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Sepoltura e morte tra Medioevo ed Età Moderna: dalle pratiche funerarie agli scolatoi per cadaveri

di Francesco Servetto


Seppellire i morti è una pratica propria di ogni cultura umana ed è quel gesto che inscrive l’attore in una cornice spirituale ben distante dallo stato di natura selvaggia. La coscienza si insinua palpitante nell’imbattersi con l’evento della dipartita: chi resta manifesta un profondo rispetto verso chi si è incamminato per quel lungo viaggio di cui nulla si sa di certo e, a seconda delle declinazioni culturali, sente il dovere di rendere omaggio e di fornire una sorta di luogo degno dell’eterno riposo. Sepolture cerimoniali rivelano antichissimi momenti di commozione, qua e là si trovano oggetti in qualche modo utili a ricordare un legame con il mondo dei vivi e, spesso, chi seppellisce si preoccupa di garantire un trapasso degno del più profondo affetto. Il corpo nel momento delle esequie è al centro di una dimensione sociale in cui la comunità si raccoglie in cerimonie collettive, secondo il paradigma per cui più sono stretti i legami tra appartenenti a uno stesso gruppo, maggiore è la partecipazione in termini numerici. L’antropologo Robert Hertz sostiene l’individuazione di tre protagonisti in quello che definisce «dramma sociale», il cadavere, l’anima e i superstiti. Se guardiamo alla nostra cultura occidentale e digitale, siamo ormai lontani dal contatto con tale avvenimento, quantomeno distaccati; quasi sempre interviene il processo di ospedalizzazione, tanto che si potrebbe delineare una parabola che parte dal momento della nascita, per giungere a quello della dipartita, tranne negli ovvi casi di morte improvvisa.
Non è necessario andare granché a ritroso, per individuare comportamenti, nella società di alcuni decenni fa, in cui nascere e morire erano momenti casalinghi. Se da una parte la forte religiosità che permeava il pensiero comune giocava un ruolo innegabile, dall’altra appare piuttosto evidente come non si trattasse di una mera convenzione dettata dalle regole del dogma, ma piuttosto un rito declinato in un determinato modo dai tratti comuni con la maggior parte delle culture umane. Seppellire i cadaveri nella terra o in loculi è in assoluto l’evento più presente al momento del trapasso nelle varie società umane, ma anche soluzioni come le torri del silenzio delle culture zoroastriane iraniche possono essere considerate alla stessa maniera, quantomeno a livello di scopo. In aree circoscritte sulla cima delle torri, protette da alte mura, erano lasciate le salme esposte all’azione disgregatrice degli uccelli sarcofagi, poiché si riteneva che avrebbero mondato i cadaveri dalle impurità cibandosi delle parti molli. Il corpo del defunto non era infatti considerato degno di entrare in contatto gli elementi, terra acqua e fuoco, poiché si credeva venisse contaminato da demoni dopo il trapasso, motivo per cui necessitava di essere purificato dal pasto dei rapaci. Una volta ripulite dei tessuti e della carne, le ossa venivano fatte confluire all’interno delle torri stesse, dove si univano a quelle degli antenati. Il culto ha origini antichissime, dal momento che vi sono attestazioni che risalgono al VII secolo p.e.v., ed è sopravvissuto, seppur in maniera molto circoscritta, sino a poco dopo la metà del secolo scorso.
Certo, quando si pensa alla morte, l’idea che essa appiani tutte le differenza tra i vivi, come nella splendida poesia di Totò ‘A livella, rincuora gli animi; purtroppo, le società umane hanno quasi sempre effettuato distinzioni tra morti e morti, basti pensare alle sepolture monumentali, ai vari mausolei fatti costruire da personaggi potenti, nonché alle fosse comuni dove venivano gettati non solo i reietti, ma anche i morti in battaglia o i prigionieri. Con l’eccezione di alcune correnti islamiche, come accade in Arabia Saudita persino per i sovrani, che sono seppelliti sotto semplici tumuli di pietra, sembra che la morte sia anche un fatto politico, oltreché religioso.
Se guardiamo all’alto Medioevo, lo storico Philippe Ariès parla di «morte addomesticata», sostenendo come l’umanità dell’epoca fosse più preparata al trapasso, andandovi incontro con minore angoscia, rispetto ai secoli bassomedievali, quando invece sarebbe mutato l’approccio, decisamente maggiormente permeato da preoccupazione e smarrimento. Sostenere una tesi del genere, secondo altri specialisti, come Norbert Elias, è piuttosto complicato, ma si può tentare di comprendere i sentimenti delle persone nei confronti della morte analizzando ciò che è rimasto in letteratura, nonché tra i reperti materiali, quali sepolture e cimiteri. Andando a ritroso, appare utile individuare le disposizioni in termine di approccio al tema da parte di coloro i quali hanno delineato il sistema di pensiero protagonista della lunga stagione medievale, il cristianesimo.
Agostino di Ippona scrisse tra il 421 ed il 422 il De cura pro mortuis gerenda, un trattato in cui delineava i comportamenti corretti da tenere nei confronti dei defunti. Ivi, il corpo è visto come una sorta di contenitore deperibile a cui dare un’importanza relativa, per usare un eufemismo, mentre il vero oggetto della cura e del rispetto diventa l’anima. Pregare, celebrare l’eucaristia e offrire l’elemosina in onore dei defunti sono le disposizioni da seguire per il buon cristiano. Nell’antichità, invece, la cura del cadavere era decisamente più sentita, i morti venivano lavati e vestiti con abiti puliti, quasi sempre per opera delle donne, perché fossero preparati al meglio per raggiungere l’al di là, evitando così che tornassero a tormentare i vivi, come era credenza comune. Solo con i santi, nell’era cristiana si ha una venerazione per il defunto, spesso se ne traslano le reliquie, quando non se ne fabbricano dal nulla. Gli stessi santi diventano i destinatari delle preghiere dei vivi per i propri morti, sono considerati gli unici latori degni che possano svolgere il ruolo di cerniera tra il mondo dei vivi e l’Oltretomba, ricucendo così la naturale cesura tra i due regni.
Tra VIII e IX secolo, sono attestati i primi interventi della Chiesa volti a contrastare le pratiche arcaiche di cura dei trapassati, che vengono così considerate alla stregua di superstizioni. Si diffonde la pratica delle messe per i defunti, con relative preghiere e i cimiteri diventano la casa dei soli estinti cristiani. Se nelle necropoli antiche era uso comune seppellire chiunque, al di là delle convinzioni religiose, con l’alto Medioevo i luoghi di sepoltura sono consacrati, diventano terra benedetta, sottoposti al controllo delle gerarchie ecclesiastiche; la pratica dell’estrema unzione e della confessione sul letto di morte acquistano una valenza simbolica necessaria per il fedele, per il regolare e obbligatorio processo di distacco tra anima e corpo. In età carolingia i monaci sono i responsabili delle ultime pratiche relative al fine vita del moribondo, al suo accompagnamento spirituale, tanto che giungono persino a redigere i testamenti. Se la prassi appare codificata e seria, i luoghi di sepoltura sono vissuti ancora con un senso arcaico dalle popolazioni, specialmente nelle zone rurali, e in essi si riuniscono per le più disparate attività gruppi umani, sia per tenere mercati, sia per riunirsi con scopi giuridici, ma anche per condividere momenti di convivialità, tra balli e chiusure di accordi commerciali. Nell’XI secolo è istituita per mano dei monaci di Cluny la festività del 2 novembre, in cui sono commemorati tutti i defunti, ma è con il XIII secolo che avviene una svolta nella celebrazione del rito delle esequie. Nelle chiese sono commemorati i morti, anche per via del processo di individualizzazione scaturito dal IV Concilio Lateranense, in cui riveste un ruolo marcato la confessione, che stabilisce un contatto tra istituzione ecclesiastica e fedele, di forte valenza spirituale. Parallelamente, il corpo riconquista una certa importanza, soprattutto per quelle personalità, come i sovrani, le cui spoglie sono talvolta smembrate perché siano adorate in più luoghi, talaltra protette perché se ne conservi l’integrità fisica.
Sono prodotti sepolcri di pregevole fattura, in cui spiccano sculture di figure trapassate, come nel caso della celebre tomba del cardinale Jean de la Grange, morto nel 1402, parzialmente distrutta durante la Rivoluzione francese, ma di cui si ha un disegno del XVII secolo che aiuta a comprendere il sentimento di quegli anni verso il momento del trapasso. Strutturata su sette livelli, ai piedi del sepolcro è scolpito un transi, un cadavere in putrefazione, elemento piuttosto recente dell’arte scultorea dell’epoca che si affaccia sulla scena in Francia intorno al XIV secolo. Se prima chi poteva permettersi una rappresentazione sulla lapide, solitamente commissionava una figura ripresa in atteggiamento sereno, abbigliato secondo la propria classe sociale, solitamente si trattava di nobili, di ecclesiastici o di sovrani, con l’affacciarsi sulla scena dei suddetti transi, si ha dunque un cambiamento nel messaggio che si vuole far intendere al visitatore: si staglia con la propria ineluttabile potenza quel memento mori, tipicamente medievale, secondo cui tutti devono essere messi in guardia della fine a cui andranno incontro. Ecco che la rappresentazione di cadaveri erosi dai vermi, ridotti a macabri scheletri su cui aleggia un alone di terrore, o quantomeno di orrifico sentore, come se si percepisse l’olezzo delle carni in putrefazione tentare di attentare allo stomaco e alla salute del visitatore, diventa un invito all’umiltà e al pentimento. La citata tomba del cardinale de la Grange fa trasparire le medesime sensazioni. Il cadavere rappresentato, emaciato, corrotto nella carni, rivela la cassa toracica oramai ridotta a costole che paiono sfrangiare la pelle, sfaldarla sino alla frantumazione, con lo scopo di erompere in uno squarcio definitivo. Sopra al corpo marcescente adagiato, una serie di ritratti cadaverici, da quanto se ne evince in numero di sette, un galero, il cappello ecclesiastico a tesa larga, di cui rimane un esiguo frammento, un filatterio in caratteri gotici in lingua latina, in cui è riportata la frase «Siamo uno spettacolo per il mondo. Possano grandi e piccoli, col nostro esempio, vedere chiaramente in quale stato saranno inesorabilmente ridotti, qualunque sia la loro condizione, il loro sesso o la loro età. Perché allora, miserabile, sei pieno di orgoglio? Sei cenere e cenere tornerai, un cadavere fetido, cibo e sostentamento per i parassiti».
Nella parte superiore del monumento, si trova un gisant, una scultura funeraria tipica dell’arte cristiana, in cui il soggetto è rappresentato sdraiato e, solitamente, negli abiti propri della sua condizione in vita. Il cardinale è rappresentato con la mitra in testa, oggigiorno parzialmente distrutta, e poggia il capo su un cuscino finemente decorato. Sull’abito sono ritratti particolari della crocifissione, con una maestria degna di nota, con al centro Cristo in croce e ai lati quattro personaggi, di cui si può almeno individuare con una certa percentuale di probabilità quelli che guardano direttamente Gesù, Maria e san Giovanni, sulla base della ricorrenza del tema nell’iconografia medievale. Va notato infine, come nella totalità del monumento, siano da considerare, oltre i due livelli citati del transi e del gisant che formano la vera e propria parte sepolcrale del tutto, altre cinque parti, perdute, ma di cui le proporzioni rimaste, come una statua della Vergine alta 1,27 m, porterebbero ad una dimensione completa di una decina di metri.
Siamo in anni cui è fiorente l’arte macabra ed è presente sulla scena, addirittura sin dal Duecento, il tema dei tre morti e dei tre vivi: uno scambio dialettico tra due gruppi di giovani e cadaveri in cui spicca la sentenza di uno dei defunti che dice «ciò che voi siete, noi lo siamo stati, ciò che noi siamo voi sarete». Il concetto di macabro prende piede nella società, si insinua nel pensiero e nelle gesta, tanto che in letteratura come nella danza ottiene un notevole seguito. Storici e semiologi vedono nell’etimologia del termine due possibili soluzioni, la prima che riconduce all’onomatopeico clangore di ossa sbattute tra loro, la seconda legata alla locuzione latina mactorum chorea, danza di magri. La ripugnanza del cadavere, il terrore della morte e con essi il rapimento dello sguardo dell’osservatore sottolineano tempi in cui morire diventa una preoccupazione, soprattutto per quel che riguarda la morte improvvisa. Se le pestilenze aumentano il sentore di incertezza dell’esserci oggi e non più domani, spirare in regime di peccato mortale con la conseguente dannazione eterna è un timore dalle notevoli proporzioni.
Come si è detto precedentemente, un aspetto da tenere in considerazione relativo al sentimento verso la morte è quello legato al legame che si tenta di mantenere tra vivi e defunti. Se racconti sugli spiriti fanno la loro comparsa già dal X secolo, sarà dopo la metà del XII secolo che essi troveranno maggiore diffusione. In questi anni, infatti, è codificato il Purgatorio, il luogo che si trova a metà tra Inferno e Paradiso, in cui albergano le anime di coloro i quali non sono così retti da poter aspirare al regno superiore, ma tramite espiazione di colpe, potranno ivi essere assunte. L’anima, pur essendo spirituale, è tormentata dalla sofferenza nell’Inferno, laddove dovrà permanere per l’eternità, ma anche nel Purgatorio stesso e le preghiere, nonché le indulgenze in mano della Chiesa potranno restituirle l’accesso al regno di Dio.
Nell’immaginario collettivo, i morti appaiono in circostanze spaventose, come nel caso della masnada di Hellequin, di cui parla Olderico Vitale nella sua Historia Ecclesiastica, compilata tra il 1123 e il 1137. In essa è riportato che un certo Guachelmo, prete normanno di Saint-Aubin de Bonneval, si sarebbe imbattuto in una sfilata di cadaveri, una sorta di esercito terrificante, la notte del primo gennaio del 1091. Tra essi avrebbe riconosciuto alcune persone morte recentemente, quali chierici, cavalieri, monaci, ma anche donne disoneste. Convinto di trovarsi di fronte all’esercito infernale di cui da tempo si raccontavano leggende, la cosiddetta familia Herlechini, avrebbe tentato di fermare uno dei cavalieri, ma sarebbe rimasto ustionato dal contatto con la di lui armatura e un altro cavaliere, in cui avrebbe riconosciuto il proprio fratello, lo avrebbe salvato dalla reazione violenta del primo. Il congiunto gli avrebbe chiesto di pregare per lui e di concedere elemosine in suo onore, di modo che venisse accorciato il periodo di espiazione dei propri peccati. Olderico Vitale nella propria opera afferma di aver registrato le confessioni direttamente dallo stesso Guachelmo, il quale avrebbe vissuto altri quindici anni dopo il citato avvenimento. Già nel X secolo appare il concetto di esercito furioso, negli scritti di Reginone di Prüm, secondo il quale, tuttavia, esso sarebbe composto di individui morti in maniera improvvisa o violenta, rancorosi per il destino che non ha concesso loro di condurre una vita diversa, desiderosi perciò di tormentare i vivi.
I vivi, d’altronde, restano in un mondo all’apparenza uguale, ma mutato, proprio perché l’assenza del caro estinto delinea tutta una serie di cambiamenti che si ripercuotono sul quotidiano, sulle abitudini come sulle sicurezze, che talvolta vengono addirittura meno. Da un punto di vista affettivo, poi, i legami permangono anche dopo l’ultimo saluto, soprattutto nei primi anni dalla dipartita. Il rispetto per i defunti si protrae nel tempo fin tanto che esista una memoria condivisa e se le sepolture paiono sottolineare spesso diversi inquadramenti sociali, sullo sfondo della storia appaiono singolari costumi le cui peculiarità strabiliano l’occhio dell’uomo del XXI secolo.
A Palermo si trova un cimitero ipogeo presso il convento dei Cappuccini che conserva la collezione più numerosa di mummie risalenti ad un’epoca compresa tra il XVI e il XX secolo. Edificato nel 1534, il suddetto convento iniziò ad ospitare i corpi dei frati deceduti nelle proprie catacombe, scavate nella calcarenite, in un ambiente in cui il clima ha consentito la conservazione naturale dei corpi, permettendo un processo di mummificazione non artificiale e di relativa essiccazione delle spoglie umane. In tal modo, si riscontra una compatibilità con il cosiddetto rituale della “doppia morte”, presente nell’area dell’Italia meridionale. La Sardegna, Napoli, il Cilento, il territorio campano in generale, così come aree della Puglia, della Lucania e della Calabria, sino alla stessa Sicilia, erano caratterizzate da un comune atteggiamento diffuso verso la morte che si può descrivere come un processo di accompagnamento del defunto nell’al di là, seguendo determinate direttive, consistenti nella purificazione delle spoglie. Il cosiddetto rito della “doppia morte” prescrive, infatti che il cadavere sia svuotato dei liquidi corporei, restando seduto in una sorta di pre-sepoltura su appositi sedili, in cui far colare lentamente e con un processo naturale i liquidi corporei che vengono perduti dopo il decesso. Si tratta di nicchie e di sedili in muratura muniti di un sistema per il deflusso dei suddetti liquidi, come nella scena descritta dal medico palermitano Salvatore Salomone Marino nel 1830: «Il cadavere di un uomo sui trent’anni stava accomodato in una sedia a braccioli, vestito di tutto punto, con le mani conserte […]. A destra e a sinistra di lui, due donne accoccolate sur un panchetto, con le chiome disciolte».
Nel XVII secolo il citato convento dei Cappuccini di Palermo inizia ad ospitare un maggior numero di corpi, tanto che si rendono necessari lavori di ampliamento della cripta. Inizia, infatti, a diffondersi l’usanza per le persone più abbienti, di inumare i propri cari estinti nel suddetto ipogeo, dando avvio ad un’usanza di rispetto per i defunti piuttosto singolare. Essi, mummificatisi per via naturale, sono oggetto di visita da parte dei sopravvissuti, i quali li venerano con profonda ammirazione. Vero e proprio status symbol, oggetto di ostentazione, trasferire i propri defunti nelle catacombe cappuccine è a tutti gli effetti, soprattutto dal secolo XVIII, quando le dimensioni delle stesse raggiungono l’apice, il modo più prestigioso di rendere omaggio a chi ha lasciato questo mondo per le alte sfere ecclesiastiche e per gli appartenenti alla nobiltà.
La preparazione del morto avveniva in due fasi distinte: dapprima si lasciavano colare i liquami cadaverici, ponendo il corpo in camere dedicate, definite “colatoi”, in posizione supina su coppi di terracotta o seduti sui citati sedili, al di sotto dei quali correvano canali di drenaggio; quindi, la seconda fase prescriveva l’esposizione dei cadaveri all’aria, il lavaggio degli stessi, la vestizione e il collocamento in nicchie murali o in bare di legno. Da questo momento, essi erano pronti per essere oggetto di visita dei parenti.
Attualmente, sono stati contati 1852 corpi, di cui 1252 esposti e 600 adagiati nelle bare. Tuttavia, esistono ossari murati e camere di imbalsamazione che contengono bare, per cui il numero delle mummie potrebbe essere superiore. Esisteva, oltra la citata tecnica di mummificazione naturale, anche un sistema artificiale, sviluppatosi nel tempo in seguito al miglioramento delle tecniche di conservazione, che prescriveva la totale o parziale eviscerazione del cadavere ed il trattamento tramite sostanze chimiche, per iniezione o immersione.
Il peculiare clima che ha consentito il processo di mummificazione naturale è stato favorito da un sistema di aerazione benefica all’interno della zona ipogea, ma nel corso dei secoli il territorio ha subito profondi cambiamenti, che hanno portato, soprattutto dopo l’edificazione delle aree circostanti e l’aumento dell’inquinamento dagli anni ’60 del secolo scorso, ad un deterioramento strutturale dell’edificio e delle mummie stesse.
In area svizzera, abbiamo notizia di un altro rito riconducibile al concetto di “doppia morte”, grazie al resoconto di alcuni gesuiti che si trovavano in missione presso la Valmaggia nel 1627. Eloquenti le loro parole: «quando portano il morto fuori casa, accendono un poco di paglia, e gridano per le strade: “dove va il corpo, vada anche lo spirito”. Fanno un certo trentesimo per l’anima de’ defonti, e vanno al luogo del defonto, gionti pigliano la testa in mano e cominciano a piangere dirottamente, con tanti gridi che è cosa da ridere. Tengono tutti i morti esposti in cataste, e le teste in certe cassette, e ben spesso vanno le donne, le pigliano, le lavano, e poi si mettono a gridare che paiono pazze». Gli stessi religiosi intervennero proibendo tale costume, seguendo direttive istituzionali che delineano una tendenza in età moderna da parte della Chiesa di riduzione del tempo di lutto, soprattutto nell’accompagnamento dell’anima del defunto. Vennero, perciò, aboliti quei momenti posti a metà tra il trapasso vero e proprio e l’arrivo dell’anima nell’al di là. Ciò si tradusse in un cambio di atteggiamento verso il concetto di morire che, da graduale e progressivo, si tramutò in rito con effetti immediati, una sorta di chiusura repentina di quegli spiragli che erano lasciati aperti a livello spirituale tra mondo dei vivi e mondo dei morti. Ha reso l’idea in maniera convincente lo storico Adriano Prosperi nel suo Cristianesimo e religioni primitive nell’opera di Robert Hertz, affermando che “regolando i rapporti coi morti, si davano in realtà nuove regole alla società dei vivi”.
Nel 1779, un resoconto del medico delegato del Supremo Magistrato per la Salute Pubblica del Regno di Napoli, responsabile dell’ispezione delle “terresante”, i luoghi ipogei ecclesiastici in cui avvenivano le inumazioni legate al culto della «doppia sepoltura», rende testimonianza di cosa comportasse a livello pratico un rito del genere: «si consideri quanto maggior danno si debba temere da quella barbara maniera di seppellire li cadaveri, ch’è comune in questa città ne’ luoghi detti communemente terresante. Sono queste ordinariamente sotto delle pubbliche Chiese, ed alcune a poca profondità, altre a livello delle strade, sulle quali sogliono avere le loro aperture […]. In tanti piccioli parterre si seppelliscono li cadaveri in fossi che si cavano nel terreno, e colla terra li medesimi si coprono all’altezza di tre, o quattro palmi. Questa terra che cuopre li cadaveri si lascia smossa, e senza ne anche battersi. In questi ipogei o terresante ne’ dì festivi si dice anche la Messa, e molto popolo vi concorre. Nel dì della commemorazione de’ morti ànno il costume alcuni del volgo di andare a visitare li di loro congionti, ed amici nelle terresante, spogliarli delli cenci, e vestirli di nuovo. Dopo qualche mese di tempo, si scoprono li cadaveri, altri de quali si gittano nelle sepolture, ed altri si situano come per ornamento in alcune nicchie disposte intorno alle terresante medesime, ed ivi si lasciano proseguire la loro putrefazione (la quale è, come si è detto, di lunghissima durata), e diffondere per l’aria libera i loro mortiferi effluvi».
Per quel che concerne il momento conclusivo del lungo processo di liberazione dell’anima, un resoconto di alcuni anni dopo, risalente al 1803 e stilato da un altro medico, Vincenzo Petagna, che osserva lo stato dell’ipogeo della Congregazione di S. Maria dell’Orazione e Morte detta dei Verdi, fa luce sui passaggi messi in atto: «visitai dunque il detto luogo, e trovai che era fondato secondo le regole, riguardo a giardinetti, ed al seppellirsi in essi i cadaveri; ma non potei frenare la mia sorpresa, quando nell’entrare in essa mi imbattei in una gran sala fornita d’ogni intorno di nicchie praticate nelle mura, ed in esse vi erano de’ cadaveri non già scheletri situati, che si erano da giardinetti in diverse epoche dissotterrati, e piantati lì come un ornamento della sepoltura, oltre d’infiniti teschi situati in un cornicione sopra le dette nicchie. Mi dissero che questa era un’antica pratica, e che serviva di rinnovamento della memoria de’ loro defunti. Quest’uso o meglio dissi abuso è quello che rende molto sospetta l’esalazione di quella terrasanta, perché non erano quelli scheletri preparati da mano notomica, ma cadaveri in parte corrotti, e conservati intieri per le sole articolazioni e per conseguenza capaci di emanare degli aliti pregiudizievoli alla salute». Si nota, dunque, già agli albori dell’Età contemporanea una certa preoccupazione per la salute pubblica e ciò sicuramente ha un qualcosa a che fare con l’Editto napoleonico di Saint-Cloud del 1804, di poco posteriore, che prescriveva nella sua declinazione igienico-sanitaria che i morti fossero seppelliti al di fuori delle mura cittadine.
In area napoletana, tuttavia, sono sopravvissute sino ai giorni nostri presso i ceti popolari usanze che rimandano all’idea della doppia sepoltura, come si evince dallo studio di Italo Pardo, L’esperienza popolare della morte. Tradizione e modernizzazione in un quartiere di Napoli, in cui l’autore sostiene che «dopo la riesumazione, la bara viene aperta dagli addetti e si controlla che le ossa siano completamente disseccate. In questo caso lo scheletro viene deposto su un tavolo apposito e i parenti, se vogliono, danno una mano a liberarlo dai brandelli di abiti e da eventuali residui della putrefazione; viene lavato prima con acqua e sapone e poi “disinfettato” con stracci imbevuti di alcool che i parenti, “per essere sicuri che la pulizia venga fatta accuratamente”, hanno pensato a procurare assieme alla naftalina con cui si cosparge il cadavere e al lenzuolo che verrà periodicamente cambiato e che fa da involucro al corpo del morto nella sua nuova condizione. Quando lo scheletro è pulito lo si può più facilmente trattare come un oggetto sacro e può quindi essere avviato alla sua nuova casa – che in genere si trova in un luogo lontano da quello della prima sepoltura – con un rito di passaggio che in scala ridotta […] riproduce quello del corteo funebre che accompagnò il morto alla tomba».
L’anima appare legata al disfacimento della corporeità, necessaria e possibile solo in seguito alla purificazione delle ossa, che devono essere liberate da eventuali residui di carne: le ossa stesse diventano simbolo di durata e di purezza. Nei casi in cui non avvenga ciò, la tradizione popolare parla di “male morti”, di anime che vagano angosciate in attesa della liberazione, che potrà avvenire ripetendo il rituale di pulizia del corpo. Con la riesumazione, ultimo processo nel percorso verso l’al di là dell’estinto, viene osservato lo stato dei resti e chi vi partecipa vive, secondo quanto rilevato dello studio, sensazioni forti, legate alla responsabilità di intervenire nel processo di purificazione, laddove se ne presenti la necessità. La ritualità partenopea contraddistinta dalla «doppia sepoltura» è integrata nel concetto di Purgatorio, essenzialmente una sorta di escamotage religioso finalizzato alla purificazione delle anime, e risulta compatibile con esso. L’anima è oggetto di preghiere, di messe di suffragio, e offrirà a chi è rimasto in vita un’intercessione con il sacro al minimo livello, quello più vicino al mondo terreno. Si nota, infine, come dopo la seconda sepoltura, col passare del tempo, si riducano le messe in suffragio con una certa gradualità, sino a non essere più effettuate, poiché si ritiene che l’anima si sia mondata dei peccati e sia finalmente pronta per giungere alla meta tanto agognata.


Nell'immagine, insieme di sedili in una cripta ipogea ove si lasciavano colare i liquidi dei cadaveri.


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Documento inserito il: 30/11/2025
  • TAG: morte, sepoltura, culto dei morti, mummificazione, «doppia morte», riti funerari, scolatoi, spiriti nel folklore medievale

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