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Il morso della lupa: i velites [ di Carlo Ciullini ]

Mordevano forte, i giovani lupi di Roma, e agivano velocemente, molto velocemente (da qui il loro nome).
E dopo aver assalito e morso, come un vero branco selvatico si ritiravano, rinserrandosi non nel bosco, ma tra i ranghi delle legioni cui appartenevano.
Rappresentavano il tentativo, da parte dell'esercito romano, di “assaggiare” lo schieramento nemico e di molestarlo, scalfendone le avanguardie con un attacco deciso e di breve durata.
Come non di rado accade, è Polibio a darci indicazioni tra le più precise al riguardo: il greco, oltre a essere stato scrittore dallo stile asciutto quanto esauriente, fu anche uomo dalla eccelsa preparazione tattico-militare, avendo vestito la corazza da cavaliere ai tempi della Lega Achea.
Il veles, l'uomo lupo delle armate romane, era uno specialista, un tecnico della guerra con funzioni tattiche sue proprie: costituiva la prima linea dell'esercito romano schierato in battaglia, quella che andava a scontrarsi con le truppe avverse anticipando i movimenti delle grandi masse compatte.
Il morso dei lupi dava il via alla sarabanda: ad altri corpi speciali, gli hastati, i principes, i triarii spettava poi il compito di cozzare violentemente, uno dopo l'altro, contro la formazione nemica.
In pratica i velites, in qualità di fanteria leggera, preparavano il campo a quella pesante, adeguatamente armata e formata dagli uomini maggiormente validi ed esperti, veterani di tante battaglie.
Il nucleo della legione romana d'età repubblicana si basava dunque sull'esperienza dei soldati più anziani di servizio, mentre il veles rappresentava, al contrario, una sorta di giovane lupo.
Un giovane lupo... Perché?
Giovane perché arruolato tra i cives appena usciti dall'adolescenza, e non ancora uomini fatti; ragazzi entrati da poco nell'esercito della Repubblica, e installati al primo gradino della gerarchia militare romana.
Senza soldi, vista l'età, potevano infatti permettersi solo il minimo indispensabile a livello d'armamento d'offesa e di difesa; se, sopravvivendo alle battaglie che avessero dovuto affrontare, fossero cresciuti in anagrafe, esperienza e livello sociale, sarebbero stati poi in grado di ascendere a ruoli tattici via via più importanti: hastati innanzitutto, armati più pesantemente e formati da giovani non più di primo pelo; poi principes e triarii, con la recondita speranza di poter, un giorno, guidare i manipoli della legione in qualità di centurioni o signiferi, cioè di ufficiali subalterni ai consoli, ai legati e ai tribuni militari.
Il veles era, inoltre, una sorta di lupo perché ricoperto, dalla testa fino al dorso, da una pelle di questa fiera (talvolta anche di altri animali, ci avverte Polibio) scuoiata ma interamente conservata, coda e zampe comprese.
Le anteriori venivano allacciate sul petto del soldato, e il muso infisso nel cimiero di ciò che era più una calotta di metallo che un vero e proprio elmo.
Il volto del veles spiccava così tra le fauci dell'animale, in un insieme teriomorfo certo non rassicurante per i nemici.
Il resto dell'armamento era ridotto all'essenziale: un piccolo scudo rotondo (parma) e alcuni giavelotti corti e leggeri (veruta) che venivano scagliati in rapida successione dai velites all'assalto.
Lo scudo era tanto robusto quanto ridotto nella misura: tre piedi di diametro, puntualizza Polibio.
Il piccolo giavellotto niente aveva a che fare con le aste da urto della fanteria pesante: solo due cubiti di lunghezza e un pollice di spessore, con una punta di un palmo, affilatissima e fatta di metallo dolce in maniera che, una volta scagliato, il giavellotto si piantasse torcendosi e impedendo così il riutilizzo da parte del nemico.
Grazie alle ridotte dimensioni e alla leggerezza di questo particolare pilum da getto, il veles poteva portarne con sé due o tre, al momento di caricare.
Nella fase iniziale che dava avvio allo scontro, gli uomini lupo potevano essere affiancati anche da un altro, peculiare corpo specialistico di fanteria leggera, i frombolieri: questi, dotati di fionda per scagliare a media e breve distanza piccole pietre o sferette metalliche, si muovevano agilmente al fianco dei velites, cercando di mietere nell'esercito nemico di Roma il maggior numero possibile di vittime.
Infallibili o quasi avevano fama d'essere i frombolieri balearici, capaci coi loro getti di fracassare un cranio con un colpo seccamente assestato: potenza e precisione correlate assieme in un azione meccanica, frutto di una tradizione bellica e venatoria coltivata da secoli in quelle ridenti isole mediterranee.
Unitamente ai fiondatori i velites entravano in scena, all'apertura delle ostilità, in concerto con la cavalleria, anch'essa impegnata tatticamente in scaramucce preparatorie.
Poi, al suono convenuto di trombe e buccine, quando i comandanti romani reputavano giunto il momento di muovere i pezzi pesanti sulla scacchiera dello scontro, i velites si ritiravano prontamente dal campo di battaglia passando attraverso gli spazi vuoti interposti tra i vari manipoli e centurie; in tal modo guadagnavano una nuova posizione, alle spalle dei triarii, l'ultimo saldissimo baluardo della legione, pronti a intervenire nuovamente, nel caso si fosse dovuto “ripulire” il teatro della battaglia da formazioni nemiche distaccatesi dal corpo principale del loro esercito.
In poche parole, il veles era pronto ad affrontare tutte quelle circostanze (tafferugli, imboscate, aggiramenti) che esulavano dal terribile corpo a corpo delle fanterie pesanti.
In seno a una singola legione, che in epoca repubblicana constava di circa quattromiladuecento soldati, i velites assommavano a poco più di un quarto degli effettivi, circa milleduecento uomini, distribuiti tra i vari manipoli a seconda delle esigenze tattiche: come è già stato detto, si trattava veramente di milites buoni per tutte le occasioni.
Al comando del corpo velitico venivano posti i centurioni e gli opti, adibiti a guidare le formazioni di hastati o principes cui gli uomini lupo stessi erano affidati in funzione complementare.
A differenza infatti dei tre corpi di fanteria pesante, che eleggevano tra le loro fila i proprio ufficiali, i velites, emanazione militare della classe meno abbiente, non avevano diritto a essere rappresentati nel novero dei graduati.
La parabola degli uomini lupo all'interno della legione si protrasse per circa due secoli, dall'inizio del III° secolo avanti Cristo allo spegnersi del I°, quando le riforme militari di Gaio Mario portarono all'estinzione di queste truppe speciali in seguito a una generale ristrutturazione dei ruoli tattici: i legionari mariani assunsero (pur mantenendo la suddivisione nominale in astati, prìncipi e triarii) un unico kit d'equipaggiamento che li uniformò del tutto.
Si passò cioè dalla legione manipolare a quella coortale: a questo punto, la presenza dei velites, arcaica eredità di una Roma che fu e che più non era, risultò accessoria e trascurabile, tanto da venire, infine, definitivamente abolita.
Nel corso del loro tragitto bisecolare, i velites avevano partecipato, distinguendosi, a varie guerre, non poche delle quali epocalmente passate alla storia: le tre guerre puniche, quelle siriache, la macedonica.
Ma ormai, con l'ingresso nell'ultimo secolo precristiano, nuove esigenze belliche indirizzavano la trasformazione degli eserciti antichi secondo formule strategiche innovative: sempre più le milizie si emancipavano dal rappresentare classi sociali di cittadini, per abbracciare invece il nuovo mestiere di soldato professionista al completo servizio del proprio Stato (e da non confondersi, quindi, con i mercenari).
I velites, i giovani uomini lupo che per duecento e più anni ringhiarono sui campi di battaglia per difendere ed espandere il nome di Roma, ci riportano alla mente per il loro peculiare uso alcuni corpi speciali, corpi utilizzati nel corso dei tempi secondo modalità caratteristiche e versati alla tattica del “mordi e fuggi” e dell'azione fulminea, onde scuotere le sicurezze del nemico.
La velocità d'esecuzione, la prontezza di riflessi, la malleabilità delle funzioni proprie dei velites romani fu quella, ad esempio, dei rangers impegnati in Nord America nella settecentesca guerra anglo-francese, oppure, per venire a tempi a noi più prossimi, quella mostrata dagli Arditi italiani impegnati a dissestare le forze austro-ungariche sui fronti del Carso e del Piave o, ancora, dai commandos britannici in azione nell'ultimo conflitto mondiale, armati come i velites alla leggera, anzi provvisti solo dell'indispensabile per permetterne un utilizzo rapido, preciso ed efficace.
I velites. Ce li possiamo immaginare, questi ragazzi (o poco più) vestiti da lupo, sciamare velocemente contro l'esercito avverso schierato in battaglia, pronti a imprimervi dolorosi morsi per poi ritrarsi con la medesima rapidità, lasciando nelle carni nemiche sanguinosi segni delle proprie zanne acuminate.
Furono degni figli della madre, la lupa capitolina, che dalla tana originaria alle pendici del Palatino, il Lupercale, famelica di nuove terre e del dominio di orizzonti sempre più vasti, aveva ormai da tempo lanciato per il mondo branchi della sua progenie.


Riferimenti bibliografici

CONNOLLY PETER, “The roman army”, Mondadori, Milano, 1976
POLIBIO, “Storie”, Mondadori, Milano, 1988


Nell'immagine due velites romani.Documento inserito il: 16/04/2015
  • TAG: antica roma, velites, esercito romano, legioni

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