commerciale, verso occidente, dall’Inghilterra all’India. Tra il 1576 e il 1578, aveva intrapreso tre viaggi di esplorazione, nel Canada nord-orientale, per trovare il passaggio a Nord-Ovest, presso la baia di Resolution Island. Pochi anni dopo, nel 1583, Sir Humphrey Gilbert – il fratello di Walter Raleigh – aveva composto un trattato scientifico, circa la scoperta del passaggio, sottoscrivendo le idee di Frobisher e rivendicando alla corona inglese la colonia di Terranova contro la Francia. Nello stesso tempo avventuriero ed esploratore, soldato e pioniere dell’Impero coloniale inglese nelle aree irlandesi, Gilbert fu un esempio di militare geografo, peraltro non raro per l’epoca.
Ancora nel corso del XVIII secolo, la ricerca del passaggio a Nord-Ovest rimase molto più di un progetto solo vagheggiato, iniziando a collocarsi lungo le coste dell’Alaska nord-occidentale. Al ritorno in patria nel 1768 dopo il suo viaggio con l’Endeavour, il capitano Cook pianificò un nuovo viaggio, alla ricerca del passaggio. Cook avrebbe dovuto navigare attraverso il Pacifico, in direzione est, per poi ritornare nell’Atlantico, mentre un’altra nave inglese avrebbe fatto il percorso inverso al suo. Erano queste, infatti, le nuove direttive dalla Royal Society, con l’approvazione dell’armatore John Montagu, quarto conte di Sandwich e primo Lord dell’Ammiragliato, figura potentissima della Royal Navy anglo-britannica, durante il secondo Settecento. Cook prese così il mare, nel 1776, sulla Resolution, alla ricerca del passaggio a Nord-Ovest, questa volta però dalla parte del Pacifico: a tale fine egli raggiunse l’Isola Christmas e poi le Hawaii, nel gennaio del 1778. Da queste poi proseguì a esplorare la costa occidentale nord-americana, attraccando presso il Nootka Sound, vicino all’Isola di Vancouver nella Columbia britannica.
Circa un decennio dopo il terzo (e ultimo) viaggio di Cook, partì, il 30 luglio 1789, la celebre spedizione di Alessandro Malaspina (1754-1810), esploratore e navigatore italiano, al servizio della Spagna. Lo scopo era quello di esplorare regioni lontane e in particolare non ancora cartografate del continente americano e dell’Oceano Pacifico svolgendovi un accurato programma di determinazioni magnetiche, e raccogliendo dettagliate notizie ed informazioni, politico-economiche, geografiche ed etno-antropologiche sino ad individuare il passaggio a Nord-Ovest. La spedizione, composta da due corvette, passò da Capo Horn, giungendo a costeggiare l’America meridionale, prima di risalire con rotta verso Panama e puntare infine all’Alaska. Questo, almeno nei piani originari. Malaspina venne però costretto ad abbandonare la grandiosa impresa e fece mestamente ritorno ad Acapulco.
Un altro insuccesso – non poco misterioso, in vero – fu quello a cui andò incontro nel 1845 la tristemente famosa spedizione perduta del capitano britannico Sir John Franklin, ufficiale di marina ed esperto esploratore che aveva già preso parte a tre precedenti viaggi artici (gli ultimi due in veste, fra l’altro, di comandante in capo). La spedizione comprendeva due navi ottimamente equipaggiate, la Erebus e la Terror, con, a bordo, in tutto, quasi centotrenta uomini, i quali provarono a forzare il passaggio attraverso i ghiacci dell’Artico, nel Mare di Beaufort. La spedizione tuttavia scomparve e non riuscì a fare ritorno. Furono organizzate diverse e imponenti spedizioni di soccorso e numerose squadre di ricerca esplorarono palmo a palmo l’Artico canadese, portando fra l’altro alla scrittura di una carta nautica, indicante il sempre più leggendario passaggio a Nord-Ovest. Registrazioni trovate successivamente indicano che le navi di Franklin furono bloccate dalla morsa di ghiaccio, nei pressi dell’Isola di Re Guglielmo, nel Nunavut, all’incirca a metà strada dal passaggio, e non riuscirono a disincagliarsi, sino almeno all’estate del 1746. Il medesimo Franklin – svanito nel 1747: il suo resta un caso di morte presunta – e una decina di uomini del suo equipaggio fecero perdere le loro tracce, forse abbandonando le navi incagliate, per inoltrarsi nei freddissimi territori all’interno. Il mistero, ancora oggi, avvolge la sorte della spedizione Franklin. Solo alcuni corpi vennero, poi, ritrovati e le autopsie rivelarono piombo nel cibo ingerito (a causa di probabili danni riportati nella stiva) nonché tracce di scorbuto, che finirono i superstiti, durante il loro ultimo e disperato tentativo di portarsi a Fort Providence via terra, in mezzo a una neve costante e ad un freddo glaciale.
Nel corso della prima metà dell’Ottocento, fiorirono nei porti e sui mari non poche leggende a riguardo del mitico passaggio a Nord-Ovest, visto non solo come una rotta, per raggiungere l’Asia e il Pacifico, attraverso i mari polari, ma altresì come un luogo maledetto. Molti marinai si convinsero che, dal momento che nessuno l’aveva mai superato e in pochi erano tornati indietro, quello fosse in altre parole un luogo maledetto, non fatto per il genere umano. Si trattava di dicerie molto diffuse in America settentrionale, durante il XIX secolo. Il passaggio a Nord-Ovest si era preso secoli prima il Capitano Hudson, gli equipaggi e della Fury e della Terror, senza più restituirli. Avventurarsi nella ricerca del passaggio a Nord-Ovest equivaleva per i più superstiziosi dei marinai a sfidare un luogo su cui aleggiava una sinistra maledizione. A custode del passaggio, secondo una leggenda, stava la cosiddetta Sfinge dei ghiacci, una sorta di Medusa artica. Chi l’avesse vista, sarebbe stato perduto per sempre. Iceberg, bufere di neve e venti sferzanti, nemici invisibili ed alla deriva sulla banchina polare, misteriosi pericoli di un Grande Nord ignoto e selvaggio, spazi inaccessibili, da cui nessuna nave era mai ritornata indietro: effettivamente, il passaggio a Nord-Ovest incuteva timore e non era, solo e semplicemente, un luogo della geografia terrestre, bensì un sogno, che poteva assumere i neri contorni del peggiore incubo marino.
Sul fronte letterario, la ricerca del passaggio a Nord-Ovest lasciò echi profondi di sé, in molte opere di narrativa, tra cui La Sfinge dei ghiacci di Jules Verne (1897). Lungo racconto fantastico e, per certi versi, già fantascientifico, il romanzo è un seguito immaginario de Le avventure di Gordon Pym (1838) di Poe ed incrocia il genere del mondo perduto con quello dei viaggi immaginari, a loro volta ispirati dalle spedizioni scientifiche e missioni geografiche, finanziate dagli Stati. Ambientato fra i misteri bianchi ed impenetrabili dei ghiacci polari, onirico e scientifico, nel medesimo tempo, il libro è un omaggio, tributato da Verne, agli enigmi del nostro pianeta e a studi arcani (lo scrittore fu sempre affascinato dalla cultura esoterico-occulta), alle isole perdute e agli scontri navali. Uomini – i membri dell’equipaggio, descritto da Verne – assumono statura eroica, al pari, in un certo senso, di iceberg perenni, lottando contro misteriose forze magnetiche, che attirano i metalli verso montagne dall’inquietante aspetto, vagamente sfingeo. Un altro omaggio verniano, questa volta alla leggenda cupa e malevola di cui sopra.
I primi autentici successi, nella ricerca del passaggio a Nord-Ovest, si ebbero, solamente nel 1906, quando l’esploratore norvegese Roald Amundsen (1872-1928) – un gigante, che gli storici del sapere scientifico e della tecnologia hanno, sempre e colpevolmente, quasi ignorato – completò un viaggio di tre anni, su un peschereccio di aringhe convertito, dalle quarantasette tonnellate di stazza, per arrivare in Alaska a Circle, da cui informò del suo successo. La sua rotta tuttavia non era pratica e conveniente, dal punto di vista commerciale. In aggiunta al tempo che occorreva, alcune delle sue acque erano inoltre estremamente poco profonde. La realtà della scoperta portò così anche alla fine del sogno e dell’utopia. Ma vediamo meglio la cosa, in dettaglio e più da vicino.
Le terre lontane ed inesplorate del Grande Nord, oltre i confini del mondo conosciuto, coperte dai ghiacci e remote, fra Atlantico e Scandinavia, affascinavano Amundsen, sin dalla giovinezza. Le esplorazioni delle zone artiche, le ultime ancora indicate come terrae incognitae, sulle mappe, certo non erano mancate, nell’era moderna, tuttavia mai risolutive. Imbarcarsi sulle navi che battevano le più fredde aree di mare della Terra era stata, sempre, una pericolosa ed affascinante avventura. Già marinaio nell’Artico, in contatto, sia con le missioni polari, in corso, sia con la Società geografica norvegese (accademia che come la Royal Society inglese gestiva nel gelato settentrione un’accorta politica della scienza, promuovendo spedizioni a livello istituzionale), Amundsen era ferratissimo, e nella nautica, e nella conoscenza delle terre fredde. Fece tesoro delle sue esperienze ed esplorazioni scientifiche di viaggiatore polare. L’impresa legata al raggiungimento del leggendario passaggio a Nord-Ovest lo coinvolgeva, inoltre, sin dagli anni della fanciullezza. Nessuna nave, di fatto, era mai riuscita a percorrerlo a causa dei ghiacci. Centinaia di uomini non erano mai ritornati ed in ordine di tempo l’ultima spedizione, della quale Amundsen era perfettamente a conoscenza, attraverso le sue molteplici letture, era stata quella inglese del Capitano Franklin, quasi mezzo secolo prima.
Il tratto marittimo del passaggio a Nord-Ovest era e ancora fondamentale. Dato che Europa ed Asia erano separate dall’(oltremodo) esteso continente americano, che obbligava le navi da cargo ad un periplo da Sud fin quasi a lambire il circolo polare antartico presso Capo Horn, per poi risalire di nuovo il globo terracqueo in direzione Nord, il problema non era mai stato risolto, e dimostrare, per via empirica, la percorribilità del passaggio in questione avrebbe finalmente avvicinato l’Europa e l’Asia di decine di migliaia di chilometri: un corridoio commerciale d’incalcolabile valore. Da parte sua, Amundsen valutò appieno e difficoltà e rischi di una spedizione che richiedeva, perlomeno, due anni, di attenta e minuziosa preparazione, anche solo per l’equipaggiamento necessario. Metodico e maniacale, non trascurò alcun dettaglio. La sua Gyoa, relativamente non grande e dunque altamente manovrabile da sette persone, in tutto, era la nave migliore e più adatta. Per secoli, si era tentato con navi troppo imponenti (non ultima, quella frankliniana), ma imbarcazioni di dimensioni colossali si incagliavano inevitabilmente nell’inferno di ghiaccio nordico.
Amundsen, prima di salpare, trascorse numerosi mesi a familiarizzare con la nave, facendo le opportune modifiche e raccogliendo provviste, bastevoli per un lustro, almeno. La qualità infatti dei rifornimenti, insieme a quella di un equipaggio fidato ed esperto, costituiva la chiave di volta per la buona riuscita della missione. Egli scelse sei suoi connazionali di provata esperienza artica.
Amundsen viveva in un mondo antecedente alla rivoluzione telegrafica marconiana e sapeva, meglio di altri, quanto le navi fossero, in mare aperto, tagliate fuori da qualsivoglia comunicazione: l’intrepido esploratore nordico che niente temeva non lasciò così nulla al caso. Una volta partita, la sua nave raggiunse la costa occidentale della Groenlandia. Di fronte, aveva un caotico arcipelago, disabitato e fatto di rocce, con temperature bassissime, che sfioravano i 70 gradi sotto zero. Le carte nautiche di quelle zone non erano molto precise, ma il carisma e la sicurezza del comandante presto si imposero, con forza ed energia. La Gyoa fece il suo ultimo rifornimento, sulla sassosa spiaggia di Disko, prima di addentrarsi nel labirinto di isolotti del continente americano, facendo rotta verso il Nord e seguendo i consigli dei capitani delle baleniere, consultati prima di salpare. Amundsen passò in acque infestate dal ghiaccio eterno, pure d’estate, schivando massi galleggianti, ed arrivando alla Baia di Melville. L’orizzonte pullulava di apparizioni, quasi ipnotiche: le maestose masse solitarie dei giganteschi iceberg descritti poi nelle sue memorie. La nave voltò a quel punto ad Ovest e – per ben due settimane – veleggiò attraverso nebbie assai fitte, nel silenzio splendido e terribile, proprio di un paesaggio ghiacciato, quanto favoloso (in senso letterale). La Gyoa raggiunse, in tale maniera, l’avamposto artico del continente americano e la vera sfida poteva quindi iniziare.
La nave di Amundsen si incuneò, in un corridoio di mare, attraverso le estreme propaggini del continente canadese. L’esploratore norvegese fece tappa nella desolata Isola di Beechey, allo scopo di effettuarvi alcune misurazioni del magnetismo terrestre. Si trattava dell’ultimo lembo emerso di terra, che poche imbarcazioni europee avevano avvistato in precedenza. Oltre, vi era l’ultima grande terra incognita del mondo. Una tempesta trascinò la Gyoa sugli scogli dell’Isola di Matty. Di fronte Amundsen aveva l’inverno polare e lunghe notti, che affrontò in modo lucido e consapevole. Certo, le carte nautiche e il lavoro degli astronomi potevano aiutarlo solo sino ad un certo punto. Tuttavia, Amundsen amava, in cuor suo, quel mondo, bianco ed immobile, dove gli uomini – come ha scritto Giorgio Pirazzini – sono soltanto piccoli ed insignificanti puntini neri, che si muovono silenziosi, e quasi come fantasmi. La civiltà occidentale era alle spalle, le comunicazioni impossibili. L’inverno polare portò con sé, come previsto, un vento gelido. Ma Amundsen si era ben organizzato ed inoltre aveva fatto allestire una stazione di rilevamenti scientifici, per osservazioni di natura meteorologica e magnetica. Nel deserto di ghiaccio incontrò gli Inuit, sui quali si era molto documentato. Con loro, si instaurò un rapporto fecondo e stretto, e lo stesso esploratore nordico imparò moltissimo, da loro, da sempre abituati a sopravvivere sul ghiaccio. Amundsen si serviva, in effetti, delle tecnologie più moderne, ma sapeva anche assecondare la natura. Uno degli ultimi scienziati a farlo, forse. Gli Inuit erano per lui i ‘bambini della natura’, maestri nell’uso di tecniche sviluppate lungo millenni. Grazie a loro, egli cominciò a rivedere il proprio approccio alle terre polari. Imparò ad orientarsi in mezzo alla nebbia più densa e a fabbricare i rifugi di neve ghiacciata chiamati come noto igloo. A sua volta volta, Amundsen dispensò agli Inuit varie nozioni utili: uno scambio culturale reciproco. Amundsen non sentiva quasi disagi o monotonia, mantenendosi in costante movimento. Oltre che scienziato e viaggiatore, era anche geografo ed etnografo. Gli Inuit erano per lui gli Iperborei di Erodoto. In occasione della spedizione polare, inoltre, proseguiva la raccolta di dati circa il clima ed il magnetismo: rilevazioni scientifiche di rilievo capitale, insieme alle tecniche di sopravvivenza, in un clima come quello artico, facendo qui tesoro dei segreti insegnamenti impartitigli dai maestri, gli Inuit, appunto. Dopo oltre due inverni, la spedizione di Amundsen ebbe infine il meritato successo e dopo una lunghissima navigazione solitaria, nelle acque artiche, la Gyoa incrociò una baleniera, che batteva bandiera statunitense: Amundsen ed i suoi uomini avevano vinto ed erano stati i primi, nella storia, a trovare l’agognato passaggio a Nord-Ovest. Il mito era divenuto realtà. Vicino alle acque dell’Oceano Pacifico, comunque, andò profilandosi, per loro, il terzo inverno artico. Poterono accamparsi e ricevere in ogni caso notizie dall’Europa occidentale. A metà ottobre del 1905, poi, lo scienziato e navigatore norvegese partì per raggiungere Fort Yukon, da cui avrebbe telegrafato sulla buona riuscita della propria impresa. Non gli difettava un certo e giusto orgoglio nazionale: la rotta del passaggio a Nord-Ovest era stata trovata di fatto da una nave norvegese.
Amundsen rientrò in patria, come un eroe, accolto con tutti gli onori accademici. Venne visto come il paladino di una nuova nazione, visto che, frattanto, la sua Norvegia si era affrancata dalla dominazione svedese ed era riuscita a diventare finalmente indipendente. A lui, spettava la gloria di essere riuscito in una impresa che i navigatori europei avevano tentato per quattro secoli. Amundsen tenne giri di conferenze a San Francisco, Filadelfia e New York. Ma era un esploratore irrequieto e non sapeva rimanere, fermo in un luogo, troppo a lungo. L’ignoto lo chiamava. Nuove idee di nuovi viaggi esplorativi: prima il Polo Nord, quindi il Polo Sud, verso il quale salpò, il 3 giugno 1910, da Oslo, sulla nave Fram, transitando per Madeira, prima di spingersi in direzione di quella che restava l’ultima terra incognita sulle carte del nostro pianeta. Rivale coeva era l’altra spedizione, inglese, in direzione dell’Antartide, guidata dal capitano Robert Falcon Scott. Fu pertanto non solo e tanto una esplorazione scientifica, ma un’autentica gara politica, rimasta celebre. Da un lato l’orso dei ghiacci abbeveratosi alle fonti della saggezza Inuit, dall’altro un gentiluomo britannico old style e cresciuto con i costumi vittoriani (patrocinato dalla Royal Geographical Society londinese). E’ un’altra storia, che esula peraltro dal tema che ci siamo prefissi di affrontare in questa sede, e che incrocia piuttosto la successiva spedizione, del Capitano Shackleton, nella natura – allora, ancora incontaminata – dei monti trans-antartici del Polo Sud.
Accanto al passaggio a Nord-Ovest, anche quello a Nord-Est fu per vari geografi e uomini di scienza dell’età moderna un oggetto di costante studio. La carta inserita nel 1644 da Jan Jonsson nel suo trattato Poli Artici ne è una testimonianza, di certo non l’unica. La rotta marittima, dal Mare di Barents allo Stretto di Bering, lungo la costa a Nord della Russia, è stata nota, sino alla fine del XIX secolo, appunto come passaggio a Nord-Est. Il primo a parlarne fu – nel 1525 – il diplomatico russo Dimitri Gerasimov. Si trattava, allora come oggi, di un percorso altamente pericoloso ed incerto, dal momento che la rotta si ritrovava in acque artiche ed era libera dai ghiacci solamente per pochi mesi l’anno, giusto in piena estate.
La prima spedizione scientifica, alla ricerca del passaggio a Nord-Est, fu tentata da Giovanni Caboto a metà del secolo XVI, seguìto dallo zoologo e navigatore Sir Hugh Willoughby e in seguito dall’esploratore e geografo Richard Chancellor. L’equipaggio del primo naufragò però al largo della penisola di Cola, mentre la nave del secondo raggiunse il fiume Dvina settentrionale, accolto da una delegazione dello zar Ivan il Terribile. Arrivato a Mosca, Chancellor vi creò per conto della Regina Elisabetta la Muscovy Trading Company, atta a promuovere scambi e traffici commerciali fra la sua Inghilterra e la nascente potenza russa. Fu l’inizio, sotto le insegne delle relazioni diplomatiche, di una nuova era, nella ricerca del passaggio a Nord-Est e in generale degli studi geografici. In seguito, l’ambasciatore inglese, Sir Francis Cherry (1552-1605), mise assieme le informazioni geografiche raccolte dai mercanti russi in nuove mappe, per l’esplorazione britannica della regione. Alcuni anni dopo, Steven Borough (1525-1584), già comandante della nave di Chancellor, raggiunse il Mare di Kara, ma i ghiacci lo obbligarono a rientrare. Le parti occidentali del passaggio a Nord-Est vennero esplorate, contemporaneamente, da Stati del Nord Europa come Inghilterra, Paesi Bassi, Danimarca e Norvegia, alla ricerca di una rotta alternativa, verso e la Cina e l’India. Anche se queste spedizioni non ebbero particolare successo, furono scoperte e mappate nuove coste e isole. Degna di nota fu la spedizione guidata dal navigatore ed esploratore olandese Willem Barents (1530-1597), che scoprì le Spitsbergen e l’Isola degli Orsi, un anno prima di morire. Ancora una volta, la ricerca di un luogo condusse alla scoperta di altre aree, prima ignote, e così cartografate dai geografi. Da parte sua, poi, la Russia creò colonie, nel Mare del Nord, a partire dal 1619, per ostacolare la penetrazione di navi ed esploratori inglesi, in Siberia. Anche i cosacchi, navigando da una foce all’altra dei fiumi artici, fecero la loro parte. Altre spedizioni scientifiche russe presero il via, nel 1648, dopo che la Pace di Westfalia aveva posto fine alla Guerra dei trent’anni. Nel secondo e tardo Seicento, a Mosca, venne assumendo sempre più i contorni dell’utopia l’idea che esistesse un collegamento terrestre, fra Asia e America settentrionale. Nel 1728, l’esploratore e cartografo danese Jonassen Bering (1681-1741), intraprese viaggi e spedizioni in più direzioni al servizio della Russia dei Romanov, trovando a nord lo Stretto che porta il suo nome ed esplorando altresì le Isole Diomede. In seguito, fu nuovamente il norvegese Amundsen a cercare il passaggio a Nord-Est, sopra la Russia e la Siberia, nel 1918, lungo l’87° parallelo, in questo caso utilizzando il dirigibile militare Norge, con a bordo anche l’ingegnere italiano Umberto Nobile. Quando un altro dirigibile di casa nostra, l’Italia (Mussolini aveva ordinato una nuova spedizione antartica), si ritrovò in difficoltà e fu dato per disperso nell’Artico, Amundsen partì immediatamente per fornirgli aiuto, decollando, su un idrovolante francese, il 18 di giugno del 1928. Da allora, non si ebbero più notizie di lui e la sua fine resta tutt’oggi avvolta nel mistero. Una fine, nondimeno, degna del suo grande nome e della sua stessa vita sui mari del nord.


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Nell'immagine, Il Polo Nord nella mappa di Mercatore (1606).

Documento inserito il: 19/10/2023
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