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Storia dell'uomo dalle origini ai giorni nostri. Sessantatreesima puntata

di Alberto Sigona


La dissoluzione dell'Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda


La Guerra Fredda finì quando le ideologie smisero di parlare e iniziarono ad ascoltare le economie. ” [Francis Fukuyama]


Negli Anni anni Ottanta i due Blocchi della Guerra Fredda avviarono un graduale processo di distensione e disarmo e in Unione Sovietica l'amministrazione Michail Gorbačëv - che aveva ereditato uno Stato alle prese con serissimi problemi di varia natura - iniziò una graduale ristrutturazione del sistema politico, economico e sociale, introducendo elementi di mercato e maggiore autonomia per le imprese, promuovendo trasparenza politica (si permisero elezioni più aperte, con candidati non necessariamente del Partito Comunista; nacquero movimenti politici e gruppi di opinione diversi...), forme di democrazia controllata e di libertà di parola (la gente poteva finalmente criticare il Governo e parlare dei problemi sociali ed economici mentre i giornali e le trasmissioni televisive iniziarono a pubblicare notizie prima censurate, come corruzione, povertà e disastri ambientali), facendosi così interprete delle spinte sotterranee che percorrevano da anni la società sovietica, puntando nel contempo a una maggiore legittimità internazionale che gli permettesse, dopo anni di isolamento diplomatico, una proficua cooperazione con Occidente e NATO, con la speranza di ottenere aiuti economici, investimenti e prestiti necessari a risanare l'economia del Paese (cooperare con USA ed altri Paesi “atlantici” poteva ridurre le tensioni, limitare la corsa agli armamenti e liberare risorse per la società sovietica: la Guerra Fredda aveva portato ad una spesa militare enorme).

La nuova politica di Gorbačëv in ambito economico non diede i risultati sperati mentre in ambito sociale creò l'effetto indesiderato di risvegliare un nazionalismo da lungo tempo sopito di varie Repubbliche dell'Unione Sovietica. Le richieste di maggiore indipendenza dal Governo di Mosca crebbero sempre di più, specialmente nelle Repubbliche Baltiche di Estonia, Lituania e Lettonia, che erano state annesse con la forza da Stalin nel 1940, e negli Stati “satellite” come Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria e Romania(1). Questi movimenti nazionalisti vennero fortemente rafforzati dall'economia sovietica in declino, per cui il Governo di Mosca divenne un utile capro espiatorio per i problemi economici.

Nei tardi Anni '80 il processo di apertura e democratizzazione iniziò ad andare fuori controllo, spingendosi ben oltre le intenzioni di Gorbačëv, che aveva sì auspicato e favorito una certa autonomia delle Repubbliche sovietiche, ma sicuramente non immaginava che essa avrebbe portato alla disintegrazione dell'URSS. In un certo senso il processo di disfacimento iniziò tra il 1989 e il 1990 nello Stato satellite della Germania Orientale (nota con l'acronimo DDR), col crollo, a seguito di varie manifestazioni popolari pacifiche (con migliaia di cittadini che chiedevano riforme e la possibilità di viaggiare liberamente), del regime comunista filo sovietico (e del muro di Berlino(2), dal 1961 un simbolo della guerra fredda), che porterà rapidamente alla riunificazione delle due Germanie(3) (riunificazione sostenuta attivamente dalla Germania Ovest ed approvata dall'URSS, che accettò perché non aveva più le risorse per sostenere la DDR, ormai al collasso, e perché la linea riformista sovietica puntava alla distensione con l’Occidente). Fra il 1990 ed il '91, quasi sempre grazie a delle mobilitazioni di massa e a dei possenti movimenti popolari per la democratizzazione, otterranno l'indipendenza tutte le repubbliche comuniste che componevano l'URSS: ne usciranno tantissime Nazioni indipendenti(4), ovvero Russia(5) (Repubblica principale dell’URSS nonché centro del potere sovietico, con a capo Boris Eltsin), Kazakistan, Ucraina, Bielorussia, Lituania (l'11 marzo 1990 fu la prima a dichiarare l’indipendenza, anticipando il crollo dell’URSS), Estonia, Lettonia, Azerbaigian, Georgia, Moldova, Uzbekistan, Tajikistan, Kirghizistan, Turkmenistan ed Armenia. L’URSS finirà ufficialmente di esistere nel dicembre ’91.

Fra le personalità che contribuirono alla fine della guerra fredda (e del regime comunista) vi fu Papa Giovanni Paolo II (che salì al Pontificato nel 1978; il suo ruolo fu principalmente simbolico e morale, incoraggiando la resistenza pacifica e la difesa della dignità umana, elementi che rafforzarono i movimenti di opposizione), il quale, probabilmente proprio per questo suo impegno anticomunista, subì un attentato nel maggio 1981, quando un terrorista turco (Alì Agca) gli sparò diversi colpi d'arma da fuoco che soltanto per un soffio non posero fine all’esistenza di uno dei Papi più grandi della storia, che avrebbe continuato il processo di “modernizzazione” della Chiesa già iniziato decenni prima da Papa Giovanni XXIII, traghettandola nel Terzo millennio.

Più o meno nello stesso periodo si dissolveva a seguito di una sanguinosa guerra anche la Jugoslavia(6): oggi le Nazioni che erano inglobate nel territorio slavo sono Serbia, Montenegro, Croazia, Bosnia, Slovenia, Macedonia del Nord (da non confondere con l'altra Macedonia, che è una regione della Grecia: fino al 2019 il nome ufficiale dello Stato era "Repubblica di Macedonia") e Kosovo.


Nell'immagine, il crollo del Muro di Berlino, simbolo della Guerra Fredda.


Note:

(1) Ricordiamo che durante la II Guerra Mondiale la Romania faceva parte delle potenze dell'Asse. E con esse avrebbe condiviso la tragica disfatta. Gli Alleati, infatti, bombardarono la Romania dal 1943 in poi, e l'avanzata degli eserciti sovietici invase il Paese nel 1944. Il Re Michele di Romania nell'agosto dello stesso anno condusse un colpo di Stato che depose il regime di Antonescu, assumendo il controllo della situazione politica e militare (il Re non sciolse lo Stato, né governò personalmente: sostituì semplicemente il governo dittatoriale con uno nuovo, più moderato). Quindi mise la Romania dalla parte degli Alleati (la Germania si oppose duramente al cambio di schieramento romeno - il Paese era il principale fornitore di petrolio dell’Asse ed una Nazione-chiave per il fianco sud-orientale del fronte - e attaccò militarmente, ma la Romania resistette). L’Armata Rossa frattanto era già avanzata sul territorio romeno, assumendone il controllo militare. Nei mesi successivi, il Partito Comunista Romeno, sostenuto dall’URSS, prenderà rapidamente potere nelle istituzioni politiche (il Re ormai aveva potere legale, ma non reale). Nel 1947 il Re Michele fu perciò costretto dal governo comunista romeno, sotto forte pressione dell’Unione Sovietica, ad abdicare e fu proclamata la Repubblica Popolare di Romania, entrando così nell’orbita sovietica come “Stato satellite”, ossia formalmente indipendente, ma politicamente ed economicamente dominato dall’URSS. Più o meno un ribaltamento analogo avvenne anche in Bulgaria. In Ungheria invece furono i sovietici a rovesciare il regime dall’esterno.

(2) La conferenza stampa del 9 novembre 1989, in cui un funzionario annunciò in modo improvviso e confuso che i cittadini potevano attraversare immediatamente il confine, portò centinaia di persone ai posti di blocco. Le guardie di frontiera, impreparate e senza istruzioni precise, aprirono i cancelli, permettendo a migliaia di berlinesi di attraversare liberamente il Muro. L’evento fu quindi una combinazione di mobilitazione popolare, debolezza del regime e comunicazione errata, e segnò simbolicamente la fine della divisione della Germania e, più in generale, della Guerra Fredda.

(3) Fra le conseguenze della Seconda guerra mondiale vi era stata, infatti, la divisione della Germania in due: da una parte, ad Est, vi era la DDR (Repubblica Democratica Tedesca) - controllata dai russi - e dall’altra, ad Ovest, la RFT (Rep. Federale Tedesca), controllata dagli USA. Dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989 e il crollo del regime della DDR, la Germania avviò un rapido processo di riunificazione. Fu la Germania Ovest, guidata dal cancelliere Helmut Kohl, a proporre e dirigere il percorso, ma la spinta decisiva venne anche dalle proteste popolari nell’Est e dalle elezioni libere del 1990, che mostrarono il desiderio di unire i due Stati. Con l’accordo delle principali potenze internazionali la riunificazione divenne ufficiale il 3 ottobre 1990.

(4) L’indipendenza dall’URSS avvenne pacificamente (o quasi) in diverse repubbliche, dove i movimenti politici riuscirono a ottenere risultati senza conflitti armati su larga scala, ovvero nei Paesi Baltici, Bielorussia, Moldavia, Ucraina, Kazakistan, Uzbekistan e Kirghizistan. Un esempio emblematico e molto chiaro di come si arrivò all’indipendenza in modo pacifico dall’URSS è quello dell’Estonia, all’interno di ciò che venne chiamata “Rivoluzione Cantata” (1987–1991).
Essa è considerata uno dei casi più rappresentativi perché mostra passo passo come un movimento civile e culturale riuscì a trasformarsi in un processo politico di indipendenza senza ricorrere alla violenza armata. Le prime proteste nacquero nel 1987–1988 durante i festival canori tradizionali, quando migliaia di persone iniziarono a cantare canzoni nazionali vietate, trasformando un rito culturale in una richiesta di riconoscimento identitario (nonostante fosse illegale, le autorità sovietiche non intervennero duramente, anche per via del clima di maggior apertura portato da Gorbaciov). Da queste iniziative prese forma il Fronte Popolare Estone, che canalizzò le istanze sociali in un progetto politico chiedendo prima riforme, poi maggior autonomia e infine la piena sovranità. Il momento di massima visibilità internazionale fu la Via Baltica (23 agosto 1989), una catena umana di circa 600 km che unì pacificamente Estonia, Lettonia e Lituania per denunciare l’occupazione sovietica. Tra il 1990 e il 1991 il parlamento estone approvò leggi di sovranità e avviò formalmente il percorso di transizione all’indipendenza; durante il colpo di stato di Mosca dell’agosto 1991, la società estone difese pacificamente istituzioni e infrastrutture, mentre il Parlamento proclamava l’indipendenza definitiva. Il riconoscimento da parte dell’URSS arrivò nel settembre 1991. Questo caso risulta esemplare perché mostra come la combinazione di protesta culturale, mobilitazione civile non violenta e iniziativa politica graduale riuscì a condurre alla fine del dominio sovietico senza ricorrere al conflitto armato.
Nelle repubbliche dell’Asia Centrale – in particolare Kazakistan, Uzbekistan e Kirghizistan – il processo di indipendenza tra il 1990 e il 1991 più che da mobilitazioni popolari fu determinato prevalentemente da decisioni dall’alto. In queste regioni, il sistema sovietico aveva consolidato élite politiche molto stabili e fortemente integrate nel Partito Comunista, mentre la società civile rimaneva poco organizzata e priva della capacità di pressione osservata nei Paesi baltici o in Ucraina. L’indipendenza non fu quindi il risultato di proteste diffuse, ma piuttosto l’esito di una dinamica istituzionale scaturita dal fallimento del colpo di stato a Mosca nell’agosto 1991: di fronte all’evidente collasso del centro sovietico, le dirigenze locali scelsero di proclamare la sovranità dei propri Stati per preservare il controllo politico e garantire continuità alle strutture di potere esistenti. In Kazakistan, ad esempio, il suo leader supremo Nursultan Nazarbaev si oppose inizialmente allo scioglimento dell’Unione, ma aderì all’indipendenza solo quando fu chiaro che l’URSS non era più sostenibile; in Uzbekistan e Kirghizistan le decisioni furono analogamente assunte dai parlamenti repubblicani senza un coinvolgimento popolare significativo. Questi casi mostrano come l’indipendenza poté emergere non da una mobilitazione civica, bensì da processi elitari e dall’adattamento strategico delle classi dirigenti, più interessate alla gestione autonoma del potere che a un progetto politico di trasformazione democratica.
Un esempio emblematico di indipendenza violenta dall’URSS fu invece quello dell’Armenia. Negli anni immediatamente precedenti e successivi al 1991, tensioni etniche e territoriali tra armeni e azeri degenerarono in scontri armati su larga scala, che causarono migliaia di morti e sfollati. La dichiarazione di indipendenza del 21 settembre 1991 avvenne in un contesto già segnato dalla guerra locale, con l’esercito sovietico parzialmente coinvolto nelle repressioni e la società civile mobilitata in funzione difensiva.
Anche la maggior parte dei Paesi satelliti dell’Est Europa si liberò dell’influenza sovietica senza guerre, attraverso riforme politiche, elezioni e movimenti di massa. In sostanza l’eccezione più significativa fu la Romania, dove la caduta del regime comunista avvenne con violenza. Fino al 1989, il Paese era governato da Nicolae Ceaușescu, la cui dittatura si caratterizzava per repressione politica estrema, controllo totale della società e gravi difficoltà economiche. La rivoluzione ebbe inizio a Timișoara il 16 dicembre 1989, quando proteste popolari contro sfratti e repressione furono duramente represse, provocando numerosi morti. Le manifestazioni si estesero rapidamente a Bucarest e ad altre città, costringendo Ceaușescu e sua moglie Elena a fuggire il 22 dicembre; catturati, furono poi giustiziati il 25 dicembre.

(5) In Russia la situazione precipitò il 19 agosto 1991 quando un gruppo di conservatori comunisti tentò un colpo di stato per rimuovere Gorbacev e fermare le riforme. Il golpe fallì grazie alla resistenza civile e soprattutto al ruolo decisivo di Boris Eltsin (Presidente della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa), che si oppose apertamente ai golpisti, salendo su di un carro armato davanti al Parlamento russo con un gesto simbolico di sfida. Al momento del golpe, Eltsin era già molto popolare in Russia. Era visto come il difensore della democrazia e delle riforme contro il vecchio apparato del partito comunista. Ucciderlo avrebbe potuto scatenare una rivolta immediata della popolazione e dell’esercito, cosa che i golpisti volevano evitare (i golpisti volevano principalmente ristabilire il controllo del Partito Comunista e fermare le riforme di Gorbacev, non necessariamente far scoppiare una guerra civile immediata in Russia; eliminare Eltsin avrebbe potuto minare la loro stessa presa di potere in quanto i golpisti non avevano né la forza né la strategia per gestire un’azione così drastica). Questo evento indebolì irreversibilmente Gorbacev, il cui potere era ormai marginale, mentre Eltsin diventava il leader de facto. Nei mesi successivi, le repubbliche sovietiche cominciarono a dichiarare l'autonomia (l'Estonia subito dopo il fallito golpe di agosto a Mosca, dichiarò l’indipendenza), con la Russia al centro del nuovo assetto post-sovietico. Il 25 dicembre 1991, Gorbacev si dimise ufficialmente, sancendo la fine dell’URSS, mentre la Russia, guidata da Eltsin, emergeva come Stato principale della Comunità degli Stati Indipendenti.

(6) La guerra in Jugoslavia scoppiò all’inizio degli Anni ’90 a causa del crollo della Federazione jugoslava, composta da repubbliche con forti differenze etniche e nazionali, e delle tensioni politiche tra leader indipendentisti e centralisti serbi. Le dichiarazioni di indipendenza di Slovenia, Croazia e Bosnia-Erzegovina furono seguite da resistenze armate dei serbi locali, portando a scontri violenti e conflitti etnici che degenerarono in guerre su larga scala.
Documento inserito il: 04/12/2025
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