Cookie Consent by Free Privacy Policy website Tutto storia, medio evo: Le Beghine e il misticismo femminile nel XIII secolo
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Le Beghine e il misticismo femminile nel XIII secolo

di Francesco Servetto


Nel XIII secolo, l’uomo è ancora al centro della cristianità e uomini sono i principali protagonisti delle proposte dottrinarie che tentano di scuotere l’immobilismo e le incongruenze di una fede sempre più amministrata come un’azienda, gerarchicamente definita, ma soprattutto con un mandato indiscutibile. I movimenti pauperistici, è risaputo, sottolineano l’assurda inconciliabilità tra le parole del Vangelo e lo stile di vita degli addetti ai lavori, ma anche l’assurda sete di potere e di amministrazione della giustizia terrena propria delle alte sfere ecclesiastiche. Lo sfarzo si fa spirituale per quelle personalità, come Valdo o Francesco, che intendono liberarsi delle ricchezze materiali per consegnarsi puri al percorso di rinascita che segnerà i tempi.
L’elemento femminile, per quanto presente, si trova a fare i conti con decisioni prese da altri, da quegli Ordini regolari che calcolano minuziosamente i vantaggi e, soprattutto, gli svantaggi, dell’ospitare tra le proprie fila monasteri non maschili. L’ideale di castità, l’elemento della clausura, l’obbligo di obbedienza: nessun gruppo di religiose può sfuggire a queste tre regole, che per la propria indiscutibilità paiono più postulati. Guardandosi intorno, obiettivo comune per le nuove forme di dedizione spirituale, maschile e femminile, è il perseguimento dell’ideale di povertà e di castità, conducendo un’esistenza cristiana, prettamente dedita alle disposizioni evangeliche. Tuttavia, l’azione apostolica resta appannaggio dei soli esponenti maschili. A prima vista, trattando del sorgere di comunità femminili religiose, in cui le appartenenti vivono insieme godendo di una protezione e spirituale e temporale, potrebbe automaticamente prorompere una falsa percezione condivisibile da chiunque, viste le premesse; in altri termini, condividendo gli spazi e le forme di preghiera, nonché gli intenti evangelici, si potrebbe formulare l’ipotesi che le donne unitesi in comunità religiose femminili provenissero da ceti disagiati. Nulla di più scorretto. È necessario focalizzare una data e uno spazio ben precisi per comprendere la portata di tale affermazione.
È il 17 luglio 1216, il giorno prima è venuto a mancare papa Innocenzo III, protagonista del Concilio lateranense dell’anno precedente, che con le sue intuizioni aveva lasciato una porta aperta ad alcuni dei religiosi che in quegli anni erano usciti dai binari dell’ortodossia, operando una matura pianificazione politica in ottica di un rafforzamento della cristianità sotto l’egida della cattedra di Pietro. A Roma giunge Giacomo di Vitry per essere consacrato vescovo di Accon e ha la possibilità di parlare col nuovo papa, Onorio III, che entrerà in carica dopo alcuni giorni, essendo stato eletto rapidamente dal Conclave. Dal neo-pontefice, Giacomo ottiene, seppur solo oralmente, l’approvazione papale per quei gruppi di donne che, dalla fine del XII secolo, nella zona delle Fiandre, della Francia settentrionale e della Germania, hanno scelto di vivere cristianamente in comunità, senza dover per forza appartenere ad un ordine già esistente.
Il movimento in oggetto, che sarà definito «beghinaggio», non ha una forma unitaria, anzi, la sua origine è quantomeno duplice, con una parte proveniente dal percorso degli Ordini religiosi regolari, un’altra legata al mondo eretico o quantomeno sul labile confine con esso. La questione più singolare è la differenza in termini numerici con i paesi del Sud Europa, laddove la partecipazione femminile appare decisamente più ridimensionata e, in questi anni, non organizzata. I nomi con cui le adepte sono definite sono vari, mulieres religiosae, mulieres sanctae, bonae viduae, talvolta conoscono il latino e sono in grado di leggere le Sacre Scritture. Alcune di loro, addirittura, traducono in volgare i testi dogmatici, come nel caso di Julienne de Montcornillon, Sybille de Gages e Ida di Gorsleeuw. Una preparazione culturale per l’epoca degna dei religiosi uomini, tanto che si pongono come alleate, soprattutto all’inizio, delle nuove disposizioni da poco approvate dal Quarto Concilio lateranense del 1215, specialmente per quel che riguarda il mistero dell’Incarnazione. In casi particolari, vivranno il concetto del corpo di Cristo, reale fisico e tangibile dell’ostia, con un entusiasmo e un’avidità tali da trasformarsi in appetito spirituale soddisfatto carnalmente.
Giacomo di Vitry era stato il confessore di una beghina destinata a permanere nei libri di Storia, Maria di Oignies, una sorta di santa contemporanea che verrà utile alla causa cattolica nella lotta contro le eresie meridionali, specialmente quella catara. La stessa Maria, da come si desume dalla sua biografia scritta proprio da Giacomo, pare avesse proposto di recarsi in mezzo agli eretici albigesi per portare loro la grazia di Dio, di cui si erano dimenticati. Di lei il suo biografo dice che durante la messa sovente avverte in bocca un sapore di miele: è il desiderio di ricevere il corpo divino che trascende la fisicità, se ne serve, ma non è limitato solo ad essa, la sconquassa, la rende appagata, eppure ha una portata inimmaginabile per i profani. Maria proviene da una famiglia benestante, ben conosciuta nella zona di Liegi e viene data in sposa all’età di quattordici anni; mossa da un sentimento religioso sfociato in un misticismo prorompente, convince il marito a sciogliere il matrimonio, dona i propri averi ai poveri e si dedica alla cura e al conforto dei lebbrosi. Trasferitasi in seguito presso la casa dei canonici agostiniani di Oignies, vivrà in una cella da cui condurrà abilmente una comunità di religiose. Della religiosità delle beghine darà una definizione fortemente evocativa proprio il citato Giacomo di Vitry, quando definirà il loro approccio alla sacralità come «religione delle madri», sottolineando la potente devozione delle stesse, vere e proprie difenditrici della fede.
Maria è quella mistica che conferma il dogma della transustanziazione con le proprie visioni, quando vede sul calice dell’eucaristia il volto del Bambino Gesù. Le sue esperienze mistiche sono viaggi ove la meta è il più alto regno spirituale, sono connessioni vive e pulsanti con la dimensione divina più pura e incorruttibile; in una di esse vedrà la madre subire le pene dell’inferno per aver goduto in vita dei proventi del prestito a usura. Lo stesso Giacomo di Vitry, uomo dalla profonda erudizione e notevole esponente del clero belga, nonostante una carriera che lo porterà a raggiungere il ruolo di cardinale, vivendo buona parte della propria esistenza a Roma, chiederà di essere sepolto a Oignies, vicino alla tomba di Maria.
Il caso di Maria, che abbandona il matrimonio per concedersi unicamente a Cristo, non è isolato: le cronache riportano altri esempi di donne che hanno scelto una vita spirituale, una volta accasatesi. Tra esse, si ricordano sia beghine, sia religiose cistercensi o domenicane. Adelaide di Trochau era sposata con un uomo che entrò poi nell’ordine cistercense, mentre il marito di Adelaide di Rheinfelden divenne monaco domenicano; Reielind di Riseck si unì al convento di Unterlinden con due figlie, lasciò che altre quattro diventassero monache domenicane, mentre il marito e due figli entrarono nell’Ordine Teutonico. Spesso la moglie doveva supplicare a lungo il consorte per liberarsi del vincolo del matrimonio, come nel caso di Gisella di Umkirch, che impiegò quattro anni per convincere il marito a lasciarla andare, per farsi monaca insieme alle figlie.
Certo, non sempre la scelta di abbandonare il mondo laico e, di conseguenza, i propri averi veniva accettata dalla famiglia di origine. Lo stesso Giacomo di Vitry ci parla del caso di Ida di Nivelles, promessa sposa di un cittadino scelto dalla propria famiglia; alla morte del padre, aveva ricevuto una rispettabile eredità, eppure il desiderio di mantenere la verginità e di poter servire Cristo ebbe la meglio, convincendola a fuggire per unirsi ad una comunità di sette donne povere, dove visse sette anni, per poi entrare nel monastero cistercense di La Ramée. La scelta di dedicarsi alla vita spirituale, alla salvezza dell’anima abbandonando tutto acquista in questi anni un valore religioso, diventa una sorta di merito, non solo in quanto reazione agli ingiusti guadagni o alle ingiuste detenzioni di ricchezze, sulla falsariga del pensiero di Valdo di Lione o di Francesco, ma anche come non trascurabile ribellione contro un nascente modello economico, in cui l’ascesa sociale data dal perseguimento di obiettivi venali diventa inconciliabile con i dettami evangelici.
Il timore di perdere la verginità, a tratti quasi paranoico, è una potente palizzata spirituale contro la quale nulla può la tentazione carnale per natura insita in ogni essere umano, tantomeno la convenzione sociale, né il bisogno di riprodursi, come del resto parrebbe normale, anche solo per salvaguardare la specie. In realtà, l’effrazione del velo virginale è sentito dalle mistiche e dalle donne pie in generale come un affronto all’unico sposo per cui sono convinte di essere venute al mondo: spose di Cristo, esse sono espressione spirituale di un amore intensissimo, riposto su piani ultraterreni a cui hanno accesso, o quantomeno riferiscono di averne loro o i loro biografi, nonostante il fardello della mondanità.
Tenendo conto anche dei sentimenti millenaristici, dei moniti di uomini dalla statura culturale e spirituale elevata, uno su tutti Gioacchino da Fiore, appare evidente come la prima metà del XIII secolo diventa, perciò, un’era in cui lo spiritualismo tenta di imporsi sul materialismo: esso trattiene con protervia un sentimento avido e auto celebrante, tipico di molte epoche, al giorno d’oggi addirittura estremo e patetico, inserendosi di contro nelle coscienze dei credenti, come un grimaldello che tenti di scassinare una cassaforte, al cui interno stia un cuore pulsante a fatica, bisognoso di nutrimento, ostaggio di un ambiente in cui contraddizione e falsità si moltiplicano con una fertilità degna della peggior erba cattiva.
Certo, è necessario come sempre quando si compie un’analisi storica, tentare di delineare il quadro sociale e gli effetti su di esso delle novità, dei movimenti ufficiali, come degli spifferi dell’uomo della strada, laddove sia possibile indagare. Un primo punto di partenza degno di nota riguarda l’etimologia e il significato del termine «beghina». Tenendo in considerazione le definizioni usate per delineare il movimento altrove, quali «papalarda» in Francia, «coquenunne» in Germania, «humiliata» in Lombardia e «bizoke» in Italia, è piuttosto probabile che esso derivi dal verbo béguer, «balbettare» nel francese medievale, legato alla radice indoeuropea begg che significa «biascicare preghiere (o parole)». Tale ipotesi è rafforzata dal fatto che la definizione «papalarda» deriva dall’olandese medio popelen e sta ad indicare l’atto di mormorare. Un proposta da tenere in considerazione, non accettata tuttavia da parte degli addetti ai lavori, è quella di Joseph Greven, che vede nella parola «beghina» una degenerazione del termine «albigenses», connotandosi perciò di un alone eretico che in qualche modo potrebbe, almeno in origine, aver avuto un valore condiviso. Ciò che importa è che nei primi anni di cui abbiamo testimonianza, la definizione è usata con un’accezione negativa, in qualche modo legata al concetto di eresia, poi, dopo il 1215, la situazione cambia e viene a mancare la connotazione infamante, anche se non mancheranno i detrattori.
Se per Roberto Grossatesta lo stile di vita delle beghine, poiché unito al concetto di povertà e privo dell’elemento del mendicare, è la più alta espressione della cristianità, o per Roberto di Sorbon di fronte al giudizio divino sono più degne dei teologi e dei dotti, per Guglielmo di Saint Amour esse rappresentano un pericolo. Il motivo è presto detto: così distanti dalla classificazione degli Ordini, anche di quelli mendicanti di cui era uno strenuo difensore, gli appaiono come mine vaganti, religiose senza un abito particolare, senza un taglio di capelli che le contraddistingua, insomma laiche che ai suoi occhi paiono attirarsi la scomunica. Guglielmo riporta che esse al suo tempo vivevano di elemosina pur essendo in età da lavoro ed erano troppo a contatto con i Domenicani, sfuggendo così alla cura spirituale dei prelati; inoltre, la giovane età di molte di loro era sospetta, soprattutto riguardo alla capacità di mantenere il voto di castità, dato lo stile di vita decisamente meno claustrale rispetto a quello delle monache. Le accuse di Guglielmo sono da tenere in considerazione, in quanto testimoniano un cambiamento nel movimento, già di per sé eterogeneo. Dai piccoli gruppi riunitisi nella zona delle Fiandre sul finire del XII secolo, è passata parecchia acqua sotto i ponti, la metà del XIII secolo ha assistito a cambiamenti nella cristianità di notevole spessore e il caso del beghinaggio, con le sue numerose ramificazioni e differenze non si è sottratto al processo di evoluzione.
Alcuni poeti francesi di metà secolo, tra cui Rotebeuf, ma anche Gautier de Coincy, di poco precedente, per quanto poco attendibili nelle loro satire, per via dei toni partigiani, tuttavia fanno luce sul sentimento comune che aleggia in quegli anni attorno al movimento. Sospetti di incoerenza nei comportamenti, di scarso attaccamento alla dottrina cristiana, specialmente riguardo al rispetto della castità. Dobbiamo, ad ogni modo, immaginare la loro vita all’interno di una società in cui esistevano privilegi gerarchici e di genere, tanto che lo stesso papa Gregorio IX nel 1235 era stato interpellato dalle stesse e aveva disposto che vescovi e canonici le proteggessero dai frequenti abusi perpetrati ai loro danni da quei gruppi di monaci, laici e chierici che gravitavano loro intorno.
Furono attuate disposizioni per tentare di evitare che le beghine non rispettassero il voto di castità, come durante il sinodo di Fritzlar, quando fu dichiarato che per aderire al movimento sarebbe stata necessaria un’età minima di quarant’anni. Ovviamente, nella fitta trama di comunità diverse tra loro, far rispettare un tale divieto risultò impossibile, anche perché le beghine si univano più volentieri agli Ordini mendicanti dei Francescani e dei Domenicani, sottraendosi così alla cura spirituale del clero parrocchiale. Durante il concilio di Lione del 1274, fu analizzata la situazione del beghinaggio, con dossier stilati da Francescani, da Domenicani e da religiosi curiali. Furono osservati abusi da parte delle adepte, fu considerato pericoloso il carattere ibrido del movimento, a metà strada tra religioso e laico, possibile foriero di eresie, soprattutto perché spesso le donne in oggetto si servivano di traduzioni in volgare delle Sacre Scritture; spuntarono testimonianze di chi le considerava protagoniste di eventi eccezionali, tra cui portare sul proprio corpo le stimmate di Cristo, come circolava voce riguardo Elisabetta di Erkenrodt; l’episodio in sé non è nemmeno isolato, se si pensa ad altre beghine che avrebbero vissuto la medesima esperienza, come Ida di Lovanio o Cristina di Stommeln. Con il Concilio di Vienna degli anni 1311-1312, il Decretum Ad Nostrum sancirà il divieto della condizione di beghina e con esso disporrà relative punizioni. Un paio di anni prima, la beghina Marguerite Porète era stata bruciata sul rogo a Parigi, in Place de Grève.
Lo stesso re Luigi IX, passato alla storia come santo, fondò una casa di beghine a Parigi e sappiamo da Goffredo di Beaulieu, autore della Vita Ludovici, che aveva predisposto una rendita per quelle religiose provenienti dalla nobiltà decaduta, o povera. La provenienza da famiglie rispettabili, benestanti, quando non addirittura ornate di titoli nobiliari, è senza dubbio una caratteristica non trascurabile del movimento religioso femminile del XIII secolo, pur tenendo presenti le differenze tra appartenenti a Ordini religiosi veri e propri e persone che vivevano in comunità autonome. Si ricordano le beghine provenzali, guidate da Douceline de Digne intorno alla metà del secolo e la maggioranza delle comunità della Germania meridionale: i documenti abbondano, spesso si parla di donne nobili dotate di possedimenti di un certo prestigio, e altrettanto sovente, quando non si citi la casta di provenienza, i cronisti pongono l’accento sulle ricchezze familiari. Oetarbach, presso Zurigo, S. Getrude a Colonia, ma anche nei conventi domenicani di Strasburgo: pare che il sentimento pauperistico si sia propagato come un’onda, al giorno d’oggi, forse sbagliando parleremmo di moda, una tendenza tuttavia tutta in salita, fatta di penitenze, di preghiere e di rinunce al benessere mondano.
L’elemento che forse maggiormente va preso in considerazione per comprendere, o tentare di farlo, la mentalità del tempo è che sia le donne, sia gli uomini, rinunciando alla ricchezza non chiedono ad altri che sia seguito il loro esempio; in altri termini, i Valdesi come le Beghine o i Francescani della prima ora come le suore spose di Cristo rinunciano alle proprie ricchezze, senza preoccuparsi delle altrui. Insomma, chi si avvicinasse all’argomento credendo che in questi movimenti e in queste decisioni drastiche possa nascondersi una ribellione verso il ricco o una critica politica alla società, sbaglierebbe, poiché il tutto parte da quei ceti che già possiedono, sia in termini materiali, sia di prestigio. È un volersi proporre nella società restandone al di fuori, sapendo bene quanto scalpore tali scelte avrebbero generato nella moltitudine delle persone e dei fedeli in genere. Originariamente, il malcostume del clero ha svolto sicuramente la funzione di innescare critiche e moti di rifiuto, tanto più considerando il contenuto delle Scritture, evidentemente non introiettato dagli uomini consacrati; il consolidamento di un’economia di tipo mercantilistico, proto capitalistica, poi ha fertilizzato le idee, così come è riscontrabile dal fatto che la maggior parte dei movimenti pauperistici si siano propagati dapprima proprio nelle zone più investite da quel tipo di benessere, come il Belgio, la Lombardia e la Francia meridionale.
Una delle più celebri beghine è certamente Matilde di Magdeburgo, la quale visse per una quarantina di anni in una comunità di donne religiose, esaltando nei propri scritti le peculiarità spirituali del movimento, pur manifestando una certa preoccupazione per la degenerazione in cui sarebbe potuto incappare, rischiando di scivolare in comportamenti non degni della cristianità. Insieme alla citata Marie di Oignies, a Beatrice di Nazareth, a Hadewijch di Brabante, a Ida di Lovanio ed altre, Matilde fa parte di quel gruppo di beghine che vivono un misticismo dirompente; se Matilde ha un rapporto con Cristo carnale, dichiara di nutrirsi di lui, di berlo, di trattenerlo tra le braccia, Ida di Lovanio nell’atto di ricevere la comunione avverte su di sé il contatto con gli abiti sacri, si sente vestita di paramenti sacerdotali, in una dimensione estatica.
Il misticismo femminile si intreccia con gruppi riconosciuti e non, come per Margherita da Cortona, appartenente al Terz’Ordine francescano, la quale era in grado di riconoscere un’ostia consacrata da una sconsacrata con il solo olfatto. L’appetito spirituale erompe in esperienze differenti: se Margherita ha il permesso di mangiare l’ostia una volta al mese dal suo confessore, anelando almeno una consumazione con cadenza settimanale, Chiara da Rimini, dall’aspetto spesso moribondo, pare ottenere vigore alla vista di un’ostia consacrata. Un’estasi abbatte Beatrice di Nazareth ogni volta che le viene somministrata la Comunione, facendola cadere in un sonno letargico che dura ore. Il pane e il vino che la donna consuma con il sacramento, tre volte a settimana, come un appartenente al clero maschile, la spinge a vivere l’esperienza in termini generativi. Il sangue di Cristo entra nel suo corpo sotto forma di vino e si tramuta in una sorta di sperma mistico, che la gonfia al punto da farle percepire di essere stata ingravidata.
Il disprezzo del cibo è un tema piuttosto diffuso tra le mistiche di quest’epoca. La privazione di alimenti esalta la spiritualità delle religiose, così come l’ingerimento del corpo di Cristo le nutre come se non avessero bisogno d’altro. Nella zona del Norfolk, vive una certa Giovanna Senzacarne, una giovane che non ha mangiato alcunché per quindici anni, cibandosi esclusivamente dell’ostia domenicale.
Il rapporto carnale con Cristo è legato anche alla festa del Santissimo Sacramento, istituita nel 1264, il cosiddetto Corpus Domini, che disponeva di mettere l’ostensorio con all’interno l’ostia in vista a disposizione dei fedeli; interessante notare come già all’inizio del XII secolo sull’ostia stessa viene impresso il volto di Cristo al posto del monogramma tradizionale.
In Italia la vicenda di Angela da Foligno è, forse, la più degna di citazione: nella sua bocca l’ostia ha un sapore di carne, non della carne comunemente consumata sulle mense, ma particolare, molto saporita, scende soavemente nell’esofago, tanto che la religiosa afferma che se potesse la tratterrebbe a lungo in bocca. Giunta nello stomaco, essa le provoca una sensazione di piacere che la scuote, facendola tremare con decisa veemenza. Angela è quella mistica che vive una vera e propria beatitudine, un’esperienza che la muta intieramente, consentendole di cogliere lo stato mistico della suprema libertà, in un connubio dell’anima con Dio, rendendola protagonista di un processo spirituale che non ha bisogno di alcuna mediazione ecclesiastica.
Il misticismo femminile legato al beghinaggio in particolare attraversa il XIII secolo offrendo esempi di autodeterminazione spirituale, per quanto di differente portata, che non possono lasciare indifferenti le gerarchie ecclesiastiche, tanto che, come si è visto in precedenza, almeno due episodi, durante la parabola finale del movimento, sono degni di nota per comprenderne l’ampiezza degli effetti, il divieto della condizione di beghinaggio stabilito nel 1311-12 dal Concilio di Vienna e il rogo della beghina Marguerite Porète nel 1310.


Nell'immagine, la Beata Ida di Lovanio.


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Documento inserito il: 21/10/2025
  • TAG: beghine, misticismo femminile, Ordini mendicanti, Corpus Domini, castità, clausura

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