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Le eresie medievali e l'età dello Spirito Santo

di Francesco Servetto


Certe idee appaiono e scompaiono dal palcoscenico della storia, lasciando tracce che si amalgamano con altre decisamente fuori tema, come cuciture interne di un abito: nessuno può notarle, tantomeno sospettarne l’esistenza, eppure, talvolta qualcuno o qualcosa rivolta la veste e, con mani di sarto, ritaglia quei lembi dimenticati per applicarli altrove, donando loro nuova vita.
Presso Cosenza, nel paesino di Celico, intorno al 1132 nasce Giovanni dei Gioachino, più tardi ricordato come Gioacchino da Fiore. Figlio di un nobile normanno, la sua formazione avviene nel campo del diritto e delle lettere; entrato a far parte della curia reale, durante un pellegrinaggio in Terrasanta, turbato da una pestilenza a Costantinopoli, decide di cambiare vita e dedicarsi alla penitenza, manifestando notevoli tendenze all’ascetismo. Giunge a Gerusalemme e decide di ritirarsi per quaranta giorni digiunando in una grotta sul monte Thabor, seguendo l’antico costume dei Padri del deserto dei primi secoli dell’era cristiana. Qui ha una visione: un vero e proprio piano profetico. Sappiamo grazie ai moderni studi sulla fisiologia umana come la privazione di alimenti contribuisca a generare nella mente stati di coscienza differenti rispetto a quelli semplicemente meditativi. Frate Gioacchino pare aver il fisique du rôle per avvicinarsi e comprendere qualcosa di ineffabile, la dimensione spirituale più alta. Al suo ritorno in patria diventa predicatore, dopo un’analoga esperienza eremitica sui monti calabresi e un breve soggiorno, come fratello laico con mansioni di portinaio, nel monastero cisterciense di Sanbucina. La sua esistenza è segnata dai rapporti turbolenti con le alte sfere ecclesiastiche: è costretto a prendere i voti una prima volta, poi viene eletto abate dell’abbazia di Corazo, ma non riesce a sopportare un incarico che appare una distrazione dal suo reale intento, da ciò per cui si sente portato. Chiede al papa di essere esonerato dagli obblighi legati al ruolo, quindi si ritira nel deserto di Pietralata. Anche qui non riesce a trovare pace, tanto che decide di ritirarsi sui monti della Sila, ove fonda un eremo e lo consacra a San Giovanni in Fiore e, con esso, fonda un proprio ordine religioso, che sarà approvato nel 1196 da papa Celestino III, denominato Florense.
Gli oggetti principali delle sue prediche sono l’amore di Cristo e la critica al decadimento morale della Chiesa contemporanea. Tra le sue opere, il Tractatus super quattuor Evangelia appoggia il metodo esegetico allegorico della storia di Sant’Agostino, applicandolo ad una propria teologia, che si può definire storicista, che propone l’individuazione di tre Età corrispondenti alle tre persone della Trinità. Il Vecchio Testamento è il periodo dell’Età del Padre, in cui l’umanità viveva sotto il dominio della legge, con l’avvento di Cristo si ha la seconda Età, quella del Figlio, in cui l’uomo è sottoposto al dominio della Grazia; la terza Età, quello dello Spirito, secondo il frate calabrese in procinto di manifestarsi ai suoi giorni, è sottoposta ad un’«ampia e generosa grazia: il primo stato visse di conoscenza; il secondo si svolse nel potere della sapienza; il terzo si effonderà nella pienezza dell’intelligenza». Se nella prima Età l’uomo si trova in situazione di servitù, nella seconda essa diventa di tipo filiale, ma nella terza finalmente trionferà la libertà. È un’era in cui, servendosi di una metafora agreste, Gioacchino afferma che si raccoglieranno i frutti; è quell’Età che si unisce allo Spirito, quello spirito che, parafrasando le Scritture, fa dire all’Apostolo Paolo «dove è lo Spirito del Signore, ivi è libertà». Inoltre, propone un’individuazione di diverse categorie umane, che definisce non a caso ordini: quello dei coniugati appartiene al Padre, quello dei predicatori al Figlio e quello dei monaci allo Spirito Santo.
Le sue parole sono particolarmente sentite dal popolo, tanto che le sue profezie paiono avere un fondamento e una realizzazione: si pensi all’idea di un mondo cattolico stravolto e ricomposto dalla nascita degli ordini mendicanti, come del resto la storia può testimoniare riguardo ai francescani e ai domenicani protagonisti del XIII secolo, ma anche la profezia dell’avvento del Vangelo eterno che, con le sue radici spirituali, si manifesterà nei cambiamenti profondi nel mondo cattolico, in qualche modo dimostrando le parole gioachimite sulla liberazione dello spirito, non più appannaggio delle sole gerarchie ecclesiastiche. L’Età dello Spirito, in ottica gioachimita, rivela, infatti, un’idea di completa libertà spirituale nel mondo terreno, a differenza della proposta agostiniana secondo cui essa avverrebbe solo in un mondo ultraterreno.
Quando Gioacchino da Fiore muore, è appena iniziato il XIII secolo. Da poco, sono comparsi sulla scena i primi ordini mendicanti, spesso autoproclamatisi tali e ancora più spesso in contrasto con l’idea di potere delle gerarchie ecclesiastiche. Il pauperismo di correnti eretiche o sul labile confine dell’ortodossia, come gli Umiliati lombardi o i Valdesi, si scontra caparbiamente con la necessità evidente di possesso materiale da parte di chiunque debba amministrare una forma di controllo e di potere, quand’anche si tratti di un qualcosa di prettamente spirituale. Già nella prima metà del XII secolo, è necessario notare, i germi della critica all’incoerenza materialistica del clero avevano dato notevoli risultati: il caso degli Arnaldisti, seguaci del canonico agostiniano Arnaldo da Brescia, è emblematico. Punito per le sue posizioni, recatosi in pellegrinaggio di penitenza a Roma su consiglio del papa Eugenio III, il predicatore si rende pericoloso nella città eterna stessa, sostenendo l’austerità dei costumi e criticando l’attaccamento ai beni materiali delle alte sfere ecclesiastiche. I suoi sermoni riscuotono un tale successo, da richiamare attorno a sé l’entusiasmo popolare e dello stesso comune di Roma, recentemente indirizzato, con la renovatio senatus, a intraprendere la strada dell’autonomia rispetto al papato. Il pericolo di rivolte è vivo, il rischio di sovvertimento sociale spinge, perciò, il Comune a ridimensionare l’appoggio ad Arnaldo. Roma deve restare, nell’ottica degli amministratori laici, un punto di riferimento, ovviamente economico, per i pellegrini, e la stessa tensione con la Chiesa non deve portare ad uno stravolgimento: fuggitivo, Arnaldo viene catturato a san Quirino d’Orcia dopo la condanna papale e termina la propria esistenza sul rogo. Andando a ritroso, critiche contro il materialismo ecclesiastico e l’attaccamento al potere temporale appaiono in Italia addirittura nell’XI secolo, quando le accuse dal diacono Arialdo nella zona del milanese suscitano l’entusiasmo dei ceti popolari e persino di alcuni appartenenti al clero: dalla parte avversa i seguaci sono definiti «patarini», un termine dispregiativo il cui significato potrebbe essere quello di «straccivendoli». In Toscana, nello stesso periodo analogo il caso dei monaci vallombrosiani.
L’abbandono dei propri averi, come avverrà per Francesco d’Assisi, comporta una sorta di perdita di protezione, per quanto non spirituale, da parte di chi, da ormai milleduecento anni, si propone come successore della cattedra di Pietro, come vicario di Cristo. Le innumerevoli vicissitudini dei primi secoli dell’era cristiana, risoltesi con concili in cui a tavolino furono stabiliti quali testi ritenere canonici e quali apocrifi, paiono ripresentarsi al tramonto del XII secolo e rinfocolarsi durante il successivo, tanto che gli interventi papali sono indirizzati e a cuciture con gli eretici e a punizioni e allontanamento degli stessi. Si pensi alla tragica crociata contro i Catari, anch’essi critici con la morale religiosa e sostenitori della povertà evangelica; nella Linguadoca, per ordine di Innocenzo III, col pretesto dell’uccisione del legato pontificio Pietro di Castelnau nel 1208, Simone di Montfort guida lo sterminio sistematico di una stirpe, senza di distinzione di età né di sesso: la follia e la pretesa di verità tipica delle religioni abramitiche si dimostra, purtroppo, una dannata metastasi fuori dal tempo, palesemente autoreferenziale, fuori dalle regole dell’umanità e pare nutrirsi di pretesti, vigliaccamente, per manifestarsi. Nei movimenti eretici coevi, va inoltre notato come l’elemento della predicazione, così sentito e così diffuso, vada a braccetto con il rifiuto dei sacramenti e, talvolta, con la pretesa di sostituirsi nell’opera pastorale da parte di individui non ordinati.
Nel 1210 a Parigi è individuato un movimento ereticale facente capo alle dottrine del filosofo e teologo Amalrico di Bena, già criticate dalla facoltà di teologia di Parigi. Per quanto sia complicato ricostruire esattamente l’oggetto della questione teologica, infatti gli elementi documentali giunti fino a noi sono incompleti, si può affermare che una parte, almeno, della disputa dottrinaria si rifacesse all’idea secondo cui ogni cristiano apparterrebbe al corpo di Cristo; in Paolo è, infatti, affermato Membra sumus corporis Christi. Un importante punto della proposta amalriciana verte sulle corrispondenze con le dottrine filosofiche del neoplatonico Giovanni Scoto Eriugena, un erudito di origine irlandese morto intorno all’877, appartenente alla corte carolingia di Carlo il Calvo intorno agli anni’40 e ’50 circa del IX secolo. Nel suo De Divisione Naturae, è proposta una dottrina filosofico-religiosa scritta in forma dialogica, in cui sono poste questioni legate al problema della conciliabilità tra religione e fede. Il pensiero del filosofo carolingio è a sua volta imbevuto delle teorie neoplatoniche dello Pseudo Dionigi l’Aeropagita, un pensatore morto intorno al 510, che proponeva un sistema cosmico secondo cui ogni essere promana da Dio e a lui ritorna.
L’influenza delle idee di Gioacchino da Fiore paiono evidenti sul gruppo di eretici amalriciani, anche se non sussistono prove dirette che ne certifichino l’impronta; l’idea di una terza Età, quella dello Spirito Santo, è forte e presente nel movimento ereticale parigino. Essa si unisce, inoltre, alla convinzione serpeggiante nella società del tempo secondo cui da lì a poco sarebbe avvenuto un cambiamento epocale, durante il quale ogni convinzione, così come ogni presunzione di possesso di verità, sarebbero stati spazzati via dalla vera conoscenza, il massimo grado della rivelazione. Gli appartenenti all’ideologia amalriciana furono dapprima quattordici chierici, poi essa si diffuse anche tra altri strati della popolazione, come ci riporta il cronista Cesario di Heisterbach. Sappiamo di una missione da parte di Rodolfo di Namur e del suo accompagnatore che si sarebbero introdotti, oggi diremmo sotto copertura, in ambienti amalriciani per studiarne gli effetti e per controllarne la portata. Per mesi essi si unirono ai membri della setta tra Parigi, Troyes, Sens e Langres; Guilelmus Brito, un altro cronista dell’epoca, riporta che tra gli eretici si trovavano anche laici e donne, testimoniando, inoltre, che il sinodo parigino del 1210 aveva condannato solo i chierici, probabilmente perché i seguaci e le adepte sarebbero stati considerati ingenui, raggirati per la loro scarsa capacità di discernere l’ortodossia dalle proposte etero-direzionate.
Sicuramente tali idee furono propagate all’interno del movimento religioso femminile, riscuotendo un certo successo, soprattutto tra le Beghine tedesche. Molte donne tra cui parecchie vedove, così come è scritto negli annali del monastero cisterciense di Mailros in Scozia, avrebbero ricevuto in casa propria chierici che si sarebbero approfittati della loro creduloneria proponendo false interpretazioni delle Scritture. L’essere uomini di chiesa, e non semplici credenti come nella maggior parte delle eresie coeve o di poco anteriori, è un elemento non trascurabile. La conoscenza della dottrina era innegabile e la differenza sostanziale era dovuta a un’interpretazione delle Scritture, ma lo stile di vita di costoro era altresì al centro delle critiche della parte avversa. Si parlava di loro come di uomini estremamente pii, dediti ad un’esistenza di sacrifici, coerenti con l’idea di vita religiosa secondo le indicazioni testamentarie. Erano chiamati «Papelardi», una definizione molto probabilmente dispregiativa, quantomeno carica di ironia. Il significato non è tutt’oggi chiaro e il termine è utilizzato, per quanto è dato sapere dai documenti sopravvissuti, per la prima volta nel citato annuario di Mailros. Sarà declinato al femminile per designare in Francia quelle donne che altrove sono chiamate Beghine (Belgio e Fiandre), Umiliate (Lombardia) e Pinzochere (Italia).
L’ispiratore della dottrina, Amalrico, è una figura piuttosto sfuggente, oscura per via delle scarse notizie a nostra disposizione, tanto che anche le influenze che avrebbe subito dal pensiero di Giovanni Scoto Eriugena o le distorsioni, se non i fraintendimenti dello stesso sono desumibili parzialmente: i cronisti Enrico di Ostia e Martinus Polonus riportano semplici citazioni letterali e nulla più del testo De Divisione Naturae del filosofo carolingio. Ciò che si riesce a desumere è una corrispondenza nell’intento amalriciano con il pensiero aristotelico riguardo la filosofia della natura e i relativi commenti arabi, da poco disponibili in Francia; a riprova di ciò, la notizia della disposizione del citato sinodo parigino del 1210 del divieto di lettura dei libri aristotelici sulla natura e dei relativi commenti. Un elemento che aiuta a far luce sul caso degli amalriciani, ancora avvolto dalle nebbie della storia, parzialmente svelato, è l’appoggio del panteismo, l’identità tra Dio e ogni essere. Strali neoplatonici colpiscono lo studioso ed emerge la filosofia platonica dell’identità.
I condannati nel processo parigino del 1210 vivono la filosofia di Amalrico con tale entusiasmo da uscire dagli argini: appoggiano idee non amalriciane, la più importante delle quali ha evidenti basi gioachimite. Anch’essi, infatti, sono convinti di vivere i primi stadi della Terza Età, quell’Era dello Spirito Santo in cui avverrebbe uno sconvolgimento tale da privare di valore qualsiasi azione, pensiero o gesto, che lascerebbero il posto alla vera conoscenza, rivelata dallo Spirito Santo. La fede e la speranza devono lasciare il passo al sapere e alla conoscenza, una conoscenza interiore e individuale rivelata dallo Spirito Santo stesso, che si incarnerebbe in ogni devoto. Non esiste il paradiso come regno ultraterreno, premio per i giusti, ma sapere è il paradiso stesso, è una risurrezione a tutti gli effetti, e il non-sapere è l’inferno.
In Giovanni Scoto Eriugena è sostenuto il concetto per cui paradiso e inferno non sono altro che stati di coscienza, come la resurrezione e il giudizio e, benché evidenti appaiano le coincidenze, a livello speculativo il suo è un ragionamento prettamente filosofico, nel quale l’intento è dimostrare l’identità tra filosofia e religione. Scivolosi argomenti, come spesso accade: l’interpretazione aggiunge o toglie, migliora o peggiora; ad ogni modo, il pericolo per la dottrina ufficiale non è di poco conto. Per essa, infatti, fine ultimo dell’uomo è raggiungere la vita nell’aldilà e la ragione stessa è insufficiente per competere con la spiritualità e l’efficacia dei sacramenti. Riporre fiducia estrema nella conoscenza produce un crollo a cascata delle istituzioni dogmatiche: il culto dei santi diventa inutile, i sacramenti pleonastici, l’adorazione di reliquie e delle icone pura superstizione. La cordata al contrario degli eretici li avvicina ad un precipizio ideologico, in cui se tutti sono membri del corpo di Cristo, del tutto, quindi di Dio, allora ognuno è incarnazione divina, come lo fu a suo tempo Gesù.
L’identità tra filosofia e religione, derivante dal pensiero di Eriugena, sfugge di mano, anche perché non è la stessa cosa maneggiare l’una o l’altra. Il peccato, come suggerito dal dotto carolingio, assume una connotazione del tutto diversa dalle disposizioni dogmatiche ufficiali: come emerge dalla concezione neoplatonica e ottimistica, esso, come il male, non è da considerare esistente, poiché non è stato creato da Dio. In Eriugena, però, il discorso è profondo, connesso alla necessità di dimostrare la veridicità del pensiero agostiniano riguardo e il male e il peccato; non vuole negare l’esistenza del peccato, ma distruggerlo ontologicamente in quanto considerato assenza dell’essere vero e ideale.
Gli eretici parigini prenderanno un’altra direzione. Giungeranno a negare l’esistenza del peccato, affermando che nessuno può essere punito da Dio per esso, e, perciò, non valgono le condanne ad esso relative. In altri termini, essendo l’uomo parte di Dio e dell’essere, ed essendo il peccato non esistente perché non emanato da Dio, l’uomo non è in grado di compiere peccato. Seguendo le parole di San Paolo «Dio determina tutto in tutti», essi si fanno promotori di un panteismo in cui Dio è causa di ogni evento o azione e l’uomo non è perciò responsabile dei propri peccati, né ha una volontà che lo sostenga nell’azione peccaminosa. La morale è destinata a cambiare, compresa quella sessuale. La società del tempo era permeata da un contrasto innegabile tra morale religiosa ed effettivi comportamenti delle persone, appartenenti al clero inclusi. L’idea degli eretici parigini, a questo punto, pare un tentativo, piuttosto forte, di superare con coerenza questa inconciliabilità tra costumi propagandati e concreti comportamenti, e se le critiche coeve furono aspre, sembrerebbe che tra i movimenti femminili la proposta fosse considerata secondo un’altra ottica, decisamente più favorevole. I tempi, infatti, sono caratterizzati da una spinta mistica molto sentita tra l’elemento femminile della società. Gli eretici parigini, tuttavia, limitatamente ai soli chierici coinvolti, furono condannati alcuni al rogo, altri all’ergastolo e le stesse dottrine amalriciane dichiarate inaccettabili dal concilio lateranense del 1215.
Sul finire dello stesso secolo, apparve un’altra ideologia con punti di contatto con quella amalriciana. Grazie agli Annali dei Domenicani di Colmar, sappiamo che intorno al 1270, nella zona del Ries svevo, giunsero due uomini religiosi con la cappa rossa, Arnold e Tietmar, che predicavano una dottrina contraria ai principi del cattolicesimo. Tre anni dopo, fu ricomposta una disputa tra Francescani e Domenicani, riguardo proprio l’eresia del Ries. Ne parla anche Alberto Magno, nella Determinatio, un testo in cui espone le proprie idee riguardo ad alcune affermazioni di carattere ereticale. Le notizie sono poche, tuttavia, l’elemento della tonaca rossa lascia intendere come i due non appartenessero ad alcun ordine; inoltre, il giudizio sul colore dell’abito tra i contemporanei non trova l’unanimità, in quanto per alcuni è considerato indegno, irrispettoso del ruolo, per altri è espressione di un ordine che in futuro sorgerà, con proprie idee innovative. Si trattava certamente di predicatori vaganti, non autorizzati, che si erano trovati ad operare in una zona strategica all’epoca, in quanto territorio attraverso cui passava l’antica strada del Brennero che univa Italia e Germania, e che si incontrava con un’altra strada romana proveniente dalla Francia, transitante per la Baviera e diretta verso l’Europa orientale. I documenti a disposizione raccontano di una forte partecipazione femminile, soprattutto da un punto di vista mistico. Esperienze dai contorni forti, narrano di eventi in cui le religiose affermano di essere state possedute fisicamente da Cristo, secondo un’unione erotica che contempla anima e corpo, in un vero e proprio connubium spirituale. Non si tratta di una novità assoluta: una su tutte, Matilde di Magdeburgo, che prova su di sé un amore reale, in cui Dio le si avvicina, «vuole accostarsi all’anima amorosa-voluttuosa nel talamo poverello… per tutta carezzarla e cingerla con le sue nude braccia». Sembra non ci siano spazi per fraintendimenti, per interpretazioni allegoriche. È un rapporto vero, carnale, un’esperienza mistica che sconquassa il corpo, rapisce la psiche e la guida verso un fervore mistico di inarrestabile vigore.
Adelaide di Breisach vive una mezza giornata di estasi, unendosi a Dio, mentre Adelaide Langmann è avvolta dall’abbraccio del Signore, sente il proprio petto aderire al petto divino, «come fa la cera con lo stampo». Un’altra donna afferma di aver allattato Gesù, personificando la figura mariana, vivendo un’esperienza di divinizzazione tanto intensa, quanto pericolosa per la dottrina ufficiale, a meno che essa non avvenga per gratiam. Il concetto di deificatio è presente anche nel pensiero di Matilde di Magdeburgo, donna non appartenente all’eresia del Ries, eppure misticamente non così lontana dalle esperienze spirituali femminili considerate eretiche. Per lei, accusata di essersi allontanata dal dogma della grazia, è tuttavia possibile difendersi dalle accuse, anche perché si affida alla cura spirituale dei Domenicani.
L’eresia del Ries è ancora avvolta nel mistero, le affermazioni su di essa sono possibili grazie a citazioni di cronisti, la maggior parte delle volte incomplete. Per Alberto Magno, ad esempio, esisterebbe un substrato manicheo, in quanto ritiene che alcune delle affermazioni della corrente sveva siano tali. Se si guarda ad altre correnti religiose, spuntano punti di contatto, come quelli con i Catari; con essi, gli eretici del Ries condividono la tesi secondo cui Cristo non avrebbe provato sofferenza durante la passione, non avrebbe subito alcuna ferita, oltre ad alcune constatazioni sulla cacciata degli angeli. Come i Catari, ma anche come gli Amalriciani, essi non ritengono plausibile l’esistenza dell’inferno e del purgatorio, considerano angeli e demoni come incarnazioni delle virtù e dei vizi umani, per l’anima diventa impossibile parlare di resurrezione, così come non si può considerare vera la stessa resurrezione di Cristo. Per gli eretici del Ries è corretto parlare di un insieme di persone, difficilmente definibile come setta, che propugnava idee panteistiche al punto da spingersi sino all’indifferenza morale, ma non a sostenere la divinizzazione dell’anima. Il fatto, poi, che valutassero attentamente la portata dello spirito sull’uomo, ha convinto avversari e studiosi che si trattasse di un gruppo di eretici definibile come del «nuovo spirito», ma ciò è un’imprecisione, poiché non parlano mai di incarnazione dello Spirito Santo, tantomeno dell’avvento di una Terza Era dello Spirito.
Tentando di plasmare un contorno il più preciso possibile, si può affermare che gli appartenenti all’eresia del Ries da una parte sostenevano tesi già esistenti, soprattutto in comune con gli eretici parigini del 1210, dall’altra erano legati all’idea di divinizzazione propria dei movimenti religiosi femminili. Un punto che pare mettere d’accordo la critica è quella che vede la coincidenza dell’uomo perfetto e buono con Dio, con pericolose perdite di equilibrio dottrinario, in quanto si rende possibile la svalutazione dell’esperienza di Cristo e non solo: anche l’eucarestia non ha più valore, poiché il sangue di Cristo ha la stessa dignità di quello umano, e la stessa capacità di ricevere Dio, di unirsi a lui aumenta la convinzione che l’ostia non debba avere maggiore considerazione. Persino la citata Matilde di Magdeburgo affermerà che «ogni singolo uomo deve essere in sé medesimo un Cristo».
Come per gli eretici parigini, anche per quelli del Ries il lavoro manuale perde di significato, la vita va consacrata interamente alla preghiera e l’uomo unito a Dio è totalmente indifferente alle manifestazioni mondane, si abbandona alla sua volontà.


Nell'immagine, il dipinto di Pedro Berruguete Rogo dei libri degli eretici.


Bibliografia

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Documento inserito il: 20/09/2025
  • TAG: misticismo, eresia, millenarismo, amalriciani, Gioacchino da Fiore, misticismo femminile, pauperismo, sacramenti, anima

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