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Abusi sulle lavoratrici domestiche in Arabia Saudita [ di Michele Strazza ]

Tra i numerosi diritti violati in Arabia Saudita, il luccicante Paese visitato recentemente da Donald Trump alla ricerca di buoni affari per sé e per gli USA, vi sono quelli riferiti alle migliaia di immigrate straniere, assunte come “colf” nelle case delle famiglie saudite.
L’Arabia Saudita ospita più di mezzo milione di immigrati dediti ai lavori domestici, provenienti per lo più dall'Africa, dal subcontinente indiano e dal sud-est asiatico.
Dopo aver pagato somme esorbitanti alle agenzie di reclutamento dei loro Paesi d'origine, in cambio della documentazione necessaria, spesso anche opportunamente falsificata, ogni anno migliaia di donne e ragazze giovanissime partono ignare delle condizioni di vita e di lavoro che li attendono: vessazioni, abusi, stupri, torture e, a volte, anche uccisioni.
Già nel 2010 ci furono casi di veri e propri omicidi. Quell’anno, infatti, il governo dell'Indonesia chiese l'apertura di un'inchiesta dopo aver appreso che una connazionale di 36 anni che lavorava come domestica era stata uccisa dai suoi datori di lavoro, i quali poi ne avevano abbandonato il corpo sul ciglio della strada.
La conseguenza fu l’invio ad Abha, la città dove era accaduto, di una squadra investigativa per appurare la veridicità della segnalazione. Una commissione d'inchiesta era già ​in Arabia Saudita per verificare le accuse di tortura contro un'altra domestica indonesiana, ricoverata in un ospedale a Medina con “il viso pieno di tagli inferti con un paio di forbici, un'ustione con la forma del ferro da stiro e un'emorragia interna dovuta a percosse”. La datrice di lavoro venne arrestata dalle autorità saudite che si scusarono per l'accaduto, definendolo "un'eccezione". Ma la realtà era ben diversa: non era affatto un caso isolato.
Il Kenya, ad esempio, ha dichiarato che circa 274 donne keniote sono state uccise dai datori di lavoro sauditi, con un aumento esponenziale che raggiunge anche il 55% da un anno all'altro.
Non tutti i governi dei Paesi di provenienza delle donne, però, protestano per le torture e i maltrattamenti cui sono sottoposte le proprie concittadine Come l’Uganda che non si è mossa adeguatamente, neanche quando è venuta alla luce il caso di una donna ugandese “il cui corpo presentava estese contusioni e segni di elettrocuzione”, ma la cui morte era stata certificata come "naturale".
Non sono poche le donne che cadono dai tetti, dai balconi, dalle condutture dei condizionatori d'aria, nel tentativo di fuggire dalle soffitte dove sono state segregate.
Non a caso il rapporto 2024-2025 di Amnesty International sull’Arabia Saudita ha recentemente riacceso i riflettori sul fenomeno. Nonostante alcuni provvedimenti normativi, le condizioni di vita e lavoro dei lavoratori domestici, sottoposti a diverse forme di sfruttamento, sono ancora estremamente precari. Tutta la materia del lavoro domestico, infatti, è in balia della libera negoziazione dei datori di lavoro, senza neanche il limite di un salario minimo.
Tutto il meccanismo legale del lavoro domestico in Arabia Saudita è fondato sul sistema della sponsorizzazione da parte dei datori di lavoro, chiamato “kafala”, che attribuisce a quest’ultimi, dopo aver pagato le spese di intermediazione, diritti esclusivi su ingresso, residenza, lavoro e uscita dal paese di destinazione delle lavoratrici. In definitiva, la “kafala” permette una forma di lavoro in cui al datore di lavoro viene concessa il pieno controllo, non solo sull’attività della lavoratrice, ma sulla totalità della sua persona.
Anche se formalmente vietato, alle lavoranti domestiche viene sequestrato il passaporto e, spesso, sottratto il telefonino. Trattate come schiave, vengono negate loro anche le cure sanitarie.
Vi è, poi, il ricco giro d’affari in cui sono coinvolte le agenzie di reclutamento e di intermediazione, con contratti spesso fatti firmare con raggiri, in una lingua non conosciuta dalle lavoratrici che non immaginano di essere state vendute come prodotti commerciali.
Sottoposte ad aggressioni fisiche di ogni genere, private di cibo adeguato, riposo, ferie, sonno, senza una giusta retribuzione, sono spesso vittime di ricatti, prigionia e stupri.
Molte donne bengalesi, ad esempio, sono tornate in patria con gravi disturbi mentali, dopo aver tentato il suicidio. Altre hanno fatto rientro in stato di gravidanza. Solo nel 2019 dall’Arabia Saudita sono stati riportati i corpi senza vita di ben 48 donne bengalesi.
Sempre nel 2019, all’inizio di novembre, è diventato virale sul web il video di una lavoratrice emigrata in Arabia Saudita dal Bangladesh, Sumi Akhter, di anni 25. Nel filmato la donna denunciava a volto scoperto i soprusi subiti: “Forse, non vivrò a lungo. Mi hanno rinchiuso per 15 giorni, a malapena mi hanno dato da mangiare. Mi hanno bruciato le mani con olio bollente”.
Nonostante le numerose segnalazioni riportate dai media internazionali e la paura delle donne bengalesi di denunciare alle autorità torture e percosse, per paura di ritorsioni, il governo del Paese di provenienza non si è mai mosso, preoccupato di perdere i vantaggi dell’accordo firmato nel 2015 con l’Arabia Saudita per l’invio delle lavoratrici domestiche.
Solo dal 2015 al 2018 oltre 5.000 di queste lavoratrici sono fuggite per ritornare in patria, a causa di maltrattamenti e abusi subiti, anche di natura sessuale.
Di fronte a tutta questa situazione molte nazioni di provenienza delle lavoratrici si sono viste costrette a adottare nuove norme, riducendo il numero di anni consecutivi in cui una migrante può prestare la propria opera e stabilendo salari minimi. Così si è mosso il governo vietnamita, dopo che molte delle migliaia di lavoratrici domestiche, recatesi in Arabia a seguito di un accordo siglato nel 2014, hanno denunciato percosse e umiliazioni subite. Alle stesse era stato anche negato il diritto a sentire i propri familiari e a uscire di casa. Costrette a lavorare per 18 ore consecutive, potevano consumare solo un pasto caldo.
A mettere la classica “ciliegina sulla torta” in tutta questa orribile storia di abusi da parte delle ricche famiglie saudite è intervenuta, già nel 2017, la notizia di domestiche vendute come schiave su Twitter dai loro padroni.
Come ha scritto la giornalista di “Avvenire” Antonella Mariani, i primi annunci sono apparsi alla fine del 2017, poi, visto il buon andamento del business, sono stati raggruppati in account dedicati e, infine, si sono trasferiti dal digitale alle bacheche dei centri commerciali. “Cedesi domestica, ventiseienne, brava in cucina e disponibile con i bambini. Prezzo: 4.500 euro compreso il trasporto”; questo è uno dei tanti annunci pubblicato da una famiglia saudita. Talvolta è previsto anche un periodo di cessione temporanea, una sorta di prova “soddisfatti o rimborsati” in cui la lavoratrice non ha alcuna voce in capitolo. Chissà cosa pensano di tutto questo le migliaia di turisti italiani che ogni anno si recano nella bellissima Arabia Saudita?


Bibliografia di riferimento

Amnesty International, Rapporto 2024-2025, Arabia Saudita, Formigine (MO), Infinito Ed., 2025.
Attanasio D., Nessuno ferma la strage delle domestiche straniere assassinate in Arabia Saudita. Ogni anno molte donne emigrate in cerca di una vita migliore vengono abusate e uccise dai loro datori di lavoro sauditi, “Marie Claire”, 20 marzo 2025.
Dachan A., La denuncia. L'Arabia Saudita non è un Paese per donne, “Avvenire”, 13 ottobre 2018.
Mariani A., Arabia Saudita. Colf straniere come schiave: in vendita su Twitter, “Avvenire”, 27 febbraio 2018.
Nena News”, 28 novembre 2019. “la Repubblica”, 28 febbraio 2019.Documento inserito il: 17/05/2025
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