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La reclusione volontaria nel Medioevo, una scelta spirituale: Allontanarsi dal mondo, restando nel mondo

di Francesco Servetto


Nel Medioevo il quotidiano rapporto con la religione nella società è vissuto con la medesima convinzione sia dall'elemento maschile, sia da quello femminile. Se il clero secolare è appannaggio degli uomini, le donne sono spesso spinte ad entrare nel clero regolare, chi pronunciando i voti seguendo una reale vocazione, chi, come capita sovente nelle classi nobiliari, per salvaguardare il patrimonio di famiglia dall'eccessiva frammentazione. Tale costume è ben documentato dal cliché letterario della giovane mal maritata, rinchiusa in convento contro la propria volontà. Qui, sotto la direzione di una badessa, la vita scorre incentrata sulla preghiera, senza alcuna possibilità di amministrare i sacramenti ai fedeli, valorizzata dal mantenimento della verginità, vera e propria conditio sine qua non per essere una buona cristiana. La vergine diventa sposa di Cristo, secondo una cerimonia attestata già dal IV secolo, e gestita dal vescovo. La condizione della donna in oggetto è paragonabile ad un vero e proprio matrimonio, in cui vige l'obbligo di essere fedele, in un'ottica di indissolubilità del legame, tanto che, nei casi di infrazione del voto, la sposa diventa Christi adultera, traditrice di Cristo. Se fino al IX secolo la cerimonia mantiene una certa sobrietà, sappiamo dal pontificale di Guillaume Durand de Mende, stilato tra il 1292 ed il 1295 che, dal XIII secolo, essa è caratterizzata da una più studiata e ricca progettualità: il vescovo deve personalmente verificare, tramite opportuna indagine, l'effettiva sincerità della vocazione, quindi, a rito in corso, deve benedire le vesti e consegnare il velo alla candidata, nonché l'anello simbolo del matrimonio e la corona, emblema di verginità. A questo punto, ella è rivestita da una purezza che la distanzia dal resto delle donne, come traspare dalle parole di Girolamo nella lettera agli Efesi, in cui afferma che, se da madre è diversa nel corpo e nell'anima rispetto all'uomo, relegata com'è nella cura e nella crescita della prole, sua massima aspirazione secondo la società, diventando sponsa Christi smette di vivere questa condizione di inferiorità biologica e spirituale e potrà perciò essere definita “uomo”.
In una società prettamente maschilista e patriarcale come quella medievale, una conquista del genere rappresenta una vera e propria svolta, una sorta di chiave per un riscatto sociale, ma sarebbe opportuno non soffermarsi solo sull'effetto, analizzando i motivi per cui esso venga propagandato. Le maglie strette dalle regole sociali, che possono apparire agli occhi di chi vive numerosi secoli dopo come semplici confini entro cui la gente protrasse la propria esistenza, testimoniano tuttavia come la reclusione forzata in convento fosse non sempre accettata di buon grado. Vari sono gli esempi letterari che lo testimoniano, come risulta, ad esempio, in una lirica francese del XII secolo, in cui una giovane di buona famiglia si lamenta di non poter vivere la propria condizione femminile, ora che ha raggiunto i quindici anni e il suo corpo sta trasformandosi in quello di una donna: “Dovrei imparare che cos'è l'amore e saper interpretare i dolci intrighi, ma mi hanno chiuso in prigione. La maledizione divina cada su chi mi ci ha messo! […] è un peccato chiudere in un convento una fanciulla come me. […] Qui la mia vita è piena di tormenti […] Sento dei dolorini sotto la cintola! Dio maledica chi mi ha fatto suora!”. Immaginando il tormento di quante giovani, come la ragazza in oggetto, vissero la violenza di essere costrette a prendere i voti, appare piuttosto razionale e, a tratti infido, lo zelo con cui autori uomini, come il già citato Girolamo, testimoniano una considerazione degna dei maschi per le monache e per la loro condizione. I monaci insegnano dentro e fuori le mura dei monasteri, predicano persino le Crociate, come nel caso di Bernardo di Chiaravalle, combattono le eresie, come quella dei Catari, avversata dalle parole dei Cistercensi; alcuni, come certi eremiti, sono veri e propri predicatori itineranti. Le monache, invece, sono confinate nei conventi e destinate ad una vita di silenzio e di preghiera. Sappiamo dalla vita di santo Stefano di Obazine (1160ca.-1180), che nessuna monaca avrebbe potuto oltrepassare la porta del monastero da viva e che, tramite uno spioncino quadrato ricavato nel muro che divide la chiesa in due parti, avrebbe potuto ricevere dal prete l'Eucarestia, unico contatto consentito con l'esterno. La donna è vista ancora come un essere più debole dell'uomo, incapace di resistere alle tentazioni del mondo secolare, addirittura un'eterna minorenne, vulnerabile, minacciata dalle insidie provenienti dall'esterno, definite da Aelredo di Rievaulx come un veleno che può corrompere attraverso la vista, il tatto e l'udito. Anche qui si insiste sulla conservazione della verginità, di quel prezioso scrigno grazie al quale, se conservato degnamente, la donna conseguirà la gloria spirituale, mentre in caso contrario sarà tormentata e oggetto di castigo. Il monachesimo femminile, incentrato sulla meditazione e sulla preghiera, assisterà, si sa, anche alle gesta di donne come Ildegarda di Bingen, di Roswitha e di Herrade di Hohenburg, ma si tratterà di mere eccezioni: di norma, infatti, gli unici libri presenti all'interno dei conventi femminili sono quelli liturgici.
Nel 1298, Bonifacio VIII emana la bolla Periculoso et detestabile, con la quale dispone che ogni religiosa rispetti la clausura: in caso contrario sarà oggetto di scomunica. Accanto al fenomeno del monachesimo femminile, esistono altri modi per vivere la religiosità in maniera costante e strutturata. Uno di questi riguarda il fenomeno delle Beghine, appartenenti al terzo ordine, che vivono in quelle piccole comunità che sorgono a fianco dei monasteri e dei conventi. Sono chiamate donne di penitenza o pinzochere a Firenze, nel nord Europa beguinae, béguines in Fiandra e nel Brabante, papelardes in Francia, umiliate in Lombardia, bizoche in alcune zone d'Italia e coquenunnes in area tedesca. Esse possono essere descritte come una sorta di semi-religiose, né laiche né monache, e le loro comunità fioriscono nel XIII secolo particolarmente nei Paesi Bassi e nella valle del Reno. A Colonia intorno al 1300 si contano 20 comunità e 164 beghine indipendenti, per un totale di 575, diventano 1000 vent'anni dopo, rappresentando quasi il 15% di tutte le donne adulte e nel 1350 se ne contano 1170. A Strasburgo nel 1330 si contano circa trenta comunità, mentre a Parigi un ventennio dopo erano così numerose da abbracciare una cifra che va dal 3% al 10% della popolazione femminile sopra i quattordici anni. In ogni comunità vivono, generalmente, da 6 a 30 beghine, con eccezioni come il caso di Le Roi di Arras, fondata da Luigi il Santo, al cui interno trovano ospitalità 72 donne. Il movimento è caratterizzato da una forte eterogeneità: laiche, monache cistercensi, virgines continentes, mulieres religiosae, mulieres sanctae, bonae viduae, suore di clausura e di lebbrosari. Elementi comuni sono la verginità (o comunque la castità nel caso siano vedove), la condizione femminile e la devozione. Sino alla prima metà del XIII secolo, esse sono considerate come figure con cui il clero riformatore possa interfacciarsi proficuamente, godendo del prezioso aiuto nella diffusione della religiosità plasmata dal Quarto Concilio Lateranense del 1215, i cui capisaldi sono il mistero dell'Incarnazione, la pratica della confessione e la comunione annuale. Alcune di loro, infatti, conoscono il latino e le Scritture, come Julienne de Montcornillon, o Ida di Gorsleeuw, o Sybillle de Gages, che traducono in volgare i testi sacri. Dopo la metà del secolo, la loro reputazione presso il Clero romano cambia. Nel 1245 il Papa ha concesso l'autorizzazione ai Mendicanti di accogliere donne nel loro ordine e alcuni gruppi di beghine si riuniscono dando vita a conventi domenicani. Qualunque religiosa non inserita in una comunità religiosa femminile è passibile di scomunica e non mancano casi di condanna a morte per coloro le quali, come accade nel 1310, per Marguerite Porète, lodano chi prega al di fuori dei tempi e dei monasteri, unendosi alla volontà divina ovunque si trovi. Con il Concilio di Vienna, tra il 1311 e il 1312, il decreto Ad Nostrum proibisce la condizione di beghina, insieme a quelle forme religiose maschili che contribuiscono a creare confusione a causa della pretesa di conoscere Dio senza un intervento della ragione o delle istituzioni. Una missione del genere pare alquanto assurda a pensatori come Lamprecht di Ratisbona, francescano, che si chiede come sia possibile che una vecchia senza cultura possa manipolare la mistica meglio d’un uomo dotto. Per Guilbert de Tournai, anch'egli francescano, l'interpretazione dei Misteri sacri e la volgarizzazione delle Scritture testimoniano la pretesa di aver compreso ciò che gli addetti ai lavori studiano con fatica, senza peraltro giungere alla completa padronanza della materia, cadendo e rialzandosi nel faticoso incedere verso il Verbo. La minaccia al monopolio sul sapere del clero è degna di attenzione, il proselitismo di cui alcune beghine sono protagoniste inaccettabile e pericoloso, sovversivo per la potenziale bomba sociale che potrebbe far deflagrare, annullando le differenze tra illetterati e letterati. I giudizi degli addetti ai lavori non si limitano alla sola attività predicatoria, coinvolgono aspetti comportamentali, arrivando a creare dei luoghi comuni nella distinzione tra beghine buone, quelle che si limitano a comportarsi similmente alle suore, restando confinate nelle loro comunità tra elemosina, preghiere e digiuno, e beghine cattive, sul cui conto pesano accuse di falsa devozione, d'ipocrisia, di malvagità. Esse sono viste come non rispettose delle regole, persino quando si occupino di svolgere attività lavorative come la tessitura, delle quali non rispetterebbero le procedure opportune, in una sorta di ribelle, se non addirittura anarchica, padronanza. Sono accusate anche di corruzione, di cedere ai piaceri della carne, di abbandonare o di sopprimere i figli nati dalle relazioni clandestine, tanto che esiste un cliché letterario riguardo la loro lubricità, come traspare per esempio nel Dit des béguines di Rutebeuf, del 1260, in cui è posto l'accento piccato su ciò che fanno sotto le vesti.
Un'altra forma di misticismo femminile peculiare dell’epoca medievale appare tra il XII e il XIV secolo, principalmente in area mediterranea, ma con importanti esempi anche in area britannica, e riguarda il fenomeno della reclusione volontaria. Essa è perlopiù legata all'elemento femminile della società, con le dovute eccezioni, e confinata nell'ambito urbano. Singole donne, ma anche piccole gruppetti, generalmente non più di tre o quattro elementi, decidono di allontanarsi fisicamente dal mondo, rinchiudendosi in locali dalle dimensioni piuttosto ridotte, quando non minuscole. Essi si trovano a fianco di chiese, oratori, cinte murarie, ponti, così come in ospedali o nei lebbrosari. Sono chiamate monache di casa, mantellate, pinzochere, bizoche, cellane, incarcerate, romite in Italia, mentre a Valladolid sono definite emparedadas, murate vive. Se ad Assisi vi è una predominanza dell'elemento maschile, altrove la tendenza è sempre ribaltata. Da un atto redatto nel 1363 a Fabriano, sappiamo che ivi risiedono 2 reclusi e 21 recluse, mentre a Roma ne sono attestate 260 nel 1320 e a Foligno, quarant'anni dopo, ne sono presenti 62. A Venezia sono chiamate heremite. Qui, nel 1268 un’abitante del monastero di San Lorenzo destina una donazione a una certa Angela, eremita di San Vito di Pellestrina, e anni dopo un'altra Agnese è citata da Francesco Minio come reclusa nello stesso eremo. Nella città lagunare gli heremitori sono dislocati su tutto il territorio urbano, principalmente nelle zone periferiche, come nelle parrocchie di San Nicolò dei Mendicoli, di San Martino, di San Cassiano e di Santa Margherita, ma anche sulle isole lagunari come Murano o Pellestrina. Sotto il tetto della chiesa dei santi Ermagora e Fortunato trovano alloggio un gruppo di cellane, una certa Sofia occupa il portico di San Nicolò dei Mendicoli, mentre altre si rinchiudono in minuscole abitazioni costruite da loro stesse.
Dalla seconda metà del Trecento, il fenomeno va incontro a una regressione ed in taluni casi si assiste ad una conversione verso istituzioni tradizionali, come nel caso di San Vito di Pellestrina, nato come eremo nel 1268 della già citata reclusa Angela, trasformatosi nel 1261 in un comunità mista di eremite e di eremiti, menzionato nel 1330 da Caterina da Canal, che parla di fratrem Nicolam inconumum monasterii Sancti Viti. A Volterra, nel 1293, sappiamo dal testamento di Michele Fabri che dietro la sua dimora erano ubicate due celle destinate alle romite, di cui sappiamo anche i nomi: Soavie da Firenze, la prima a giungere, Cecca e Lori, tutte considerate come addette alla preghiera e alla penitenza, con l'obbligo di condurre una vita casta, ma con il diritto di interrompere la reclusione in qualsiasi momento avessero desiderato. Due testi testimoniano l'importanza del movimento, il primo redatto da Aelredo di Rielvaulx e noto in italiano come “Regola delle Recluse” e l'anonimo Ancrene Wisse, scritto in inglese all'inizio del XIII secolo, guida per le recluse che risente molto dell'opera di Aelredo: una serie di disposizioni e di consigli non troppo velati istruiscono le candidate su come evitare comportamenti sconvenienti, focalizzando l’attenzione sull'importanza dell’indagine spirituale, che non deve essere inficiata dalle numerose tentazioni del mondo, persino da semplici scambi di opinioni inopportuni, che potrebbero condurre la reclusa lontano dalla retta via. Numerosi lasciti testamentari, inoltre, testimoniano la diffusione del fenomeno. Tra essi, si trova quello della contessa di Montferrand, che, nel 1199, destina una parte del proprio testamento a varie recluse sparse sul territorio, tra Clermont, Brioude, Montrognon, Champeix, Auzat, Saint Germain, Olival e Saint-Fliaz. Alcune recluse sono celebri, come Verdiana di Castelfiorentino, morta intorno al 1242, rinchiusa vicino alla chiesa di Sant'Antonio per gli ultimi trentaquattro anni della sua esistenza. Dodici anni sarà il periodo di reclusione volontaria di Santa Umiltà da Faenza, presso una celletta adiacente alla chiesa di Sant'Apollinare a Faenza. In questo caso, la devota non morirà da reclusa, ma, una volta uscita, fonderà un monastero vallombrosiano. Nella sua “Vita” la cella è definita “molto piccola. Una finestrella si apriva dentro la chiesa; di lì poteva vedere e ricevere i sacramenti della sacrosanta madre chiesa; un'altra dava all'esterno; di lì poteva ricevere le elemosine e rispondere liberamente a quanti andavano da lei”.
La reclusa e il recluso vivono nella dimensione di morti presenti nel mondo, in quanto genericamente la cella è il luogo dove terminerà la loro esistenza e, per questo motivo, viene loro impartita l'estrema unzione durante la cerimonia di accesso alla reclusione, in cui si canta una messa da requiem, similmente a come accade nelle funzioni funebri. In certi casi, all'interno della cella è scavata una tomba, su cui giace la devota o il devoto e il solo vescovo è autorizzato a entrare, per gettare sul corpo una manciata di terra, secondo un rituale triplice che contempla estrema unzione, messa da requiem e sepoltura in terra consacrata. Il successo del fenomeno della reclusione volontaria, particolarmente sentita in Italia, può essere individuato nella maggiore semplicità di accesso per le popolane, rispetto alla vita monastica tradizionale, perlopiù appannaggio dei ceti altolocati, come nel caso degli ordini costituiti in cui trovavano ricovero le figlie dell'aristocrazia, o degli ordini mendicanti, riservati principalmente alle figlie dei notabili, dei benestanti, per via del requisito necessario della dote. In alcune aree, come a Venezia, alcune di loro erano tuttavia in grado di mantenere una serva e non vivevano di sole elemosine, come invece capitava alle altre.
Ad ogni modo, è opportuno considerare quanto l'elemento pauperistico fosse in linea di massima sempre presente, così come accadeva altrove nella società del tempo. Il tipo di religiosità espressa assumeva perciò una caratteristica di spiritualità intima, povera e volutamente esibita in quanto tale. Per chi si fosse trovato a passare di fianco ad una cella di una reclusa, la coscienza percepiva il costante monito spirituale, il richiamo a riconoscere i propri peccati e l'esortazione al pentimento. Cosa spingeva, dunque, una donna a intraprendere la scelta di abbandonarsi al confinamento fisico? Sicuramente, l'elemento della sicurezza, in un mondo ricco d'insidie per una donna sola, come quello medievale, ha recitato un ruolo di assoluto protagonista, poi va considerato l'aspetto spirituale, non da meno. Le recluse appaiono, infatti come un valido aiuto perché le preghiere delle persone raggiungano il proprio scopo, spesso sono investite della funzione di oratrici per conto di altri, come una sorta di intermediare per via della pressoché totale dimensione spirituale in cui, tramite la mortificazione del corpo, hanno deciso di vivere, facendosene pervadere. Non mancano tuttavia voci critiche, come Giordano da Pisa, che sostiene che le città erano piene di “matti et matte che se reclude in zella”, o come Salimbene de Adam, che lamenta l'eccessiva portata dei lasciti testamentari ad esse riservati, a discapito degli ordini regolari. In un'ottica puramente utilitaristica, la vita da reclusa, pur basata sull'apprezzamento e sull'ostentazione della povertà, permetteva vantaggi altrove non facilmente alla portata di chiunque, come il sostentamento alimentare dato dalle donazioni e dalle elemosine, un saio di lana, che in taluni casi veniva cambiato ogni anno, e l'ovvia protezione dalle insidie della società secolare. Tendenzialmente, le somme destinate a chi compiva tale scelta di vita erano irrisorie, minime, sia se provenissero dai ceti abbienti, sia da quelli più umili, andando da un minimo di dodici denari a un massimo di quaranta, come testimoniato a Pisa. Il testamento redatto nel 1348 da Oliviero Maschione, controverso personaggio pisano, indica che con 52 soldi sarebbero stati garantiti pane e vino per un anno intero a un recluso o a una reclusa. Esistono anche eccezioni, come nel caso di Simone da Camugliano, che ben tre volte, tra il 1287 e il 1297, lascia scritte le proprie volontà, aumentando di volta in volta l'importo destinato ai reclusi, sino ad arrivare alla cifra di 50 lire, o come nel caso di domina Bartholomea, figlia di un certo ser Nicola, che destina la medesima cifra alle recluse di San Paolo a Ripa d'Arno. Tendenzialmente, quasi ogni lascito è stabilito una tantum (nel 97,4% dei casi), tuttavia si trovano esempi di vitalizi, come quello che Itta, vedova del notaio Gerardo Carratelle, destina alle cellane del Parlascio, Telda e Margherita.
In alcuni casi, pochi per la verità, le donazioni testamentarie consistono in beni di varia natura: cibo, vestiario, oggetti di corredo, come nel lascito del già citato Oliviero Maschione, che si preoccupa di mettere a disposizione di quattro reclusi i letti, le lenzuola, le coperte e richiede che la paglia dei materassi sia cambiata una volta all'anno. Un mantello e una tunica di panno bianco, assolutamente mai utilizzati, sono lasciati da Brida, soror de Penitentia nel 1310 a Ricca, reclusa del Parlascio, e alla sua collega Montanina è destinata una tunica dello stesso tipo. 5 lire sono disposte per l'acquisto di due gonnelle per le cellane del Parlascio, da parte della vedova di Giovanni da Caprona, una certa Gerardesca; un’altra pisana, di nome Tazia, ordina che sia acquistata un tunica per il recluso Marco, che dovrà indossarla finché sarà utilizzabile. Generalmente, il lascito testamentario poteva riguardare sia la persona, sia la cella: entrambe le destinazioni sono infatti attestate. Talvolta, la destinazione di una donazione a chi è recluso è implicita nei lasciti in cui è espressa genericamente la volontà di donare ai poveri senza distinzione alcuna, come nel caso delle ultime volontà di Rodolfo del fu Meo, che, nel 1355, non cita alcun eremita cellato, ma di cui sappiamo godette in parte una certa Tessa, reclusa di Santa Maria Maddalena.
Un interessante studio di Eleonora Rava fa luce sul caso di Pisa, analizzando i testamenti, giungendo a individuare l'inizio del fenomeno in quella città, intorno al 1255. Qui, da principio, le aree più interessate sono quelle extra-urbane, come del resto accade anche altrove, si pensi alla già citata Venezia. Lungo la via che portava a San Piero a Grado, di importanza fondamentale per la città, in quanto la univa a Porto Pisano, sorgono le prime celle; un numero probabilmente degno di nota, ma difficile da quantificare per carenza di fonti, era presente nel suburbio settentrionale, sulla strata ad Balneum Montis Pisani, che portava a Lucca, di conseguenza molto importante a livello di viabilità. Tra il 1280 circa e il 1330 aumenta il numero dei reclusori nell'area suburbana, tanto che è possibile parlare di una specie di cintura spirituale, intorno alla città, ed appaiono celle all'interno delle mura cittadine. Il primo caso noto va ricondotto al 1282, limitatamente alla chiesa di San Pietro in Cortevecchia, in cui risulta vivesse una reclusa. In questa area, compresa tra i due quartieri di Mezzo e di Ponte, risiede la vita pubblica cittadina, è ubicato il palazzo del Comune, così come quello del Podestà, degli Anziani e del Capitano, nonché il tempio civico di San Sisto. Troviamo a sud dell'Arno un buon numero di reclusori, come nel monastero di San Paolo, a Ripa d'Arno, nella chiesa di Sant'Andrea, nella carraria di Santa Maria Maddalena, così come in quella di Sant'Egidio o Pontis Veteris. Un solo reclusorio è invece attestato nel quartiere di Foriporta, vicino a Porta della Pace, sulla mura comunali. Intorno alla metà del XIV secolo, si assiste ad un'inversione di tendenza, con un graduale abbandono delle zone suburbane, a vantaggio di quelle urbane, probabilmente per ragioni di sicurezza, a causa della difficile situazione vissuta dalla città toscana, in quegli anni, in politica estera ed interna, tra guerre e tumulti. Presso San Sisto si trovano ora tre cellane, una presso San Pietro in Cortevecchia, e insieme alle sedi già occupate precedentemente, ne vengono utilizzate di nuove, principalmente a Nord dell'Arno. Verso la fine del XIV secolo, avviene la trasformazione del fenomeno in direzione di forme comunitarie, sotto il controllo ecclesiastico. La caratteristica indipendenza, la peculiare tendenza alla solitudine e alla preghiera, senza far parte di un ordine prestabilito, anche a Pisa come altrove non è più tollerato dalle alte gerarchie ecclesiastiche. Nel 1393, una concessione dei canonici della cattedrale permette ad un certo Bartolo, procuratore della cappella di San Concordio di Barbaricina, di costruire una chiesa con campanile destinata alle monache del monastero vallombrosano di San Benedetto, detto “heremitorio delle donne heremite de Santo Paulo”, provando in tal modo come esse siano state inquadrate in un’istituzione ufficiale, evitando di operare in una condizione di irregolarità, così come indicato per i casi del genere dai Concili Laterenanse IV e Lionese. L'ultimo esempio di reclusione urbana sopravvive solamente presso il convento domenicano di Santa Caterina, dove, tuttavia, non troviamo alcuna donna, ma frati della Penitenza. I lasciti testamentari indicano una maggiore presenza di recluse/i negli anni tra il 1273 e il 1308, giungendo a un massimo di 37 individui, da come traspare da un documento del 1356. Da qui, le presenze subiscono una lieve contrazione in termini numerici, per risalire a 33 nel 1340 e riscendere nell’infausto anno 1348, al tempo della Morte Nera.
A metà del XIV secolo, un ulteriore calo, più rapido. Anche a Pisa, come nel resto d’Europa, la reclusione si prefigura come peculiarità femminile; quando il fenomeno si esaurisce definitivamente, la componente maschile ha surclassato quella femminile. Per quel che concerne l’estrazione delle persone che intraprendevano tale scelta di vita, si può affermare che esse appartenevano ad un ceto artigianale borghese e medio-basso: una vedova di un corassarius (venditore o produttore di corazze), una figlia di un macellaio, una vedova di un mastro falegname, ma anche due figlie di un marinaio, due di un barbiere e una di una sensale. Tra esse troviamo, tuttavia, anche una donna di famiglia di Popolo e due di estrazione nobiliare, pur appartenenti ad un ramo della famiglia al tempo in non ottime condizioni economiche. Per quel che concerne lo stato civile, la maggior parte delle cellane sono vedove o nubili, tra queste le più sono orfane, da parte di padre. Per l’età, è molto probabile che alcune fossero non più giovani, poiché indicate come madri di figli ormai adulti; in taluni casi, godevano di una notevole longevità, come una certa Montanina del Parlascio che trascorse almeno cinquantatré anni di reclusione. Un’altra caratteristica degna di nota del fenomeno riguarda la condivisione della cella tra madre e figlia, come nel caso di Giovanna e Bandinella Del Bagno, o tra sorelle, come per Giovanna e Iacopa, figlie di Bonaccorso di Lavaiano. Il problema dell’essere rimaste sole diventa, quindi, risolvibile in una società in cui i diritti femminili erano quasi inesistenti ed è un motivo da non trascurare, se si vuole capire il perché di una scelta del genere: negli anni della battaglia della Meloria, un terzo degli uomini pisani perì, andando ad incrementare il numero delle vedove e delle nubili. Un documento di esecuzione del 1302, unico nel suo genere, indica la provenienze delle romite, individuandone 13 nell’area cittadina, 16 provenienti da fuori, di cui 7 dalla Corsica, 1 rispettivamente dal comitato fiorentino, dalla Lunigiana e dal Regno di Sicilia, le altre della Valdera, del Valdarno e del contado pisano, mentre sono attestati solo 4 uomini reclusi. Le celle hanno nomi sia di persone, ad esempio quella del già citato Oliviero Maschione, sia di chiese o di enti religiosi, come nel caso della cella di Santo Spirito o di quella della Fraternita di Santa Lucia dei Ricucchi.
Uno studio di Carson Riggs fa luce sulla scena inglese negli anni 1250-1550, individuando le medesime caratteristica nel fenomeno, per quel che concerne la tipologia di strutture in cui le celle erano ricavate, le motivazioni e la spinta ascetica, individuando una provenienza dei testatori in ogni classe sociali. Londra pullula di celle, dislocate in luoghi ben visibili, di modo che le recluse possano comunicare con il popolo, accogliere le richiesta di preghiera, assumendo il ruolo quantomeno parziale, come altrove, di garanti della sicurezza spirituale cittadina. Troviamo eremiti ed eremite lungo le mura, in zone piuttosto benestanti, come a St. Clement Danes o St. Dunstan in the West; presso il Priorato dei Frati Neri è attestata la presenza di una sola eremita; alla St. Mary de Manny, una cappella privata, è stato attestato il fenomeno almeno fino al 1371. Nella piccola chiesa di All Hallows London Wall è accertata la presenza di forme di eremitaggio da metà del XIV secolo, relativamente ad una donna di nome Margaret Burre. La città di Londra, con le sue numerose chiese e torri, testimonia una diffusione concreta del fenomeno, che parrebbe esaurirsi più tardi rispetto al continente: l’ultimo individuo recluso di cui si abbia notizia è un uomo, che morì nel 1537. Il tema già notato, nel caso pisano, della protezione spirituale per la città, che assume una caratteristica per forza locativa, appare anche a Londra, configurandosi come una sorta di anello spirituale dato dalla presenza delle varie cellane e dei cellani, a cui i cittadini potevano rivolgersi per richiedere preghiere, conforto o, più semplicemente, per elargire l’elemosina, seguendo così i precetti cristiani. Il caso di Londra appare, dunque, piuttosto interessante, nonostante la perdita fisica della stragrande maggioranza dei luoghi in cui trovavano rifugio gli asceti cittadini, a causa degli incendi e delle ristrutturazioni urbanistiche, attestando l’inizio del fenomeno nel 1227 e constatandone il protrarsi sino al 1537.


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Documento inserito il: 04/04/2024
  • TAG: reclusione volontaria, spiritualità, mortificazione del corpo, misticismo popolare, lasciti testamentari, preghiera, condizione della donna medievale

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