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Maghi ed eroi del Vinland nel Medioevo: finlandesi e vichinghi in Adamo da Brema e Bartolomeo Anglico

di Davide Arecco


Teologia e storiografia tedesche ad Amburgo e in Danimarca nel secolo XI

Una fonte assai preziosa e poco conosciuta, sulla storia vichinga e del Nord Europa in generale, è quella rappresentata da Adamo da Brema (1050 circa-1083), ecclesiastico ed erudito, teologo e storico germanico che fu prima canonico e successivamente magister presso la Scuola Cattedrale di Brema, nel 1066 inviato in veste di ambasciatore dell’Arcivescovo di Amburgo alla corte del sovrano danese Sven Estridsson. Lo stesso arcivescovado di Brema era stato creato da Carlo Magno nel 787, mentre quello di Amburgo tra l’831 e l’864 ed i rapporti – religiosi e istituzionali, anche grazie all’operato di Adamo – erano stati subito molto forti, al pari di quelli con i re franchi e tedeschi.
Originario della Sassonia superiore – probabilmente da Bamberga, ove studiò – oppure delle terre della Franconia nei pressi di Wurzburg, Adamo arrivò a Brena al principio del 1067, in stretti rapporti con l’arcivescovo Adalberto, il quale gli affidò il compito di scrivere una storia degli arcivescovadi di Amburgo e Brema. Anche al fine di raccogliere materiali manoscritti, notizie e informazioni difficili da trovare sul continente, poco dopo il suo arrivo a Brema Adamo venne mandato in Danimarca presso Re Sven Estridsson. Una volta rientrato, divenne magister scholarum a Brema. Un’utile fonte al riguardo è Helmold di Bosan (1120-1179) – cronista tedesco originario della zona di Goslar e autore della celebre Chronica Slavorum (stampata per la prima volta a Francoforte nel 1556) e storico della colonizzazione carolingia dell’Europa centrale ed orientale, poi proseguita dallo storico ed abate benedettino Arnoldo di Lubecca (1149-1214) e raccolta infine nei Monumenta Germaniae Historica, autore di missioni nel Brandeburgo, in Pomerania e soprattutto Scandinavia – a metà circa del secolo XII si rifece ad Adamo, per la redazione della propria opera storiografica, menzionandolo come il «magister Adam, qui gesta Hammemburgensis ecclesiae pontificum disertissimo sermone conscripsit». Inoltre, è probabilmente lui l’Adam magister scholarum che sottoscrisse un documento dell’arcivescovo Adalberto dell’11 giugno 1069. In quell’anno, infatti, Adamo era, a Brema, responsabile della Scuola Cattedrale e lavorava anche nella cancelleria arcivescovile. Infine, nel Diptychon Bremense, è citato come Magister Adam.
Tra il 1072 e il 1077, Adamo da Brema scrisse, rielaborando in maniera cospicua e accurata tutte le antiche fonti manoscritte di cui era riuscito a entrare in possesso – specie a Copenhagen, dove aveva rinvenuto non pochi materiali sulla storia vichinga e finnica – il suo capolavoro storico, ossia le Gesta Hammaburgensis ecclesiae pontificum, dedicate al nuovo arcivescovo del Sacro Romano Impero, cioè Liemaro, fedelissimo di papa Alessandro II e protagonista al tempo delle guerre sassoni e della lotta per le investiture. nonché fondatore in Svezia dell’arcivescovado di Lund (poi ufficialmente riconosciuto, nel 1103, da Re danese Eric I).
Se le Gesta Hammaburgensis nascono dalla più che certa committenza adalbertiana (e pure sotto le insegne del patronage aristocratico: Adamo da Brema era infatti molto legato agli ambiti politici dei nobili tedeschi), ancora oggi colpiscono lo storico le caratteristiche dell’opera, suddivisa internamente in quattro Libri e volta a raccontare in modo alquanto dettagliato la storia arcivescovile ed ecclesiastica di Amburgo e di Brema, dalla loro unione – nell’846, dopo le incursioni dei Danesi – in poi. Inoltre, il testo prende in esame i viaggi apostolici e le spedizioni religiose (inaugurate da Anscario e da Gregorio IV nella prima metà del secolo IX) rivolte a cristianizzare le popolazioni ancora al di fuori dei territori imperiali e le aree europee più settentrionali, qui a contatto con Islandesi, Norvegesi e Finlandesi. Tra le sue fonti, Adamo da Brema indica antiche carte e mappe geografiche (oggi perdute), racconti orali, opere storiche anglo-tedesche (e in misura minore francese) precedenti e privilegi romani. Per l’opera, che evidentemente riteneva non a torto la sua maggiore, Adamo sacrificò tesori di energia, lavorandovi sino ai primi anni Ottanta del secolo XI. I primi tre libri dell'opera trattano la storia dell’arcivescovado di Brema e Amburgo, dal 788 sino al 1045, con moltissimi dati storico-biografici circa azioni e imprese di Adalberto. In origine, anche e soprattutto alla luce del viaggio danese e presso le terre nord-europee, l’ultimo Libro delle Besta avrebbe dovuto chiamarsi, nelle intenzioni dell’autore, Descriptio Insularum Aquilonis e costituire una descrizione in prevalenza geografica dei popoli e costumi della Scandinavia, in particolare presso l’attuale Finlandia e in generale in riferimento all’epoca dei Vichinghi. Fra l’altro, nelle pagine della Descriptio adamiana troviamo la prima attestazione in tutta l’Europa latina di allora del termine Vinland, la costa orientale dell’America settentrionale, tra Labrador e Columbia britannica, che la leggenda vuole scoperta dai Vichinghi nel Mille, anche per perpetuare oltre il mare le tradizioni del più fiero ed orgoglioso paganesimo nordico sfuggendo all’evangelizzazione dell’Islanda – l’isola di ghiaccio e fuoco – allora in corso.
Il Libro I delle Gesta arriva sino all’arcivescovo Unni. Adamo da Brema vi si rivela subito abile e attento annalista, che segue scrupolosamente e da vicino le fonti per costruire la narrazione dei fatti più importanti. L’impianto storiografico – come nel caso di Beda il Venerabile, nell’Alto Medioevo inglese – è quello classicamente ecclesiastico. Non mancano informazioni geografiche e etnografiche in merito alla Sassonia, convertita al cristianesimo dall’azione di San Bonifacio. Gli arcivescovi sono presentati, in questo I Libro alla stregua di figure dalla statura quasi eroica.
Il Libro II continua il racconto, prendendo le mosse dalle vicende dell’arcivescovo Adaldago, per giungere fino ad Alebrando, il primo a istituire vescovadi e a rappresentare le caratteristiche di un alto prelato della Reichskircher, unendo carica episcopale e servizio imperiale, quindi potere sacerdotale e potere imperiale. Il Libro III si divide in tre sezioni: le attività interne all’arcivescovado, quelle esterne e quelle missionarie di Adalberto, in rapporti con l’Imperatore Enrico III e con papa Leone IX: stagione di somma grandezza per Brema e Amburgo. Il Libro IV è forse più interessante, in quanto assai diverso dai precedenti ed incentrato su geografia, storia, cultura e usanze dei popoli stanziati in area nordica e baltica, scandinava e specie danese: i popoli, come detto, toccati dalle missioni evangeliche nell’Europa settentrionale. Si tratta in assoluto della prima rappresentazione storica di età medievale di quell’area e di quelle genti. Adamo da Brema descrive paesaggio e aspetto dei territori, le caratteristiche del suolo, i costumi della popolazione, lungo un asse storia-luoghi che ne fa il perno stesso della narrazione. Egli si sofferma su abitudini e comportamenti degli abitanti del Nord: Danesi, Islandesi, Vichinghi e Lapponi, in particolare. Interessantissimi sono poi i confronti fatti dallo storico tedesco tra la nuova religione dei cristiani introdotta nel gelato Settentrione e le credenze pagane antecedenti, nella fattispecie norrene: una fonte, dunque, di assoluto valore e di primissima importanza storica circa la religione nordica pre-cristiana. Di particolare impatto sono le descrizioni delle terre all’estremità nord-orientale del golfo: qui Adamo colloca popolazioni che assumono tratti mistici e mostruosi, attingendo a piene mani da antiche credenze locali e leggende tradizionali e dissertando fantasiosamente su amazzoni e green men (quelli, beninteso, anche della Scozia e del Galles celtico). L’importanza di questo quarto libro è data dal fatto che Adamo tratta inoltre del Vinland, la porzione dell’odierna America del Nord scoperta dai Vichinghi islandesi intorno all’anno 1000. Adamo da Brema fu quindi il primo a diffondere la cosa, attestata pure da saghe islandesi e norvegesi (materiale prossimo a quello utilizzato da Snorri Sturluson per comporre l’Edda attorno al 1220, utilizzando come fonte primaria la poesia scaldica). Il Vinland viene descritto, da Adamo, come una nuova terra promessa: una grande isola a occidente, oltre l’oceano e ricchissima di colture viti-vinicole. Adamo da Brema fu altresì il primo a descrivere il Tempio svedese di Uppsala e i rituali della tradizione pagana che ancora sino a non tanto tempo prima v’erano celebrati, tra gli ultimi a cedere alla nuova fede cristiana.
Le Gesta Hammaburgensis furono il frutto d’inesauste ricerche personali dell’autore, che si diede a raccogliere in maniera instancabile informazioni e notizie, in larga parte appoggiandosi alla tradizione documentaria della storiografia precedente e in parte impiegando quella letteraria dei testi tanto antichi quanto medievali. Altri dettagli che utilizzò furono da lui appresi direttamente alla corte danese di Sven a Copenhagen. La capitale della Danimarca era infatti allora il centro urbano da cui passavano diversi missionari di ritorno dalle terre nordiche, oltre che mercanti, militari, dotti e navigatori. Come modelli, Adamo da Brema si rifece a scrittori classici medio-latini (come Eginardo, Gregorio Magno, Gregorio di Tours), senza dimenticare Virgilio, Tacito e Sallustio. Nel Libro IV sono notevoli gli omaggi a Paolo Diacono, Marziano Capella e Isidoro da Siviglia. Accanto ai paradigmi letterari, abbiamo naturalmente citazioni vetero e neo-testamentarie. Biblista di vaglia, Adamo mostra tutta la sua statura intellettuale di storiografo e scrittore nelle parti più poetiche della propria opera. Questa ebbe fortuna specialmente in area tedesca, anglo-britannica e nord-europea. L’influsso del capolavoro di Adamo da Brema può esser riscontrato facilmente nelle Gesta Danorum di Saxo Grammaticus (il massimo storico danese di epoca medievale, vissuto fra il 1150 e il 1220) e nella Islendingabok (o Libellus Islandorum) del genealogista norvegese Ari Fròoi Porgilsson, libro del XII secolo riscoperto nel 1672 e andato poi, nell’originale, di nuovo perduto. In comune con le Gesta di Adamo da Brema, vi è anche il ricorso alla tradizione orale e al lavoro dei monaci irlandesi, mentre di suo Porgilsson divise l’Islanda in quadranti giuridici e assegnò molta più importanza al calendario liturgico.
Gli esemplari manoscritti delle Gesta Hammaburgensis oggi superstiti sono conservati a Roma in Città del Vaticano (Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 2010, copia risalente al 1451), Amburgo (Staats- und Universitätsbibliothek, Ms. Hist. 22), Hannover (Niedersächsische Landesbibliothek, XXI 1688, copia appartenuta a Leibniz nel 1685), Copenhagen (Kongelige Bibliotek, Addit. 180, risalente al primo Settecento; GKS 719, del secolo XVI; GKS 1175, 2°, databile intorno al 1557; GKS 2296 4°, un rarissimo ed antico manoscritto latino redatto tra il 1200 e il 1225 circa; GKS 718, 2°, del 1434; GKS 1115, copiato nel Seicento; NKS 1463, 2°, riportabile quantomeno al secolo XIV), Leida (Bibliotheek der Universiteit, Voss. Lat. 2°, 123, del 1100 circa e pertanto antichissimo), Vienna (, Österreichische Nationalbibliothek, 521, un manoscritto risalente alla prima metà del secolo Duecento), e Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, Gud. Lat. 83 = 4387, esemplare quattrocentesco). Molto indicativo è il fatto che la maggior parte dei manoscritti si trovi in Danimarca, la terra visitata da Adamo. Quanto poi alla editio princeps delle Gesta Hammaburgensis ecclesiae pontificum, essa venne stampata, nuovamente a Copenhagen, nel 1579, collazionando proprio le carte danesi di cui sopra.


La trattatistica enciclopedica francescana tra Europa e Inghilterra nel Duecento

Religioso e scrittore inglese del XIII secolo, Bartolomeo Anglico (1200-1272) è stato un grande e oggi poco ricordato esponente del francescanesimo inglese e dell’enciclopedismo britannico durante il Medioevo, autore del De proprietatibus rerum. Bartolomeo Anglico studiò a Oxford e Chartres, questa seconda particolarmente frequentata da studenti inglesi tra XII e XIII secolo, prima di laurearsi a Parigi in teologia verso il 1225, quando entrò nell’Ordine francescano. Informazioni su Bartolomeo Angli si possono rintracciare nella Cronica di Salimbene da Adam (frate parmense, storico e seguace dell’eresia gioacchimita), che ricorda dell’inglese le lezioni parigine sulla Bibbia. Altra Cronica, quella redatta da Giordano da Giano nel 1231, da notizie sul trasferimento di Bartolomeo al convento di Magdeburgo, in Sassonia, presso il cui Studium proseguì l’attività di insegnante, nonché a proposito della sua nomina a padre provinciale in Austria nel 1262. Molto meno convincente è l’identificazione con Bartolomeo di Praga, padre provinciale di Boemia nel 1256 e l’anno seguente vescovo di Lukòw. Altra confusione da non fare è infine quella con l’altro inglese Bartolomeo di Glanville, a cui spesso viene accostato per via delle testimonianze presenti in certi cataloghi manoscritti.
Bartolomeo Anglico scrisse una ponderosa opera enciclopedica in diciannove Libri, il trattato De proprietatibus rerum (conservatosi ad esempio nel Ms. Lat. 17817 e stampato poi nella prima metà del XVI secolo dal cronista svizzero Giorgio Pontano, bibliotecario del Convento di Chartreux du Petit-Bâle, maestro in varie scuole e autore di una Continuatio chronicorum Cartusiae in Basilea Minori che è la continuazione della cronaca di Enrico Von Ahlfeld e di una Narratio rerum quae Reformationis tempore Basileae gestae sunt. Altre opere scritte certamente da Bartolomeo Anglico sono le Allegoriae simul et tropologiae in utrumque Testamentum e le Allegoriae Veteris et Novi Testamenti. Sono invece di attribuzione incerta il Chronicon de Sanctis, i Commentaria in evangelia Marci et Matthei, la serie di Postillae Sacrae Scripturae e i Sermones.
L’opera magna di Bartolomeo resta senza dubbio il Liber de proprietatibus rerum, opera di taglio enciclopedico tra le più diffuse, citate e tradotte nel corso di tutto il Medioevo, che raggiunse l’apice della propria fama durante il Duecento anglo-europeo. Un’opera completa e in sé semplice, composta al fine di incontrare le esigenze di un pubblico di lettori, tanto ampio, quanto vario. La maggioranza dei testimoni risale al secolo XIV. Oggi ne abbiamo circa duecento esemplari, a cui va aggiunta l’editio princeps a stampa pubblicata a Norimberga nel 1492. Numerose anche le volgarizzazioni, in particolare due-trecentesche: una traduzione anglo-normanna anonima del Libro XV risalente al 1260 all’incirca, un compendio in dialetto mantovano del notaio e letterato Vivaldo Belcalzer, un Livre des proprietez des choses (traduzione dal latino al francese eseguita nel 1372, da Jean Corbechon, su richiesta di Carlo V e contenente un’allegoria della Creazione divina), una versione provenzale anonima avente per titolo Elucidari de las proprietats de totas res naturals imbastita per il Conte Gastone Febo III nel 1391, una traduzione inglese opera di John Trevisa del 1398, due versioni spagnole quattrocentesche (la prima è il frutto di un rimaneggiamento del testo latino del De proprietatibus rerum sulla base di un solo ed unico manoscritto, mentre la seconda ci è stata tradita da un incunabolo del 1494 attribuito al monaco Vicente de Burgos) e infine una traduzione fiamminga senza indicazione di autore stampata nel 1485.
Il Liber de proprietatibus rerum è, per contenuto e struttura, una enciclopedia di storia naturale, consacrata ad ogni ramo del sapere e con l’ambizione di rispecchiare ogni aspetto della Creazione. Nel medesimo tempo, il Liber è un bestiario, un lapidario – tipica tradizione basso-medievale, da Villard de Honnecourt a Cecco d’Ascoli – un trattato di teologia biblica e un’opera di astronomia-astrologia (nel Duecento, si sa, marciavano ancora insieme). L’ordine interno all’opera segue, come detto nel prologo, quello della gerarchia del cosmo (un cosmo naturalmente ancora geocentrico). Il numero XIX dei Libri arriva anche dalla somma dei dodici segni zodiacali e dei sette pianeti (per Bartolomeo Anglico, come, poi, per il gesuita Kircher, septenarius numerus arcana continet mysteria). L’universo è quello retto dal Dio medievale. La scrittura dell’enciclopedia è alfabetica, per paragrafi. Gli aspetti naturalistici e quelli celesti (ad esempio, l’osservazione di stelle e astri) sono al centro degli interessi, religiosi e scientifici, insieme, di Bartolomeo Anglico.
Il Liber di Bartolomeo Anglico ha precisi rapporti con la rete del genere enciclopedico, sia alto, sia basso-medievale. Attestazione del fervore intellettuale inglese duecentesco – e, più in generale, del rinascimento seguito all’anno Mille – l’opera del teologo inglese è specchio di un’epoca, caratterizzata dalle traduzioni arabo-latine dal greco, dalle missioni pastorali degli Ordini mendicanti, dagli studi di esegesi scritturale, dalla predicazione e dal recupero del sapere scientifico, dalla formazione del clero e dei laici, da una nuova pedagogia. La compilazione enciclopedica di Bartolomeo Anglico può ricordare – di fatto la anticipa – quella del monaco e geologo Ristoro d’Arezzo, contemporaneo di Dante, nonché altri exempla illustri di analoga produzione, tra i quali il De naturis rerum di Alessandro di Neckham (1157-1217) – abate di Saint Albans, teologo e uomo di scienza, letterato e poeta in lingua latina, oltre che tra i massimi esponenti della scolastica inglese – il De natura rerum di Tommaso di Cantipré (tra i primi a studiare le realtà inferiori) e l’imponente Speculum Maius del frate domenicano Vincenzo di Beauvais.
Eclettico e sincretista, Bartolomeo Anglico impiega un centinaio e più di fonti eterogenee. Fa uso di testi patristici di teologia ed esegesi biblica (la Glossa ordinaria di Gilberto Porretano, la Historia ecclesiastica di Pietro Comestore, oltre a Sant’Agostino, Girolamo, Ambrogio, Gregorio Magno, Pietro Lombardo, Ugo e Riccardo di San Vittore, lo Pseudo-Dionigi, Rabano Mauro, le opere di Boezio sopra la musica e l’aritmetica pitagorica, la Summa aurea di Guglielmo di Auxerre ed il De fide orthodoxa di Giovanni da Damasco). Quanto alle fonti di natura più propriamente scientifica, classiche e medievali, abbiamo la Naturalis Historia pliniana, i trattati aristotelici ed i loro commenti, gli opere zoologiche di Avicenna, quelle mediche e astronomiche di Michele Scoto (l’astrologo di Federico II di Svevia, presso Castel del Monte), Ippocrate e Galeno, le traduzioni di Costantino Africano, scritti riconducibili alla Scuola salernitana, il Liber Canonis avicenniano nella versione di Gerardo da Cremona, senza scordare Dioscoride, Plateario, Tolomeo (per l’universo geostatico rappresentato geometricamente) ed Averroè, nonché il De colore di Roberto Grossatesta (tra i manifesti scientifici dell’Università di Oxford). Tra le fonti classiche greco-latine, Bartolomeo utilizzò - infine - Cicerone, Ovidio, Orazio, Lucano, Erodoto, Omero e Platone.
Altro materiale, stavolta duecentesco, Bartolomeo Anglico impiegò per il suo Liber, dimostrando, con ciò, le proprie capacità di aggiornamento culturale. L’erudito inglese citò di fatti Alano di Lilla, Alessandro di Hales, Gilles de Corbeil, Everard de Béthune, Jacques de Vitry, Pietro di Spagna, Pierre Riga, Innocenzo III, Riccardo di Cornovaglia e Guglielmo di Conches. Il Liber fu il lavoro di una vita, composto in più luoghi – tra Parigi e Magdeburgo, principalmente – a partire dal 1217, circa. A partire dal 1284, l’enciclopedia di Bartolomeo cominciò a divenire sempre più cercata e richiesta, sul mercato dei codici manoscritti. La finalità del Liber era didattica, ma non solo: voleva mettere a disposizione, di chi non poteva possedere una vasta biblioteca, un ampio bagaglio di conoscenze. Il Liber era una guida al mondo, in linea con il dettato biblico e con i misteri delle Sacre Scritture: «est presens opusculum compilatum, utile mihi et forsitan aliis […] ad intelligenda enigmata Scripturarum, que sub symbolis et figuris proprietatum rerum naturalium et artificialium a Spiritu Sancto sunt tradite et velate». Nel Libro III, Bartolomeo ricorda che «in his ergo et in aliis operationis nature conditionibus admiranda est divina sapientia, que per ista et talia consimilia dat nobis quadammodo intelligere qualiter per ista sensata materialia ad intellectum eorumque sunt supra sensum sint paulatim cordis interiora ad intelligentiam spiritualium promuovenda. Et proper hoc simpliciter est in hoc opuscolo mea intentio et finis meus». Quanto allo stile del Liber, esso prediligeva esigenze di chiarezza, con scelte lessicali accessibili ai più. Notevole l’attenzione per la grammatica, arte del trivium che in Inghilterra Beda aveva, tra il VII e il VIII secolo, molto valorizzato, in ambito monastico. Il desiderio inoltre di unire scienze e lettere, religione e storia evoca inoltre l’enciclopedismo di Giovanni di Salisbury. Il Libro I dell’opera tratta di Dio e dei suoi attributi, del mistero trinitario secondo Sant’Atanasio – vincitore su Ario, al Concilio di Nicea del 325 – di gerarchie angeliche (serafini, cherubini, dominazioni e troni), e dell’anima e ragione umane. I Libri II e III portano avanti (e completano) il discorso sul mondo immateriale della teologia. I Libri dal IV al VII (la sezione più vasta e dettagliata di tutta l’enciclopedia) esaminano la natura umana e gli elementi. I Libri VIII-IX sono dedicati alla cosmologia: il mondo terrestre, le sostanze celesti, gli astri e i fenomeni luminosi nell’universo, le tecniche di misura del tempo ed il moto: è la parte migliore e forse più suggestiva dell’opera. I Libri dal X al XIII concernono i quattro elementi tradizionali (aria, acqua, terra e fuoco): le disquisizioni sulla materia e forma dei fenomeni, sulla meteorologia e gli spazi celesti sub-lunari, sugli uccelli, i pesci, i monti, i territori e le nazioni – anche quelle nordiche, con vari cenni storici di non second’ordine ad incursioni vichinghe in Irlanda e Inghilterra, ai rapporti mai facili tra Isole britanniche e genti del Nord, ad archeoastronomia, tecniche navali, miti religiosi, battaglie, usi e costumi dei Vichinghi – su metalli, pietre preziose, piante e fauna terrestre risentono ovviamente, non poco, della sintesi aristotelica. L’ultimo Libro, infine, vuole rappresentare un’appendice, a proposito di teoria dei colori, pesi, strumenti musicali e di misurazione. Il segno di un rinato interesse per il mondo delle tecniche e dei mestieri, della produzione materiale e della pratica artigiana.


Nell'immagine, I quattro elementi e lo Zodiaco nel De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico.


Fonti primarie a stampa


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Documento inserito il: 02/07/2025
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