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L’Inghilterra, Port Royal e i pirati del Mar dei Caraibi tra XVI e XIX secolo

di Davide Arecco


Daniel Defoe (1660-1731) scrisse l’Historical Account of the Voyages and Adventures of Sir Walter Raleigh intorno al 1720, il medesimo periodo in cui attendeva alla stesura del suo Robinson Crusoe. L’operetta era in parte racconto biografico, in parte narrazione storica – di un’epoca in cui scoperte ed esplorazioni geografiche, guerra di corsa e viaggi pirateschi intrecciavano i loro piani – e in parte pamphlet. Lo scrittore politico e propagandista del primo Settecento anglo-britannico, per il ritratto di Raleigh – navigatore e corsaro, ma anche poeta: compose una History of the World ed il poema Ocean to Cynthia – scelse di non mettere da parte uno stile letterario sofisticato e colto, con opportune ed azzeccate digressioni erudite. Ne emergeva la figura di un aristocratico protestante, di una figura chiave se davvero si vogliono comprendere i meccanismi storici dell’età Tudor e del XVI secolo inglese. Raleigh fu infatti colui che diede il via alla penetrazione coloniale inglese negli spazi americani, fondando la Virginia nel 1585 e gli insediamenti della Guyana, sostenitore d’una politica espansionistica e di un Impero marittimo oltremare – che il matematico e astrologo John Dee (1527-1608) si diede in quegli anni a forgiare e giustificare in termini ideologici, al servizio di Elisabetta I – politica finalizzata all’ampliamento delle conoscenze (geografiche e non solo) come dei traffici e dei commerci transoceanici.
Favorito della Regina Vergine e assai influente a Londra presso la corte, campione – ben se ne accorse lo stesso Defoe, nel tratteggiarne l’affascinante profilo all’alba dei Lumi – degli ideali della cultura rinascimentale e albionica e londinese, Walter Raleigh (1553-1618) fu membro di punta dei famigerati Sea Dogs, il gruppo dei corsari impiegati dalla monarchia elisabettiana, sia nel Mare del Nord, sia sulle rotte dell’Atlantico. Esploratore per conto dello Stato inglese dell’America del Nord, primo governatore della Virginia (da lui così chiamata, poiché vi nacque la prima bimba americana, Virginia Dare), tra il 1579 ed il 1783 Raleigh già si era distinto, sedando le varie ribellioni irlandesi di Desmond e Smerwick. Dal 1584 impegnato soprattutto oltreoceano, Raleigh fondò nella Carolina settentrionale, fra il 1586 e il 1591, la colonia inglese di Roanoke, secondo insediamento nel Nuovo Mondo dopo San Giovanni di Terranova.
Raleigh – in vero, più corsaro che pirata – organizzò anche spedizioni scientifiche in America centrale e meridionale: cercò la mitica città perduta di Eldorado costeggiando l’Orinoco, viaggiando altresì nell’attuale Venezuela. Misteriosa decisamente fu, tuttavia, la disavventura di Roanoke, ove risiedevano centocinquanta coloni allora guidati da Ralph Lane (1532-1603).
Tra i primi testimoni della misteriosa fine di Roanoke fu il corsaro e navigatore Francis Drake (1542-1596), anche lui nome di punta dei Sea Dogs, cavaliere della Regina Elisabetta e tra i primi pirati della storia. Di passaggio a Roanoke, Drake trovò i coloni lasciati in origine da Raleigh sfiniti dalla fame e decimati a seguito dei vari scontri con gli indiani. Prima di ripartire, fece sbarcare dalla sua nave quindici uomini, da lasciare a protezione dell’insediamento inglese. Venuto al corrente del problema, Raleigh pianificò, dunque, una nuova spedizione nella colonia, comandata da John White (1540-1593), partito dall’Inghilterra con un equipaggio di quasi centoventi unità e arrivando infine a Roanoke il 22 luglio 1587, con materiali e sementi. Tornato quindi velocemente a Londra, vi rimase bloccato dallo scoppio della guerra anglo-spagnola, che, come noto, fu combattuta in particolare fra le acque nord-atlantiche. Solo il 20 marzo 1590, il capitano William Irish levò le vele da Plymouth, allo scopo di portare nuovi aiuti alla colonia americana. White era con lui. Il 18 d’agosto sbarcarono sull’isola di Roanoke. Il villaggio era deserto, la palizzata costruita per proteggerlo ancora intatta e stavolta non vi era alcun segno di eventuali scontri con i nativi. Ma degli oltre cento coloni, nessuna traccia. Solo vesti e indumenti, senza la minima traccia di sangue, o di lotta. Solo una parola, incisa sulla palizzata, Croatoan. I coloni erano scomparsi nel nulla e non vennero mai più ritrovati. Né si ebbero prove o anche soltanto tracce di un loro trasferimento altrove. Uno dei maggiori misteri della storia, rimasto ancora oggi irrisolto e sfuggente, motivo tuttora di fascino e stupore, non solamente fra gli storici. Ma torniamo a Drake e alle sue mirabolanti e temerarie iniziative.
Nato nel Kent, da una famiglia originaria del Devonshire, Drake si era fatto le ossa sulle navi mercantili longo la tratta anglo-francese e nei mari dell’Europa settentrionale. A ventitrè anni scoprì il Nuovo Mondo con il pirata e navigatore Sir John Hawkins (1532-1995). Da quel momento in poi, operò, specialmente, sulle rotte dei Caraibi, e nei mari sud-americani. Il suo motto, a ricordare, pur nel successo, gli umili natali, era Sic parvis magna: era, in effetti, sempre sospinto, per indole, verso grandi e gloriose imprese. Dal 1560, fece viaggi in Africa e Nuova Spagna. Nel 1568 si spinse verso il Messico, ogni volta con Hawkins. Nemico giurato della corona spagnola, come tutti gli inglesi di fine Cinquecento, nel 1572 ottenne la patente di corsaro da Elisabetta ed iniziò, così, a saccheggiare le navi di Filippo II, partendo da Plymouth ed operando specie tra Panama ed il Perù. Attività, nolto spesso, al confine – sempre labile, in questi casi – con la pirateria vera e propria (Digby ne sarebbe stato un altro illustre exemplum, a metà Seicento, nel Mediterraneo, sempre per conto degli inglesi): l’area meso-americana era teatro delle azioni predilette da Drake, senz’altro le più coraggiose e più spavalde del tempo, quando appunto i corsari cominciavano a farsi pirati mettendosi in proprio, non soltanto quindi servendo la madrepatria.
Naturalmente, la fama imperitura di Drake è legata, anche, alla circumnavigazione del globo terrestre, compiuta tra il 1577 ed il 1580. A bordo del Pelican, con quattro navi e centocinquanta in tutto uomini di equipaggio, Drake passò lo Stretto di Magellano ed entrò nel Pacifico. A quel punto, decise di proseguire con la sola ammiraglia – la Golden Hind, così detta in onore di Sir Christopher Hutton, il finanziatore dell’impresa – e arrivò a Valparaiso, ove non si fece sfuggire l’occasione per depredare (anche di mappe e carte geografiche) i galeoni spagnoli. La cosa rientrava nel programma che aveva del resto discusso con la regina. Drake cercò anche, fra odierni Stati Uniti e Canada, quel passaggio a Nord-Ovest a lungo vagheggiato, dagli esploratori europei, lungo tutta l’età moderna. Il 1579 vide la Golden Hind attraccare nella baia di San Francisco per la prevista manutenzione. Nella prosecuzione del viaggio, Drake fu quindi in California, nell’Oregon, e nelle zone nord-occidentali dell’Oceano Pacifico. Sorse così Nuova Albione, il nome che lui diede a territori e tratti costieri mai prima esplorati: un motivo di vanto, ovviamente, anche per la corona inglese. Attraverso il Pacifico, Drake raggiunse poi le Isole Molucche e giunse in Indonesia. Doppiò il Capo di Buona Speranza, ed arrivò in Inghilterra, nel settembre 1580. Carico di spezie e tesori sottratti agli spagnoli, all’inizio di aprile del 1581 fu celebrato a Londra con tutti gli onori. Una prima grande vittoria inglese contro gli spagnoli avversari nello scacchiere internazionale, a livello di immagine e non solo. La decadenza spagnola, lo stesso declino storico della monarchia di Madrid iniziarono, in favore dell’Inghilterra, all’epoca di Drake e anche – quando non soprattutto – per mano sua, di concerto con i Tudor.
Per un lustro circa, Drake visse sugli allori e rimase fermo in patria. Tra il 1585 ed il 1586 egli riprese la via del mare – la sua via, certamente – saccheggiando i porti spagnoli di Santo Domingo e Cartagena. Ne approfittò anche per prendere possesso del Forte spagnolo di Saint Augustine, sulla costa della Florida, nonché per compiere atti d’aperta pirateria a Porto Rico, noti e tollerati nella sua Inghilterra. D’altra parte, era un eroe nazionale, per gli inglesi. Nel 1588, all’apice, pertanto, dello scontro anglo-spagnolo, ‘Drake il pirata’ divenne vice-ammiraglio della Royal Navy, agli ordini del suo nuovo protettore, Lord Howard di Effingham (1536-1624). Presidiò il mare al largo di Calais e partecipò alla Battaglia di Gravelines. Nel 1589, sempre al servizio di Sua Maestà, Drake ebbe vari scontri navali con l’Invincibile Armada ed aiutò i ribelli portoghesi a combattere contro le truppe di occupazione spagnole. Negli ultimi suoi anni, gli atti di pirateria diminuirono ed egli fece ritorno in buona sostanza alla sua antica dimensione di corsaro inglese sui mari.
Se Lord Howard fu il punto di riferimento di Drake, nella seconda ed ultima parte della sua – coinvolgente, certo – carriera (anche politica), Sir John Hawkins fu il suo primo mentore. Il figlio di quest’ultimo, Richard, nato a Plymouth nel 1562 e morto a Londra, nel 1622, fu come il padre ed al pari di Drake (legato a questi da spirito di amicizia e di collaborazione) navigatore ed esploratore tra i più importanti dell’Inghilterra, fra XVI e XVII secolo, nonché uno di quei corsari che arrivarono a farsi pirati. Drake fu da lui accompagnato prima nelle Indie Occidentali (1582), poi lo fece capitano di una goletta durante la sua spedizione piratesca nel Mare dei Caraibi (1585), infine lo arruolò sulla Swallow per la decisiva battaglia inglese nel Canale della Manica contro l’Armada (1588), prima di distaccarlo in Portogallo a proteggere coste e località frattanto sottratte alla Spagna (1590). Fu sulle rive dell’Atlantico che Richard Hawkins scoprì la propria vocazione di pirata. Nel 1593 egli comprò il Dainty, nave costruita originalmente per suo padre e utilizzata da lui nelle sue spedizioni, e la fece salpare per le Indie Occidentali, per i Caraibi e per i mari del sud. Lo scopo manifesto era depredare i possessi della corona spagnola tramite assalti marittimi ed in misura minore portare a termine vari studi di carattere e geo-cartografico e naturalistico. Lo attestano le memorie stese da Hawkins, quasi tre decenni dopo, dal titolo Observations, nel suo Voiage Into the South Sea – rimaste incomplete al momento della morte, nel 1622 – a detta di molti forse il bel resoconto di avventure sui mari scritto in Inghilterra, in età elisabettiana, capace di rivaleggiare con i diari di viaggio di Richard Hakluyt, il maggior geografo e navigante della prima età moderna in Nord Europa.
Il Dainty di Hawkins visitò le coste brasiliane, quindi passò lo Stretto di Magellano, si portò in Cile e saccheggiò diverse postazioni e colonie spagnole. Nel 1594 arrivò nella Baia di Sao Mateo e tre anni dopo fu accerchiato e fatto prigioniero dai nemici: imprigionato dapprima a Siviglia e poi a Madrid, Hawkins venne salvato dalle operazioni diplomatiche della corte britannica e riottenuta la libertà poté fare finalmente ritorno in patria, alla fine del 1602. Qui, l’anno successivo, fu nominato Cavaliere dal nuovo Re, Giacomo I (VI di Scozia), iniziatore sul trono della dinastia Stuart. Durante il 1604, Hawkins fu eletto membro del parlamento per Plymouth, sua città natale, diventando inoltre vice-ammiraglio nel Devon. Qui avrebbe dovuto difendere la costa dalla presenza, altrimenti molto pronunciata e massiccia, di navi pirata, al largo. In realtà, complici i suoi trascorsi, Hawkins ebbe la mano sempre assai leggera e non mancò, in talune circostanze, di aiutare nascostamente i medesimi pirati, in fondo suoi vecchi compagni sugli oceani. Tra il 1620 e il 1621 fu vice ammiraglio sotto Sir Robert Mansell, membro della flotta inviata nel Mediterraneo per contrastare i corsari algerini.
Con la fugura di Richard Hawkins si chiude in un certo senso la prima stagione della guerra di corsa trasformatasi in pirateria, al principio del Seicento. Una nuova età iniziò a squadernarsi, verso la metà del secolo XVII, ad opera ora anche di pirati olandesi e francesi. Ricordiamo in merito Jean-David Nau (1634-1671), più noto come l’Olonese. Pirata e bucaniere tra i più celebri della storia, al medesimo tempo audace e intraprendente, Nau fu nondimeno crudele e sanguinario. Degli inglesi di certo non aveva classe e stile, comportandosi spesse volte come un feroce e comune criminale. Non faceva mai prigionieri, durante gli abbordaggi, e le sue vittime venivano uccise atrocemente. Nella Francia seicentesca, era denominato il ‘flagello degli spagnoli’. Nau imperversò, infatti, soprattutto nel corso degli anni Sessanta del XVII secolo, nelle acque del Mare dei Caraibi. Saccheggiò le città spagnole di Maracaibo e Gibraltar, i due centri di certo maggiori dell’allora Vicereame della Nueva Granada. Era il 1666, l’anno del Diavolo. Fu l’apoteosi di un itinerario di morte – l’Olonese seminò infatti vento, e raccolse tempesta – cominciato in gioventù alla Martinica e proseguito, inizialmente, al soldo del governatore francese della Tortuga, che mise, appositamente, il bucaniere a capo di una nave votata ad attaccare i possedimenti iberici nei Caraibi. Scorrerie, uccisioni e rapine sui mari si susseguirono presto e sempre nel 1666 Nau si mise in società con Miguel le Basque, altro bucaniere della Tortuga, alla testa di un convoglio di otto navi e quasi settecento uomini. Raggiunsero quindi il Lago di Maracaibo e fu un massacro per gli abitanti locali. Per ottenere le ricchezze nascoste degli spagnoli catturati, Nau e i suoi sodali si abbandonarono fra l’altro a feroci e macabre torture.
Nel 1670 l’Olonese si spinse in direzione del Guatemala, con centinaia di bucanieri al seguito, saccheggiando Sao Pedro, prima di cadere in un’imboscata. Per miracolo ritornò sulla sua nave, che una tempesta fece però naufragare, sugli scogli di Pearl Key. A finire Nau furono i nativi di Darién, che fecero a lui quanto aveva fatto ad altri: la fine di colui che più di tutti incarnò la leggenda nera e l’anima più sinistra della pirateria del Seicento in America centro-meridionale.
Nella seconda metà del Seicento, la maggior figura di corsaro divenuto a tutti gli effetti pirata fu, senza dubbio, quella dell’ammiraglio gallese Henry Morgan (1635-1688). Nato a Cardiff, da una famiglia di provata fede realista, Morgan approdò in Giamaica, nel 1658, orgoglioso di essersi già costruito la propria fama e fortuna con il suo valore. Per conto del Commonwealth, diede l’assalto a Hispaniola ed in generale le aree caraibiche, vista la centralità della loro posizione, gli procurarono ingenti bottini. Sul finire del 1665, Morgan ebbe il comando di una nave nella spedizione di Edward Mansfield, corsaro agli ordini di Sir Thomas Modyford, governatore della Giamaica. Conquistarono le isole di Providencia e Santa Catalina, in Colombia. Modyford venne nominato governatore delle Isole Barbados, in premio per la sua lealtà e per i suoi servigi a Re Carlo II, durante la Guerra Civile Inglese (1640-1660) e per i suoi rapporti con il Duca di Albemarle. Da governatore, Modyford ebbe il compito di richiamare a raccolta tutti i pirati e i corsari delle Indie Occidentali. Molti bucanieri – tra cui lo stesso Morgan – rifiutarono, tuttavia, il rientro. Il capitano Edward Mansvelt ricevette nel frattempo l’ordine di attaccare la colonia olandese di Curaçao e Morgan fu al suo fianco.
Quest’ultimo, nel 1659, compì in veste di bucaniere saccheggi in area dominicana e partecipò a diverse spedizioni nelle Antille, contro gli spagnoli. La lettera di corsa per la Giamaica gli giunse dallo zio Edward, allora governatore di Port Royal, insieme ad una nave da cinquanta tonnellate con la quale Morgan portò a termine numerose scorrerie sul mare, nel 1666. Mansfield lo volle nella sua flotta. Nel 1667, Modyford incaricò Morgan di catturare prigionieri spagnoli a Cuba. Con dieci navi e cinquecento uomini, Morgan mise a segno una lunga serie di sbarchi e saccheggi, ottenenndo – il suo primo comando indipendente – la conquista di Puerto Principe. Nel 1668 egli attaccò Portobello nell’odierna Panama. L’anno successivo altre azioni lo videro consolidare le posizioni – sia proprie, sia inglesi – nei tratti di mare cubani e panamensi, spingendosi sino a Maracaibo e a Cartagena. Nel 1670, le operazioni di saccheggio proseguirono senza sosta, rivolte sempre contro i domini iberici: una base fondamentale per le azioni di pirateria lungo le coste di Nueva Granada e venezuelane era nell’Isola della Tortuga, il centro di raccolta dei bucanieri di allora. Tra il 1670 e il 1671, Morgan si decise infine a rientrare a Londra, protettovi da Carlo II e vezzeggiato dalla corte degli Stuart. Lord Richard Vaughan lo fece luogotenente della Contea di Glamorgan e lo incaricò altresì per ordine del sovrano stesso di incoraggiare gli atti di pirateria, sull’Atlantico, contro, tanto gli spagnoli, quanto i francesi. Nel 1680, ricco ed onorato in patria, Morgan divenne governatore della Giamaica e finì per stabilirsi in quello che da sempre era stato il suo quartier generale, la base di Port Royal. Difesa dai pirati, proprio durante il governatorato di Morgan Port Royal iniziò ad espandersi e a crescere. Poi – dal 1687 – da porto franco per i pirati, la loro ex base cominciò a divenire un luogo di esecuzioni: vi vennero infatti giustiziati a Gallows Point (1720) due uomini di spicco della ciurma di Jennings e di Barbanera, ossia Rackham e Vane. Ma in precedenza era stata tutta un’altra storia.
Principale centro di commercio marittimo della Giamaica, durante il Seicento, Port Royal, ad un tempo città ricca e malfamata, luogo dai costumi quanto mai dissoluti, fu tempio pagano di pirati e corsari. A partire dal XVII secolo, le autorità inglesi vi incoraggiarono diversi bucanieri, a danno di navi ed imbarcazioni francesi e spagnole. Nata proprio come fortificazione spagnola nella Baia di Kingston, Port Royal diventò, nel 1655, un possedimento inglese. Quattro anni dopo, fuori del forte, si potevano trovare oltre duecento edifici in legno (tra abitazioni, empori e magazzini). Situata nelle rotte di navigazione da e per la Spagna e Panama, facile preda, perciò, dei pirati attivi nei Caraibi, la baia era altresì uno spazio protettivo per velieri, bisognosi di riparazioni, nonché una posizione a dir poco ottimale, per attaccare le colonie spagnole. Port Royal fu il regno laico di Morgan – prima del pirata, poi del governatore della Giamaica – nonché del Capitano Mansfield e di John Davis, i quali ne fecero la base sicura per le loro operazioni piratesche. Spesso, ancor prima di Morgan, gli inglesi erano soliti rivolgersi ai pirati in funzione anti-spagnola e anti-francese. Luogo di pirati, tagliagole e meretrici, il porto della capitale giamaicana divenne presto famoso anche in Europa. La colonia vide crescere la propria popolazione e il proprio nome, a partire dal 1661 almeno, soprattutto nel periodo 1688-1692. Lo attesta fra l’altro la History of Jamaica (1740) di Charles Leslie.
Il 7 giugno del 1692, un terremoto distrusse Port Royal, che si inabissò, quasi completamente, nel Mar dei Caraibi. Città oggi sommersa dalle acque e non certo priva di tesori sepolti, nel fondo di un oceano oscuro ed impenetrabile, Port Royal viene oggi considerata il maggiore sito archeologico sottomarino in tutto l’emisfero occidentale del nostro pianeta, in particolare con i suoi tesori, frutto delle razzie spagnole, lungo le coste guatemalteche, a lungo cercati dagli inglesi – pirati, e non solo – ancora nel Settecento. Tante navi e vascelli affondarono infatti in quel tratto di mare, non soltanto a causa del terremoto. Questo innescò fra l’altro un maremoto, con tre onde anomale, che erosero in profondità la terra già colpita dal sisma. Quanto della città di Port Royal si salvò al momento, finì in seguito per sprofondare, pian piano, tra le acque del mare. Una prima, lenta e faticosa ricostruzione di Port Royal – la capitale e la sede del governo giamaicano erano intanto state spostate a Kingston ed infine a Spanish Town – prese piede tra mille difficoltà, solo intorno al 1703. Ma le conseguenze del disastro naturale si fecero sentire ancora lungo l’intero corso del secolo XVIII. Soltanto durante il secolo XIX, vi fu una parziale rinascita di Port Royal – non più quella degli anni d’oro, comunque – che divenne il principale centro di comando delle forze navali anglo-britanniche nei Caraibi.
Con la fine di Port Royal, si chiude di fatto la seconda stagione, nella storia della pirateria. Per la terza, passati ormai i giorni gloriosi, i nomi di punta si assottigliano. Va ricordato tuttavia di certo il medico e corsaro britannico Thomas Dover (1660-1742), che fu altresì alchimista e speziale. Una figura insieme singolare ed importante. Nato da illustre e ribelle casato cattolico di Oxford a Barton, fedelissimo della causa stuardista, nemico del pauperismo (che combatté, con numerose iniziative, a Bristol, dal 1681 al 1696), Dover fece i propri studi presso l’Università oxoniense dal 1680 al 1684 e nel 1684 entrò a Cambridge, qui apprendista del grande Thomas Sydenham, l’Ippocrate inglese di metà Seicento. Dover, peraltro, trovò se stesso con il viaggio del 1702, nelle Indie Occidentali. Una avventura che gli fece scoprire un’indomina vocazione per la pirateria. Tra il 1708 e il 1709, Dover prese infatti parte, sulla Duchess del bucaniere William Dampier, ad attacchi corsari, per catturare i tesori trasportati dai bastimenti spagnoli, presso le Isole Juan Fernandez. Nell’occasione, egli guidò con successo una squadra di sbarco. Dampier e Dover scoprirono poi un fuoco acceso da Alexander Selkirk, marinaio scozzese abbandonato sull’isola dell’arcipelago (nel 1705) dalla Cinque Ports. Il suo soggiorno di quattro anni sull'isola ed il susseguente salvataggio fornirono l’ispirazione, si sa, alla stesura del romanzo Robinson Crusoe di Defoe, a sua volta grande amico del governatore delle Bahamas Woodes Rogers.
Nell’aprile del 1709, con la sua nave Marquis, Dover fece razzie in Ecuador e visitò l’Isola di Giava. Fece ritorno in Inghilterra nel 1712. A Londra, ormai i corsari venivano ritenuti, di certo non a torto, pirati (le due categorie si erano e del tutto fuse insieme), ma la promulgazione del Prize Act, nel 1708 da parte della Regina Anna e dei suoi ministri Tory, aveva fornito supporto legale alle loro azioni sui mari. A quel punto, Dover tornò a dedicarsi alla cultura scientifica. Svolse la professione di medico a Bristol, prima di trasferirsi allo Strand londinese, nel 1720. Coinvolto nel fallimento, di lì a breve, della South Sea Company, nel 1732 Dover pubblicò poi il suo trattato a stampa, dal titolo Ancient Physician’s Legacy to his Country, il grande classico della iatro-chimica inglese ed europea settecentesca e illuminista. Morì e fu sepolto nel Gloucestershire dieci anni più tardi.
L’ultimo vero pirata della storia moderna fu, dopo di lui, il francese Jean Lafitte (1776-1826), nato ad Haiti da una famiglia nobile, grande poliglotta e pirata attivo nel Golfo di Barataria e a New Orleans. Organizzatore di una autentica ‘società di corsari’ – l’ultima della storia, a quanto ci è dato sapere – Lafitte emanò apposite leggi, per disciplinare e tutelare i suoi predoni del mare. Appoggiò la Repubblica di Columbia, impegnata in quegli anni a lottare per l’indipendenza dagli spagnoli. Di Madrid abbordava, con lettera di corsa giuntagli da Cartagena, le navi di stanza nell’Atlantico ed in America centrale. Fece suoi schiavi, tessuti, spezie, gioielli, opere d’arte e medicamenti. Nel 1812, Lafitte venne coinvolto nella guerra fra Stati Uniti e Gran Bretagna, trattando coi funzionari inglesi e capitani di vascelli della Royal Navy Williams e Lockyer da una parte, e cogli americani dall’altra: la sua flotta personale ne risentì ed egli ebbe non poche perdite. Pure la sua roccaforte venne presa e il suo equipaggio diminuì considerevolmente di numero.
Lafitte provò a risollevarsi, da quella sventura, riacquistando legalmente le proprietà frattanto confiscategli, seppure senza riuscirvi, sino in fondo. Del resto, la sua fama di pirata – uomo sempre al limite e sul confine, in ogni tipo di operazione, onesta e no – certo non lo agevolava. Nel 1817, si portò così in Louisiana e qui fondò una nuova colonia, a Galveston Island. Essa prosperò, ma lui no, formidabile negli abbordaggi, ma, tuttavia, incapace nel gestire il mestiere dell’uomo di affari. Nel 1821, la marina militare statunitense gli intimò la resa. Lafitte diede allora fuoco alla sua roccaforte e scelse la fuga, nello Yucatan. Nell’inferno verde, su cui avevano regnato i Maya secoli prima, egli trovò il suo ultimo agognato paradiso e fece perdere le proprie tracce. La sua stessa fine resta ancora oggi avvolta nel più fitto mistero.


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Nell'immagine, una carta dell'Amazzonia di Sir Walter Raleigh.

Documento inserito il: 05/10/2023
  • TAG: storia moderna, pirateria, guerra di corsa, bucanieri, storia atlantica, storia del Rinascimento, storia americana, secolo di ferro, Port Royal, Mar dei Caraibi, età dei Lumi

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