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Fulmini su Annibale [ di Carlo Ciullini ]

Più di due millenni fa, un uomo, guida carismatica del suo popolo, s'impose di non compiere il passo decisivo verso il trionfo assoluto, e annichilire, al tempo stesso, ogni possibile, futura reazione nemica: era Annibale Barca, figlio di Amilcare. Egli si arrestò prima del passo fatidico, prima di compiere il balzo estremo nel destino e piegarlo alla propria volontà. Mancò l'ultimo soffio sparato a pieni polmoni, venne meno la spallata vigorosa per svellere l'ultima possibilità di resistenza ostile e spianarsi la strada verso la vittoria finale.
Abbattere e lasciare inerme a terra un gigante (quale era, nella circostanza, Roma repubblicana) è un atto che, inizialmente, pervade l'animo d'euforia, in chi lo compie: ma può poi, paradossalmente, insufflare l'angoscia, il pensiero martellante di aver compiuto qualcosa che non si sarebbe dovuto fare, qualcosa di cui pentirsi amaramente, un'empietà destabilizzante l'ordine e i valori gerarchici della natura.
Il tonfo sordo del colosso che, colpito, crolla al suolo può lasciare il mondo ammutolito e attonito, colmo di stupore per un evento epocale che cambia il corso della Storia: il delitto è consumato, la lesa maestà perpetrata, la strada del “non-ritorno” irreversibilmente intrapresa.
E lo stesso Annibale, simbolo del coraggio spinto all'estremo e della audacia disumana, provò probabilmente sconcerto, quando si ritrovò accampato là, dinanzi alle mura imponenti di Roma: timore non certamente degli uomini, uomini che aveva già annientato sui campi di battaglia, ma piuttosto degli Dei che, immortali e intangibili, incuriositi lo osservavano dall'alto delle loro sedi celesti.
Roma poteva esser vinta (il Ticino, il Trebbia, il Trasimeno, Canne lo avevano crudelmente dimostrato): l'Olimpo, invece, no. E se Roma annoverava i Numi quali suoi migliori alleati, nessun esercito al mondo avrebbe potuto sconfiggerla completamente. Il barcide, contemplando la città ai piedi dei suoi saldi bastioni, il viso sferzato dalla pioggia e dal vento, questo pensò: e ne ebbe inquietudine.
Roma sconfitta, ferita, umiliata, continuava tuttavia a profumare di divino: la benedizione e la protezione dei Celesti parvero inscalfibili anche a un grande, anzi il più grande di allora, come Annibale.
La campagna italica dell'armata di Cartagine era iniziata sette anni prima, e dal 218 a.C. in poi l'escalation delle vittorie annibaliche aveva assunto i toni di un crescendo sinfonico: prima al Ticino (Novembre del 218), poi al Trebbia (Dicembre dello stesso anno), quindi sulle sponde inondate di sangue del placido Trasimeno (Giugno del 217), l'esercito composito formato da Punici, Numidi, Celtiberi e Galli aveva inesorabilmente frantumato le legioni inviategli contro da un Urbe attonita, e incredula le si portasse guerra sul suolo patrio.
Ma il nefas die doveva ancora giungere: cadde il 2 Agosto del 216 avanti Cristo, a Canne.
In una assolata e polverosa piana dell'Apulia, solcata da un fiumicello chiamato Ofanto, otto legioni, condotte dai consoli Gaio Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo, furono fatte a pezzi dalla sagacia militare di Annibale che, con una leggendaria manovra a tenaglia, stritolò impietosamente, facendone strage, le coorti romane.
Sul campo restarono circa cinquantamila legionari (compreso Emilio Paolo), mentre ventimila furono i prigionieri, emblemi dell'onta: Roma, scempiata dalle continue disfatte, parve davvero aver esaurito inesorabilmente ogni sua forza fisica e morale. Tra le sue dita, sembrarono scomparire per sempre le carte da gettare sul tavolo del titanico scontro coi Cartaginesi: un gioco, sino a quel momento, votato al massacro.
Ma le Parche, in quei terribili mesi, filarono per l'Urbs un diverso destino, e gli Dei non mollarono mai la loro presa salvifica.
L'Olimpo continuò a sorridere alla sua amata città: le trasmise rinnovata e vitale energia, in vista della riscossa.
Senza le divinità al suo fianco, Roma, ormai esangue, niente avrebbe forse potuto fare per fermare Annibale e le sue formidabili schiere.
In meno di un paio d'anni, la città aveva perduto in guerra ben più di centomila uomini, tra morti e prigionieri: un dazio da pagare insostenibile, un salasso mortifero in grado di abbattere qualunque altra entità statale ma non Roma stessa, destinata a rappresentare, un giorno, la più grande potenza dell'antichità.
In verità (e in termini più prosaici), è bene sottolineare, per inciso, come proprio la seconda guerra punica, che si protrasse per ben sedici anni (218-202 avanti Cristo), avesse evidenziato la straordinaria capacità romana di attingere continuamente a sempre fresche risorse umane: nonostante le decine di migliaia di morti, dispersi e prigionieri perduti nel corso delle varie battaglie contro Annibale, l'Urbe fu sempre in grado di allestire nuove legioni, grazie al suo incessante sviluppo demografico e in virtù, anche, della sapiente rete di alleanze intessute nel tempo con le altre genti italiche.
Eravamo giunti, nel frattempo, nel 211: la guerra, dopo i primi, impetuosi anni di grandi battaglie, si era adagiata su un trand privo di scontri particolarmente incisivi.
Annibale, stanco di una inazione fiaccante, decise così di puntare su Roma, e per vari motivi: innanzitutto il prestigio legato alla capitolazione dell'Urbe, cioè del fulcro vitale del nemico, e poi considerazioni di carattere strategico, legate all'assedio di Capua. Era, la città campana, la più importante, dopo Roma, tra quelle d'Italia: in passato sua alleata, si era volta, in seguito ai rovesci delle legioni, al fianco dei Punici.
Attaccata, per questo motivo, dall'esercito dei comandanti Appio Claudio Pulcro e Quinto Fulvio Flacco (consoli nel 212 e ora proconsoli), Capua chiese aiuto al condottiero cartaginese perché le recasse soccorso.
Ci si trovò, così, dinanzi a una situazione particolare: Capua era assediata dai Romani, a loro volta circondati dalle truppe di Annibale.
Quest'ultimo, però, si rese ben presto conto di come gli eventi avessero assunto uno stallo difficilmente mutabile, data l'ostinazione dei proconsoli di non allentare la morsa ossidionale.
Dunque, deciso a levarsi d'impaccio, egli stabilì di portare guerra alle porte di Roma stessa, per stornare la pressione delle legioni dai Capuani.
A essi, ci riferisce Tito Livio nel XXVI° libro dell'“Ab Urbe condita”, il barcide fece giungere un messaggio, nel quale motivava il suo momentaneo allontanamento: intendeva infatti costringere Appio Claudio e Fulvio Flacco (con tutte le loro coorti, o almeno una buona parte) a levar l'assedio per correre in sostegno della madrepatria in pericolo.
Annibale percorse la Via Latina, foraggiato durante la marcia dai centri urbani ostili ai Romani, giungendo infine nel Lazio: scorrerie e approvvigionamenti vari erano necessari per il sostentamento delle migliaia dei suoi uomini, giunti all'ottavo anno di campagna italica.
Appio Claudio e Fulvio Flacco, subodorando probabilmente le reali intenzioni del loro astuto avversario, concertarono di dividere le proprie forze, sollecitati in ciò anche dal Senato: metà dell'esercito assediante sarebbe rimasto a Capua, mentre quindicimila milites e mille equites circa, condotti da Flacco, avrebbero ingaggiato coi Cartaginesi una drammatica corsa, per giungere a Roma in tempo utile a difenderla dall'imminente minaccia punica.
Annibale, al termine di una marcia sostenuta ma, come detto, zavorrata dalle soste imposte dal necessario reperimento del fabbisogno, fermò le sue schiere a breve distanza dalla Capitale: Tito Livio parla di otto miglia, pari a dodici chilometri, Polibio, nelle sue “Storie”, indica quaranta stadi, equivalenti a pressappoco otto chilometri.
Il campo punico era, così, posto: dai contrafforti dell'Urbe se ne poteva vedere garrire le insegne.
Erano trascorsi quasi due secoli da quel funesto 390 avanti Cristo, l'anno terribile del “Metus gallicus” durante il quale le orde dei Senoni guidati da Brenno avevano ferocemente violato Roma.
La città, percorsa in lungo e in largo dalla furia barbarica, pensò in quei giorni d'esser veramente giunta alla fine, e che gli Dei avessero abbandonato per sempre i suoi solenni templi e le sacre are.
Così non fu, e la orgogliosa riscossa romana, guidata da Furio Camillo, rovesciò a proprio favore le sorti del tragico evento. Di nuovo, con Annibale alle porte, alto si levò il lamento doloroso dell'Urbe: c'era, accanto a chi si abbandonava alla mestizia più cupa, anche chi si disponeva comunque a una difesa.
Polibio, nel IV° libro della sua opera, con poche ma penetranti parole descrive quei caotici momenti, momenti in cui ci si affidò al proprio coraggio, o alla personale fede nelle divinità.
Perciò gli uomini occuparono le mura e i luoghi favorevoli davanti alla città; le donne invece, supplicavano gli Dei correndo intorno ai templi, e spazzandone coi capelli i pavimenti: esse hanno infatti l'usanza di fare questo, qualora un importante pericolo piombi sulla patria.
Dove erano, adesso, gli Dei di Roma? Si erano forse ritirati sull'Olimpo, lasciando i santuari secolari alla mercé del crudele soldato giunto dall'Africa?
L'Urbs era, ormai, rimasta priva di qualsiasi tutela divina? La sua sorte miserrima, e segnata per sempre?
Nuovi signori, dunque, sarebbero divenuti padroni della città, se essa non fosse stata distrutta, e si sarebbero elevati al cielo canti e preghiere dedicati a divinità straniere e misteriose?
No, così non doveva essere: e quanto gli Dei amassero Roma, lo stesso Annibale avrebbe potuto constatarlo, di lì a poco. Il Senato, nel frattempo, assunse i pieni poteri, vista l'eccezionalità della situazione.
La marcia a tappe forzate, anzi la corsa forsennata di Fulvio Flacco e i suoi soldati, risalendo la Campania e il Lazio, si tenne per vie parallele al tragitto intrapreso da Annibale: percorrendo velocemente la Via Appia, infatti, i legionari potevano approvvigionarsi al volo, ricevendo l'aiuto delle città e dei borghi dipanati lungo questa arteria stradale di grande importanza. Entrato a Roma attraverso la Porta Capena, posta a Sud-Est, Flacco scavallò il Colle Esquilino per uscire a Nord, dalla Porta Collina, attestandosi fuori dalle mura e marcando a vista l'accampamento punico.
In città, intanto, il Praetor urbanus Colpurnio Pisone si arroccava con le sue milizie sull'Arx e sul Campidoglio, in vista di una strenua resistenza nel caso di irruzione entro il sacro pomoerium delle frotte cartaginesi.
Gli eventi, andarono ormai susseguendosi freneticamente.
Annibale, accampatosi sulle rive dell'Aniene, un affluente del Tevere posto a tre chilometri circa da Roma, lo oltrepassò per recarsi, assieme a duemila cavalieri, a osservare dappresso le grandi mura serviane: qui, attaccato dalle turmae a cavallo mandategli contro da Flacco, fu costretto a riparare nel proprio campo, ove meditare sul da farsi, visto anche quanto le cose si fossero complicate e minacciassero di andar per le lunghe.
Al tutto, si aggiunse beffardamente l'equivoco della presenza, all'interno dell'Urbs, di alcune centinaia di Numidi urlanti, disertori dell'esercito di Cartagine e unitisi alle armi romane: ciò creò paura e sconcerto, almeno inizialmente, nella cittadinanza, certa che il nemico fosse ormai penetrato entro le mura.
In realtà, coloro che erano tenuti a guidare e a salvare la città nel drammatico momento, lungi dall'affrangersi e dal cadere nello sconforto, si diedero da fare alacremente per mostrare con quanta tenacia si volesse resistere: e così, i consoli Fulvio Centimalo e Sulpicio Galba, formate due nuove legioni con l'afflusso delle leve fresche, le disposero a mò di deterrente dinanzi al perimetro cittadino.
Contrariato per le difficoltà crescenti incontrate nel corso di quello che neanche potremmo chiamare un assedio a tutti gli effetti, e indisposto dalla tattica temporeggiatrice dei Romani, Annibale decise di darsi al saccheggio del rus circostante, per poi guadare l'Aniene e schierarsi a battaglia, fronte alle due legioni consolari e alle truppe giunte da Capua al comando di Flacco: tutto questo, il giorno dopo la irrilevante scaramuccia equestre dall'esito incerto.
Dai bastioni e dalle torri prospicienti, Roma tutta assistette, silenziosa e piena d'angoscia, allo spettacolo terribile dei due eserciti, posti l'un di fronte all'altro, pronti allo scontro letale.
Era giunto davvero, dunque, il giorno nefasto, quello in cui la città sarebbe caduta senza mai più potersi rialzare, occupata dal più forte dei suoi avversari, lacerata dal ferale ferro africano?
Forse neanche gli Dei, che parevano essersi dileguati dai cieli di Roma, sarebbero stati più disponibili a proteggere le case dei Quiriti dal monstrum chiamato Annibale Barca, l'impersonificazione stessa del male, il demone inviato dall'Ade a sbaragliare, anno dopo anno, battaglia dopo battaglia, tutte le legioni lanciategli addosso.
Il Cartaginese, forte per uomini, genio ed esperienza, pareva ormai pronto a sferrare il secco colpo di grazia, il fendente mortale che avrebbe decapitato la sua fiera e atavica nemica, Roma.
Ma il fatum e l'Olimpo avevano stabilito altrimenti, per l'amato popolo dell'Urbe, devoto e ligio ai suoi doveri religiosi e liturgici quanto nessun altro: gloria, vittorie, onore e immensa potenza erano già stati scritti, per i discendenti di Romolo.
Nubi spaventose, nere come la pece, si addensarono sopra i sacri colli, vomitando sulla piana dove si sarebbe dovuto tenere la battaglia fatale una pioggia torrenziale, e saette tanto assordanti da sembrare scagliate dalla mano divina di Giove in persona: anzi, tra coloro che, atterriti, osservavano dalle mura lo scatenarsi dell'inferno, pochi dubitarono non fosse, quella devastante tempesta che pareva inghiottire i soldati, il benevolo frutto del volere degli Dei.
E così, la battaglia non si tenne affatto: anche il giorno seguente, la furia degli elementi impedì qualsiasi contatto armato tra i due schieramenti, costretti nuovamente a trovar riparo nei rispettivi campi.
Probabilmente, lo stesso barcide fu pervaso, in quelle ore, da un senso di smarrimento: non temeva gli uomini, quasi sempre battuti e annientati in guerra, ma contro l'avversità degli Dei come avrebbe egli umanamente potuto fare?
Scrive Tito Livio: “Non appena i soldati fecero ritorno ai loro accampamenti, il cielo tornò mirabilmente sereno e tranquillo. Questo fatto venne interpretato dai Cartaginesi come un prodigio divino, e venne udito Annibale affermare che una volta gli Dei gli avevano negato di impadronirsi di Roma, un'altra volta non gli avevano concesso la fortuna di assaltarla”. [xxx,11]
La sua ineguagliabile grandezza, a nulla sarebbe valsa, in quei frangenti...
Con i consoli e le legioni schierati a un paio di chilometri dal suo campo, Annibale stabilì di dover, almeno per il momento, mettere da parte i propositi di conquista dell'Urbe.
Troppe le circostanze dimostratesi avverse: dal sopraggiungere dei rinforzi romani provenienti dalla Campania, alla impossibilità di dar materialmente battaglia, visti i nubifragi abbattutisi furiosamente su Roma, veri e propri diluvi che tanto sapevano, anche per un uomo pragmatico e privo di scrupoli superstiziosi come lui, di intervento divino benigno nei confronti della città in travaglio.
Per questo il Punico intraprese la via del ritorno a Capua, constatato quanto la guarnigione romana preposta all'assedio fosse stata indebolita dalla partenza per Roma di Fulvio Flacco e i suoi.
Un ultimo scontro, di secondaria importanza, si tenne nell'Ager romanus quando, al momento di attraversare l'Aniene e dirigersi a Sud, i Punici furono assaliti da Galba, subendo però solo qualche centinaio di perdite.
Il console, non fidandosi dell'astuto generale nemico, volle sincerarsi della sua reale sortita dal Lazio, seguendolo costantemente a distanza di sicurezza.
Tuttavia Polibio, nel IX°libro delle sue“Storie”, ci narra di come Annibale, accertatosi che a Capua era rimasta una non trascurabile forza d'assedio agli ordini di Appio Claudio, e che l'esercito cartaginese avrebbe così rischiato di trovarsi tra due fuochi (Appio Claudio stesso e Galba, postosi risoluto sulle sue orme), progettò di assalire quest'ultimo.
Lo fece nottetempo, direttamente nel castrum romano: Polibio parla di molti milites periti, con i sopravvissuti, tra di essi, rifugiatisi in cima a una altura.
Abortita pertanto l'idea iniziale di recar soccorso agli alleati capuani, il barcide stabilì di proseguire la sua discesa lungo la costa tirrenica, sino alla punta estrema dello stivale, a Regium, nel Bruzio (l'odierna Calabria), città un tempo fedele a Roma. Dunque, i tuoni e i fulmini copiosamente riversatisi sulle teste di Romani e Punici, folgorizzando letteralmente ogni velleità bellicosa dei due eserciti già pronti al cozzo sanguinoso, non odorarono alle narici di Annibale soltanto di zolfo e ozono: forse il generale avvertì, tra un lampo e l'altro, scivolare nell'aria il mellifluo sentore dell'ambrosia divina, prova evidente della concreta presenza dei Numi celesti, immortali e invincibili alleati di Roma.
Annibale non seppe (o non volle) infliggere al suo acerrimo rivale, già battuto e malridotto, il colpo definitivo che risolvesse a suo favore, e una volta per tutte, l'esito della guerra.
Proprio quando niente apparve potersi più intromettere tra se stesso e il trionfo schiacciante, il Cartaginese tentennò, perse d'inerzia e concesse, ad avversari già duramente provati e posti sull'orlo dell'abisso, di sopravvivere, riassestarsi, rinvigorire e contrattaccare.
E così Annibale, già giunto ad abbeverare i suoi cavalli sulle rive del Tevere, per una volta ragionò di pancia, e ciò che si palesò, al momento di schiacciare Roma per sempre, una Roma ormai esausta per le continue sconfitte, produsse in lui un moto incontrollabile di timore ancestrale: se sterminare legioni esaltava il suo genio militare, lottare contro gli Dei posti a difesa dell'Urbe andò al di là di ogni sua umana capacità.
Di ciò fu lucidamente consapevole.


Riferimenti bibliografici

HUSS W., “Cartagine”, Il Mulino, Bologna, 2007
SCULLARD H., “Storia del mondo romano”, vol.I°, Bur, Milano, 1992
Documento inserito il: 07/12/2017
  • TAG: antica roma, annibale, canne, guerre puniche, repubblica, consoli

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