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Clodoveo, i Merovingi e Gregorio di Tours: il Regno dei Franchi tra storia e leggende

di Davide Arecco


Le notti merovinge nella storia francese ed europea dell’Alto Medioevo

Derivanti dal nome di Meroveo (leggendario capostipite della famiglia), i Merovingi furono la prima dinastia del Regno dei Franchi. Le loro origini storiche restano e oscure e incerte, da sempre avvolte nelle brume del mito. In effetti, le vicende dei primi personaggi della dinastia sono, in larga parte, leggendarie. Le buie notti alto-medievali furono, nondimeno, rischiarate da una storia, quella merovingia, ancora oggi intrisa dal loro fascino oscuro, nel Regno dei Franchi e nella stessa Europa occidentale.
Stando alla grande cronaca di Francia di Gregorio di Tours, il primo Re franco fu Faramondo, figlio del Duca Marcomero. Salito al trono nel 420, suddivise la popolazione in due metà e alla testa dei Franchi Salii, stanziati, in origine, tra la valle del basso Reno e il Mare del Nord, si stabilì presso le odierne terre francesi, mentre i Franchi renani restarono in territorio tedesco, nell’area di Colonia, l’attuale regione tedesca della Westfalia settentrionale. Alla morte di Faramondo, nel 428, suo figlio Clodione tentò prima di avvicinarsi all’Impero romano (benché avversato dalla frangia germanica e ‘nazionalista’ della sua gente, orgogliosa delle proprie origini, barbare e tedesche), quindi organizzò scorrerie in Gallia e Turingia, impadronendosi per un certo periodo di Tournai e Cambrai. Clodione, quindi, scese a patti con l’Impero. Un foedus, che gli permise di installarsi nei territori interni dello stesso Impero, presidiandone i confini. Alla scomparsa di Clodione nel 448 il successore Meroveo – figura attorno alla quale fiorirono varie leggende, che andarono a caratterizzare anche la storiografia alto-medievale sui Merovingi – prese parte alla Battaglia dei Campi Catalaunici (451). Sotto di lui il Regno merovingio si stabilì nella Francia del Nord. A Meroveo successe il figlio Childerico I (457), nemico degli Unni, e avversato dai nobili della sua corte. Dopo un soggiorno nel Regno dei Turingi, ritornò in Gallia e combatté i Visigoti, che erano entrati nella Francia meridionale e minacciavano la città di Orléans. Nel 468 sconfisse inoltre i Sassoni alle porte di Angers ed i Romani a Soissons, per conquistare, anche, alcune zone germaniche confinanti. Sepolto a Tournai, la sua tomba fu scoperta, poi, nel XVIII secolo. Fu durante il suo regno, tra l’altro, che finì l’Impero romano d’Occidente, nel 476, per mano dei Goti di Odoacre, generale e uomo politico germanico di origini unne, denominato spesso primo Re d’Italia. Vicenda della quale i Merovingi stanziati in Francia furono spettatori, per quanto, ovviamente, molto interessati ai nuovi scenari che venivano creandosi. Erano, di fatti, anche loro di sangue germanico e gli equilibri dei nascenti regni romano-barbarici li riguardavano assai da vicino.
Nel 481 salì quindi al potere Clodoveo, che riunì sotto un’unica coalizione le tribù dei Franchi e diede il via a una politica espansionistica contro Alemanni, Turingi e Burgundi. Con questi ultimi, i rapporti furono quanto mai controversi, con alleanze temporanee, alternate a scontri militari. Altro avversario di Clodoveo furono i Visigoti, nella Gallia meridionale, fra Tolosa e i Pirenei. Clodoveo, inoltre, occupò nel 486 l’ultima enclave romana nel bacino della Senna. Il monarca merovingio fece di Lutezia (l’odierna Parigi) la capitale del Regno franco. Mediante la politica di espansione, questo incorporava ormai quasi tutta la Gallia. La cosa attirò l’attenzione tanto di Teodorico (sovrano degli Ostrogoti che sostenne i Visigoti mandando loro truppe ausiliarie) quanto dell’Imperatore d’Oriente Anastasio, il quale tentò di allearsi con Clodoveo per contrastare gli stessi Ostrogoti in Italia. Se per il monarca bizantino l’alleanza doveva portare ad una sorta di formale sottomissione dei Merovingi, agli occhi di Clodoveo l’offerta proveniente dall’Impero d’Oriente rappresentava una legittimazione delle proprie conquiste politiche e militari e una chiave per affermare la propria autorità sovrana sui sudditi. Sotto il profilo geo-politico e strategico, i Merovingi erano poi in una posizione privilegiata, quasi da arbitri, tra quanto restava dell’Impero e le culturalmente vicine popolazioni germaniche. Si aggiunga che il Regno dei Franchi, tra i popoli meno romanizzati di tutta l’Europa continentale, era sino a quel momento ancora pagano e legato con orgoglio a costumi e tradizioni barbare non diverse da quelle delle altre popolazioni di area tedesca d’allora.
La svolta si ebbe con la conversione al cristianesimo, da parte di Clodoveo, che impose al suo popolo il battesimo, secondo non la fede ariana dominante presso la cultura religiosa germanica, ma in base al credo istituzionalizzato dal Concilio di Nicea, nel IV secolo, riconoscendo, così, l’autorità del Vescovo di Roma. Il significato storico e le conseguenze pratiche della scelta furono di estremo rilievo, dato che i Franchi furono i primi Barbari ad accettare la nuova fede ed il primato del papato: in tale maniera, Clodoveo vide il proprio potere legittimato direttamente dalla Chiesa di Roma, e da quanto restava dell’Impero originario, anziché da Bisanzio. Ribadì con ciò l’identità nazionale della dinastia merovingia francese. Fece accantonare la liturgia, già in uso presso i vescovi gallo-romani, in favore della disciplina del Vescovo dell’Urbe. Attraverso la conversione di Clodoveo, i Franchi divennero pertanto difensori e alleati politici del cristianesimo romano. Per l’Historia Francorum di Gregorio di Tours, la conversione del Re merovingio è da datarsi al giorno di Natale del 496. Forse, in realtà, avvenne un decennio dopo, in occasione dell’imminente conflitto con i Visigoti ariani. Tra gli ispiratori della conversione di Clodoveo vi furono gli esponenti burgundi della sua corte, nonché San Remigio (l’allora vescovo di Reims). In ogni caso, il monarca franco, dotato di forte personalità e di spiccato intuito politico, scelse alla fine da solo. Ascoltava e si lasciava consigliare, ma tuttavia mai condizionare. La sua concezione del potere era gerarchica e piramidale, verticale e centralizzata (visione che i regnanti merovingi dopo di lui avrebbero osservato sempre meno), orientata a trovare, per il Regno dei Franchi, uno spazio identitario e nazionale, privilegiato ed a sé, nello scacchiere del continente europeo di allora.
Sul piano politico, la sua scelta danneggiò soprattutto Teodorico, Re degli Ostrogoti in Italia, il quale aveva fondato le proprie iniziative su una rete e di alleanze diplomatiche e di accordi di non belligeranza con i maggiori regni europei di allora. Vano fu l’aiuto dato da Teodorico ai Visigoti, in occasione della Battaglia di Vouillé, vinta dai Franchi. Clodoveo chiese e ottenne dall’Imperatore di Bisanzio la dignità proconsolare, rafforzando l’alleanza fra l’Oriente e la Gallia, in contrapposizione a livello internazionale con quella fra territori italici e la Spagna. Il suo regno si frammentò, alla sua morte, fra i suoi quattro eredi (Clotario, Clodomiro, Teodorico e Childeberto), i quali proseguirono, sulla sua scia, nelle operazioni di conquista territoriale, a spese dei popoli confinanti. Una politica di segno espansionistico, che condusse fra l’altro all’annessione della Borgogna. Molto più complessa, invece, fu la politica di intervento franco in Italia settentrionale, come alleato dei Bizantini, contro i Longobardi di Re Autari. Qui la resistenza di quest’ultimo convinse i Merovingi a desistere dal loro proposito di impadronirsi delle zone occupate dai Longobardi. In seguito, la discendenza di Clotario – tra i figli di Clodoveo, fu l’ultimo a sopravvivere – rivolse altrove le proprie mire, indirizzando le conquiste del Regno, nei successivi anni, ad Est e a Sud, verso Neustria e Aquitania (che andarono a Cariberto I), Austrasia, Provenza ed Alvernia (a Sigeberto I). Fuori della sfera di influenza francese, rimanevano soltanto lo Stato degli Alemanni, nell’odierna Svizzera, la Bretagna celtica, l’Occitania e i vasconi pirenaici (vale a dire gli attuali Paesi Baschi).
Nel corso del VI secolo, iniziò anche a formarsi la futura lingua francese (neolatina), l’idioma linguistico di un popolo in prevalenza gallo-romano, governato da una minoranza franco-germanica al potere. Sul fronte culturale, l’eredità latina si rivelava maggiormente forte nei centri urbani delle coste mediterranee, il versante dove, infatti, la lingua provenzale ed occitana sono più marcatamente neolatine. Sempre durante il secolo VI, l’economia (eminentemente agricola) dei Franchi attraversò un periodo di crisi, un problema al quale si aggiunse quello istituzionale legato alla disgregazione in ambito politico. La dobolezza del potere centrale dei monarchi merovingi divenne infatti cronica, in favore dei maestri di palazzo e dei Pipinidi (poi Carolingi). Tra la fine del V secolo e l’VIII il potere politico dei Re merovingi si trovava in effetti diviso tra il sovrano e il maggiordomo di palazzo. Un rapporto paragonabile in parte a quello più tardo fra l’Imperatore e lo Shogun nel Giappone feudale: proprio grazie a questa situazione, la gestione del potere politico andò concentrandosi, via via, nelle mani dei signori di palazzo, tutti o quasi appartenenti alla dinastia pipinide (poi carolingia), che, con il tempo, prese sempre più il sopravvento sul casato merovingio, sino a sostituirlo del tutto. La fonte al riguardo – Eginardo di Maingau (775-840), lo storico e architetto dei Franchi, al servizio di Carlo Magno, e suo primo biografo ufficiale – non è neutra e, per quanto di parte, ha influenzato non poco la storiografia successiva, rappresentando la stirpe merovingia come politicamente debole, al fine di contrapporle intenzionalmente l’esercizio del potere da parte dei maestri di palazzo. Per Eginardo, i Re merovingi avrebbero dunque avuto un ruolo puramente cerimoniale, e solo di facciata. Nella sua opera, in realtà, il biografo di Carlo Magno ambiva a dimostrare che la dinastia dei Merovingi cadde non per un colpo di mano dovuto all’ambizione pipinide, ma, piuttosto, per l’incapacità a riunificare e rafforzare il potere centrale al governo del Regno. Inoltre lo sforzo fatto da Eginardo allo scopo di presentare Carlo Martello e Pipino il Breve – il nonno ed il padre di Carlo Magno, rispettivamente – come i veri detentori del potere, mirava ad oscurare il sospetto di un colpo di Stato, nell’assunzione del titolo regio, da parte dello stesso Pipino il Breve. Cosa che in parte almeno avvenne.
In realtà, una riunificazione del potere monarchico da parte merovingia venne realizzata – nel 613 – da Re Clotario II di Neustria, che ricompose l’intero Regno dei Franchi sotto la sua autorità, a mezzo dell’appoggio di due figure di spicco della aristocrazia austrasiana, Arnolfo di Metz e Pipino di Landen. Nuovi equilibri si instaurarono, fra monarchia e nobiltà franche, con ampie concessioni da parte del sovrano. Anche nel campo della politica ecclesiastica dello Stato merovingio, vi furono conseguenze, con la nomina dei vescovi da parte reale a partire dal 614. Morto Clotario II (nel 629), Arnolfo si ritirò in un monastero ed il nuovo Re Dagoberto I spostò la corte da Metz a Lutezia. Sino a quel momento, la corte non aveva avuto una sede fissa, e si era mantenuta grazie ai proventi delle rendite fiscali dei terreni. L’amministrazione periferica veniva assicurata dai conti, prima funzionari militari, poi anche civili, nominati dal Re ed anch’essi mantenuti con rendite rurali dei possedimenti posti sotto la loro giurisdizione, nonché con ammende, comminate ai colpevoli di reati. Certe contee erano raggruppate sotto il controllo di Duchi, funzionari militari di grado più alto, mentre all’interno delle città l’amministrazione era tutta nelle mani dei vescovi, sulla cui elezione e sulle cui proprietà interveniva in prima persona il monarca. A corte, alcuni personaggi di maggiore rilievo costituirono un ceto forte e geloso, dei suoi privilegi e dello stesso sovrano, i Maestri di Palazzo o Maggiordomi, come detto, che agivano in nome del Re, con un potere, praticamente, illimitato. Era concessa a loro anche la tutela degli eredi al trono e, quindi, la gestione stessa delle lotte dinastiche. Tra le famiglie che collaboravano con il Re, all’interno della corte merovingia, un ruolo importantissimo fu assunto dai courriers, i quali gestivano di fatto la politica dei Reali e tenevano la corrispondenza scritta fra i diversi territori e Regni in Europa. Tale pratica diede avvio ad una forma prodromica di diplomazia scritta. I courriers, come altre famiglie, disponevano di maestranze speciali, consolidate nel tempo e sul piano dello status ricevevano titoli e riconoscenze nobiliari per tali servigi. Spesso, erano loro ad incentivare la stessa cultura e gli sviluppi del sapere scientifico e tecnico, in particolare di medicina, matematica applicata ed architettura. Le arti in genere, nella cruciale età di passaggio dai Merovingi ai Carolingi, nella storia del Regno franco, ne beneficiarono notevolmente ed in vasta misura, anche se le conseguenze maggiori sul versante intellettuale e universitario si fecero sentire specialmente in seguito, tra VIII e IX secolo. Nel dominio della scienza delle costruzioni, invece, i risultati furono di grandissimo valore subito, con basiliche erette nell’antica Gallia e nella Gallia belgica, tra V ed VIII secolo, chiese e monasteri (che erano al contempo centri culturali e basi per l’irradiazione del potere centrale). Studi storico-artistici e soprattutto archeologici hanno riscoperto strutture architettoniche, di notevole rilievo, in legno e pietra, con decorazioni e torri, colonne di marmo e mosaici, come nel caso della Basilica di San Martino fatta edificare da San Perpetuo a Tours e di si cui parla pure nella Historia Francorum di Gregorio di Tours. Merovingia fu l’idea di mettere il sarcofago o reliquiario dei santi in posizione rialzata, dietro l’altare, specie sull’abside. Di abbazie e chiese merovinge oggi perdute per le ristrutturazioni successive ci restano cripte, battisteri a base ottagonale e cupole rette da pilastri, segnatamente nella Francia meridionale. Il segno di una grande vitalità.
I futuri Carolingi, nel frattempo, mediante la funzione di maestri di palazzo, giunsero ad avere un ruolo centrale, nell’amministrazione del Regno franco, e nella gestione di moltissime attività. Sin dal VII secolo, la loro presenza a corte fu assolutamente preminente. Nel 631, Grimoaldo – figlio di Pipino di Landen – assunse la carica di signore di palazzo, e provò a assicurare il trono al figlio e, se la cosa non si concretizzò, fu solo per l’opposizione dei nobili all’operazione. Inoltre, anche quando la linea maschile dei Pipinidi si estinse, la struttura socio-familiare dell’epoca consentì alla stirpe di continuare. Pipino di Herstal, sostenuto dall’aristocrazia, diventò la nuova guida dei Franchi nel 687 e fondò la dinastia reale pipinide-arnolfingia, detta poi carolingia. Un’operazione politica, ammessa da Eginardo stesso, che condusse, di fatto, alla fine del casato regnante merovingio, con l’appoggio di papa Zaccaria. Un atto di imperium avallato pertanto dal Vicario di Cristo, che nella ricostruzione eginardiana trova inevitabili conferme (lo storico non poteva gettare ombre su quanto fatto da quella dinastia pipinide dalla quale discendeva, poi, Carlo Magno). Un nuovo inizio, nella storia del Regno dei Franchi, a partire dal secolo VIII.
Con la fine della storia merovingia, almeno di quella per così dire ‘ufficiale’, cominciarono a crescere e a moltiplicarsi le leggende, antiche e moderne. La prima fu quella dei Re taumaturghi che è stata associata anche ai Merovingi. La cosa rimane ancor oggi assai dubbia. Il primo cenno storico alla cosa si trova infatti solo in riferimento al Re Enrico I di Francia, discendente dalla terza dinastia dei Capetingi, che regnarono dopo i Carolingi a partire dal 987 per linea diretta sino alla prima metà del XIV secolo. Resta il fatto che la taumaturgia, tra Medioevo e prima età moderna, non era messa in dubbio neanche dai più scettici e restava tra le più alte forme di sacralizzazione del potere, quindi non stupisce lo storico che certe tradizioni l’abbiano disinvoltamente associata anche ai Merovingi, che proprio in quanto usciti prematuramente dalla storia si prestavano a riletture, tanto agiografiche, quanto fantastiche e tendenti a mescolare storia, inserti leggendari e mitografia.
Stando poi alla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, frate domenicano e vescovo genovese, poeta ed agiografo del XIV secolo, Maria Maddalena, dopo la crocifissione di Gesù, sarebbe fuggita dalla Palestina, per approdare in Provenza per poi risalire il Rodano. Una leggenda che ha fornito lo spunto a moltissimi libri sulla (presunta) linea di sangue del Santo Graal, e che vede nei Merovingi i discendenti di Cristo e della Maddalena. Quest’ultima avrebbe infatti risalito il Rodano incinta, sino a raggiungere la tribù dei Franchi, dando alla luce presso di loro un figlio, chiamato Giacomo. Primi Re dei Franchi, i Merovingi avrebbero derivato, anche da questa loro origine sacra, l’appellativo di sovrani guaritori, capaci di ridonare la salute agli infermi come il Gesù dei Vangeli. Una leggenda – eretica, per la Chiesa – che unita a quelle già circolanti su Meroveo simboleggerebbe l’unione della stirpe franca e di quella graalica, proveniente quest’ultima da oltremare. Il Santo Graal della celebre coppa (o calice, presente anche nella mitologia celtica, pre-cristiana) non sarebbe pertanto altro che il sang real, cioè il sangue reale di tale stirpe dalle antiche e nobilissime origini religiose. Leggenda e insieme invenzione di una tradizione, che – passando per l’Ordine dei Templari e l’ermetismo dei Rosa-Croce – sarebbe arrivata, nell’Inghilterra Stuart del secondo Seicento, sino a Newton. Nulla di più falso: l’autore dei Principia mathematica, se anche nelle carte private manoscritte su argomenti cristologici poteva essere segretamente eretico, non avrebbe mai ammirato una dinastia come quella appunta merovingia che, con Clodoveo, aveva abbracciato il cristianesimo niceano rinunciando così a quello ariano, per Newton il solo fedele all’autentico monoteismo, corretto e puro, rigoroso e non idolatrico. Né Newton avrebbe mai potuto approvare l’alleanza dei Merovingi con la Chiesa romana (ai suoi occhi, in questo come a quelli dei puritani precedenti, manifestazione storica di un potere e di una fede non rispondenti ai nuclei di verità del cristianesimo originario).
Oltre alla Legenda Aurea, le sole presunte fonti a sostegno della fantasiosa idea secondo cui la stirpe dei Merovingi discenderebbe direttamente da Cristo, sono i famigerati dossier segreti dei Savi del Priorato di Sion, una serie di controversi documenti dattiloscritti forse di ascendenza massonica, depositati presso i Fondi della Biblioteca Nazionale di Parigi, poco più di mezzo secolo fa. Tali testi presentano intricate linee di discendenza, ed elenchi di presunti Gran Maestri del Priorato (che sono descritti come i custodi del vero segreto del Graal), inventate, al fine di poter vantare la discendenza nobiliare dai primi Merovingi. Un altro frutto di fantasia, quindi, che ancora una volta si ricollegava al nome di Newton – inserito, questa volta, tra i Gran Maestri del Priorato, ispirati, chiaramente, alla tradizione esoterico-occulta della Libera Muratoria anglo-francese seicentesca, e al suo microcosmo – quando in realtà, come si è detto poco più sopra, il cristianesimo di Newton restava nascostamente quello dell’arianesimo, e non quello al quale i Merovingi si erano convertiti, con Clodoveo, all’alba del VI secolo. Semmai, proprio con la sua scelta spirituale estesa a tutto il proprio popolo, Clodoveo aveva voluto staccare il Regno dei Franchi dalle altre genti germaniche, di costumi barbari e di fede, quando cristiana, opposta ad Atanasio e dunque rimasta sostanzialmente ariana.
Molto più interessante è il caso del tesoro perduto dei Merovingi, a cui farebbe riferimento, in vari libri, disseminati di indizi nascosti, il grande Jules Verne. Il fondatore della narrativa fantastica moderna avrebbe scritto una autentica ucronia: una storia segreta ed alternativa, con al vertice il suo romanzo Clovis Dardentor, ispirato sin dall’eloquente nome al celebre Re Clodoveo. Quanto, poi, a Dardentor, il termine sarebbe da scomporre in d’ardent or (ossia di oro ardente), un’espressione che indicherebbe in d’ardent il rapporto con il titolo rampollo ardente, che fu conferito precisamente al discendente di Dagoberto II, rifugiatosi a Rennes-le-Chateau. Pertanto, sia il nome del protagonista, sia il titolo stesso del romanzo, indicherebbero che Verne ci racconta, in forma romanzata (e tramite rimandi velati e simbolismi, metafore e allegorie), la vicenda storica dimenticata e perduta dell’Oro dei discendenti dei monarchi di stirpe merovingia. Un’ipotesi in effetti molto affascinante: del resto, si sa che il grande scrittore francese non fu affatto un positivista, votato a celebrare e le scoperte e le conquiste scientifico-tecnologiche dell’Ottocento (il romanzo è del 1896), quanto invece un autore, molto raffinato sul piano delle letture e vicino ai circoli iniziatici della Parigi secondo-ottocentesca, interessato a trasporre in chiave letteraria miti tradizionali (tra cui, quello della Terra cava, presente in più d’uno dei suoi romanzi) ed elementi storico-leggendari, riferimenti ai quali sono disseminati, praticamente, in quasi tutta la sua produzione di narratore.


La Historia Francorum di Gregorio di Tours dal VI al XII secolo

Il maggiore storico e agiografo dell’età merovingia fu il vescovo Gregorio di Tours (538-594) con i suoi Decem Libri Historiarum. Noti, anche, come Historia Francorum, costituiscono la fonte principale sui Merovingi, sicuramente la più antica, iniziatrice di una tradizione, che ha attraversato tutta l’età moderna, culminando nel XVIII secolo negli Excerpta ex vitis Sanctorum e negli Annales Francorum Ludovici Dufour, pubblicati, nel 1741, a Parigi, nel tomo terzo dei Rerum Gallicarum et Francicarum Scriptores del monaco e storico, erudito e filologo benedettino Martin Bouquet (1685-1754). Nativo di Amiens, entrato prima nel clero secolare e poi nella Congregazione di San Mauro, valente grecista e latinista, poco dopo l’ordinazione sacerdotale Bouquet iniziò a studiare la storia e antica e medievale della Gallia e della Francia, spintovi anche dall’interesse, politico, della corte del Re Sole e del suo primo ministro Colbert. Bouquet raccolse materiali e documenti in merito presso i monasteri di Meaux e Saint-Germain-des-Prés, riscoprendo tra le sue fonti la Historia Francorum di Gregorio di Tours, sulla quale basò i suoi studi riguardo il passato merovingio della Francia. Questi, sulla scia delle opere precedenti degli storici e geografi Pierre Pitou e André Duchesne, confluirono nel grandioso Recueil des historiens des Gaules et de la France stampato in più volumi fra il 1738 e il 1752 e fondato, per la parte antica e alto-medievale sui Merovingi, sopra i manoscritti di Gregorio di Tours. L’opera di Bouquet portava avanti il lavoro iniziato dal benedettino Edmond Martène (su sollecitazione del cancelliere regio d’Aguesseau) e dall’oratoriano Jacques Lelong, autore, nel 1721, della Bibliothèque historique de la France, che ancora una volta si era appoggiata a Gregorio, per la parte sull’Alto Medioevo merovingio.
Primo dunque degli Scriptores Rerum Merovingicarum, Gregorio nacque a Clermont-Ferrand, nell’antica Gallia (oggi tra Alvernia, Rodano ed Alpi) con il nome iniziale di Georgius Florentius (a cui solo in seguito aggiunse quello con il quale sarebbe divenuto celebre), originario di una famiglia aristocratica di Langres. I suoi genitori erano il Senatore Florentius e la nipote del vescovo Nicezio di Lione. Cresciuto in ambiente nobiliare, Gregorio ricevette un’ottima educazione storico-letteraria e divenne, presto, un profondo conoscitore di classici, su tutti Virgilio e Sallustio (anche sotto forma di compendi). Morto il padre, e trasferitasi sua madre in Borgogna, Gregorio rimase accanto allo zio Gallo, proseguendo gli studi, sotto la guida sua e di Sant’Avito, non senza soggiorni a Lione tra 572 e 573. Intrapresa la carriera ecclesiastica, a Tours, a contatto con San Martino (tra i primi Santi della Chiesa a non essere martiri), Gregorio vi fu nominato vescovo nel 573. Partecipò alla vita politica di Tours, allora città di grande importanza, insieme crocevia e luogo di culto, conoscendo numerosi Re Merovingi, tra i quali Sigeberto e Chilperico di Soissons, e raccogliendovi diversi materiali di prima mano, poi utilizzati nelle sue numerose opere storiografiche. La più importante e famosa furono, per l’appunto, i Decem Libri Historiarum dedicati alla storia dei Franchi. Gregorio li compose tra il 576 e il 593, durante quindi il proprio episcopato, lavorandovi sopra sino alla fine dei suoi giorni. Più di tante altre, la sentiva come l’opera della sua vita: una sorta di testamento storiografico, sul piano del metodo annalistico e delle tematiche trattate.
Il Libro I della Historia Francorum fu da lui consacrato alla fase delle invasioni barbariche ed agli albori della dinastia merovingia. Gregorio vi narrò l’arrivo prima dei Vandali e poi degli Unni di Attila, sino all’entrata in scena dei Franchi e alla affermazione di Clodoveo. Il Libro II conteneva il racconto dei figli e successori di quest’ultimo, Teodorico I, Clodomiro, Childeberto I e Clotario I, i quali si spartirono il Regno franco, senza dimenticare la figura positiva di Teodeberto (il nipote di Clodoveo e figlio di Teodorico). I Libri III e IV raccontano le successive divisioni del regno franco, sino all’emergere della figura di Sigiberto. Il Libro V prosegue nel descrivere le vicende del Regno, dopo Sigiberto e sino alla morte di Meroveo. I Libri VI e VII tracciano una storia fosca, di uccisioni e ribellioni, quasi continue. Narrazione proseguita dai tre Libri seguenti. Ne emerge il quadro di un regno, insieme grande e frammentato, glorioso e diviso al tempo stesso, privo di un’autorità centrale estesa territorialmente eppure di notevole riguardo nelle vicende politiche e religiose, istituzionali e militari dell’epoca, prima dell’avvento dei Carolingi. L’imponente opera di Gregorio è, in effetti, di estremo rilievo per conoscere a fondo l’età merovingia e si basa pure sulla rielaborazione di modelli precedenti alla Historia, come le opere di Orosio, di Profuturo Frigiredo e di Sulpicio Alessandro, e su tutta una tradizione orale e annalistica andata oggi perduta.
La Historia Francorum rimane il più vasto testo storico-letterario trasmesso in manoscritti di epoca merovingia, con una tradizione di ben quattro rami. Il testimone più antico è quello compilato intorno a metà del secolo VII, e conservato oggi a Copenhagen, Kongelige Bibliotek, Ny Kgl.Saml., 1878 f. (O.8) (A2), con diciassette capitoli, molto vicino alla data di composizione della Historia da parte di Gregorio di Tours. Il manoscritto ci è pervenuto diviso in tre parti, frammentarie, originario della regione della Loira. Altro testimone fondamentale è quello di Montecassino, risalente al 1086-1087 e copiato per volere dell’abate Desiderio su un modello che Paolo Diacono aveva portato forse da Lorsch (la questione attrasse, ancora alla fine del XVII secolo, i benedettini francesi Montfaucon de Villars e Mabillon). In genere, durante l’Alto Evo, l’opera storica gregoriana circolava divisa, in base talora anche agli scopi politici di chi faceva uso della Historia Francorum, a seconda poi della latitudine (ad esempio, nel nord-est della Francia, vennero omessi i capitoli che mettevano in buona luce la figura di Gontrano, figlio di Clotario e Re franco della dinastia merovingia in Burgundia, dal 561 sino alla morte nel 592, successivamente santificato dalla Chiesa cattolica).
Un’altra opera molto rilevante di Gregorio furono i Libri VIII Miraculorum, il Liber in Gloria Martyrum dedicato ai martiri, il Liber de Passione et Virtutibus sancti Iuliani martyris consacrato a san Giuliano, i Libri I-IV de Virtutibus Sancti Martini episcopi dedicati a San Martino, il Liber vitae patrum dedicato alle vite di monaci ed eremiti del deserto, presentati come modelli di santità (anche in virtù dei miracoli compiuti da Dio, attraverso di loro) e il Liber in gloria confessorum dedicato ai santi che, pur non essendo stati martiri, si sono segnalati come propugnatori della fede. In tali scritti, il fine primario del vescovo era quello di presentare modelli di esemplare virtù cristiana, e di narrare le vicissitudini di santi e martiri poco noti. Si tratta di opere sovente associate per la loro funzione ai Dialogi di Gregorio Magno. La grande fortuna, europea, di tale messe di scritti risale, in particolare, all’epoca carolingia, e pochissimi sono i manoscritti antichi sopravvissuti (oggi a Parigi, Biblioteca Nazionale, Lat. 2204, IX secolo, vicino sul piano linguistico al secondo ramo della tradizione della Historia Francorum; Lat. 2205, X secolo).
Sempre ritenuta opera minore, ma in realtà notevolissima, è di Gregorio la De cursu Stellarum Ratio, una dissertazione a scopo didattico e scientifico nello stesso tempo, suddivisa internamente in tre sezioni (rispettivamente dedicate alle meraviglie del mondo, ai fenomeni naturali, ed alle stelle e costellazioni), a cavallo tra storia naturale della realtà terrestre e descrizione astronomica, di stampo geocentrico. Le tre parti dell’opera ebbero inoltre una circolazione separata ed autonoma, all’interno degli studia medievali e troppo di rado gli storici della scienza la menzionano. La copia manoscritta di Bamberga (Staatsbibliothek, Patr. 61, VIII secolo) è l’unica ad attribuire esplicitamente il trattato a Gregorio. A partire da manoscritti del VII secolo le prime due parti furono poi unite a una raccolta a scopo scientifico-divulgativo di conoscenze sul mondo naturale e celeste, basata sulle Institutiones di Cassiodoro. Quest’ultimo – uomo politico, letterato e storico – visse, tra il V e il VI secolo, sotto il regno romano-barbarico degli Ostrogoti, percorrendo una carriera importante e di successo sotto il governo di Teodorico il Grande, con funzioni tanto vicine al monarca (fu, tra l’altro, il successore di Boezio) da fare pensare ad un effettivo e diretto contributo al progetto del Re ostrogoto. Scrisse testi fondamentali quali la Chronica, la Historia Gothorum, l’Ordo generis, l’Expositio Psalmorum ed in particolare le Institutiones divinarum et saecularium litterarum che, in diversi punti, richiamano gli interessi teologici e scientifici di Gregorio di Tours, sul piano soprattutto dell’erudizione scritturale, dell’inclinazione verso le arti liberali e del trivio e del quadrivio, dell’enciclopedismo e dell’esegesi biblica, con un occhio di riguardo per la antica cultura pagana, da recuperare e sottoporre ad attenta opera di cristianizzazione.
Di Gregorio ci sono giunti anche altri codici manoscritti. La Passio Septem dormientium apud Ephesum è una traduzione riadattata dal greco della diffusa leggenda medievale sui Sette Dormienti di Efeso. Il testimone più antico del racconto è il manoscritto Vaticano, Reg. Lat. 1127, che si trova nella Biblioteca Apostolica Vaticana (fu in origine copiato in Francia, nella seconda metà del secolo IX). La dissertazione In Psalterii Tractatu riguarda invece i Salmi e ci è stata trasmessa da codici in parte frammentari. Quanto, infine, al Liber de miraculis beati Andreae, si tratta di uno scritto di tipo agiografico basato su un testo latino risalente al II o III secolo, circa l’apostolo Andrea. Oggi, non si dubita più che l’opera sia di Gregorio di Tours, a lui attribuita, con certezza, già da un manoscritto francese del XII secolo.
In tutti questi codici, così come nell’opera maggiore dedicata alla storia dei Franchi e ricca di informazioni e notizie sui Merovingi, risplendono e stile e lingua del Vescovo. Il suo latino – infatti – offre materiale prezioso di marcato interesse storico e linguistico, riguardo allo sviluppo del latino volgare tardo-antico ed alto-medievale. Nell'introduzione, Gregorio si scusa per il suo linguaggio, a suo dire un po’ troppo trasandato e rurale. Infatti, il latino di numerosi manoscritti, a causa della sua vicinanza alla lingua parlata all'epoca, si discosta molto dal latino classico, ed anche da quello degli autori classici tardo-antichi, sia nella morfologia, sia nella sintassi. I racconti di Gregorio, peraltro, sono un resoconto utilissimo e pressoché completo, circa la storia dell’Impero merovingio. Sebbene non si possano escludere, del tutto e sino in fondo, aggiunte successive (anche di poco), i filologi di oggi sono propensi a considerare autentico e voluto l’abbassamento del livello stilistico di Gregorio, simile in questo a quello di Cesario di Arles, rimasto celebre per i suoi sermoni popolari, dalla facile comprensione e dalla pronunciata vena realistica, per quanto sempre sotto l’egida della teologia.


Nell'immagine, Meroveo, capostipite della dinastia dei Merovingi.


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Parole chiave:

architettura merovingia, sovrani franchi, storia della Gallia tardo-antica, alto Medioevo, Pipinidi, Carolingi, prìncipi germanici, storia del sapere medico, barbari, leggende, corte francese, maestri di palazzo, tradizione pagana, cristianesimo, storia dell’astronomia


Documento inserito il: 03/11/2025
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