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La fabbrica delle stelle: la scienza dei Gesuiti in Europa e a Roma durante il XVII secolo

di Davide Arecco


Honoré Fabri e gli Ignaziani francesi nel Seicento italiano

L’immagine della scienza gesuitica come ramo da potare, nella storia dell’albero del sapere, si è, per fortuna, da tempo allontanata da noi. Gli ignaziani furono, semmai, la punta di diamante della cultura europea seicentesca, proprio al tempo del sorgere della nuova scienza, alla quale – a parte la cosmologia geostatica, da loro ancora sottoscritta – seppero dare notevolissimi contributi.
Tra le maggiori intelligenze gesuitiche del secolo XVII, una delle meno studiate è certamente il francese Honoré Fabri (1607-1688), nativo di Virieu-le-Grand. Teologo e polemista, matematico e fisico, Fabri entrò nel noviziato della Compagnia di Gesù ad Avignone nel 1626. Due anni dopo si spostò al Collegio della Trinità a Tolosa, mentre dal 1630 al 1632 fu a Roanne, chiamato dai Gesuiti in qualità di docente di grammatica latina. Ordinato sacerdote, nel 1635, l’anno successivo Fabri fu nominato professore nel collegio gesuita di Arles. Le sue lezioni furono frequentatissime: raffinato ed abile controversista, insegnava un aristotelismo eclettico e versatile, lontano dal dogmatismo, ed aperto ai nuovi fermenti scientifici europei. Viaggiò anche moltissimo: nel 1637 fu a Grenoble, e un anno dopo divenne prefetto del Collège Royal, ad Aix-en-Province. Qui, insegnò ai suoi studenti la circolazione del sangue, da lui scoperta, indipendentemente, prima di Harvey in Inghilterra. Gloria e merito ricordati dai Mémoires de Trévoux, ancora a fine secolo. Ad Arles, Fabri fu e rimase la guida di un nutrito ed avanzato gruppo scientifico, amico fedelissimo ed entusiasta seguace di Gassendi, il padre dell’epicureismo cristiano (i due rimasero in contatto epistolare, anche in seguito, durante la permanenza italiana del gesuita di Virieu).
Dal 1640 al 1646 Fabri si trasferì presso il Collegio della Trinità di Lione, la città che l’adottò sul piano culturale. Furono anni belli, passati a insegnare materie fisico-astronomiche e matematico-geometriche, davanti a un pubblico tanto interessato quanto attento. Felice frutto del periodo lionese fu il Tractatus physicus du motu locali (1646), esempio trascurato dagli storici di meccanica che, sia pure all’interno di un quadro concettuale ancora in apparenza scolastico, apriva le porte a una nuova filosofia naturale, che si avvaleva del metodo sperimentale e dello strumento geometrico. Durante il soggiorno a Lione, Fabri diventò amico e corrispondente fra gli altri di Roberval, de la Hire, Cassini e, soprattutto, Mersenne (il vero padre del meccanicismo scientifico moderno, prima e molto più di Cartesio). I minimo francese definì il gesuita un autentico gigante della ricerca scientifica. Nel 1648 Fabri fece dare alle stampe la Metaphysica demonstrativa, sive scientia rationum universalium, solo ad un primo sguardo opera peripatetica. Questa, fingendo di criticare – la consueta strategia retorica di liberi pensatori ed eruditi di confine – veicolava in realtà il messaggio della nuova scienza.
Oltre a occuparsi dottamente ad ampio spettro pure di botanica e zoologia, Fabri coltivava più discipline e, in particolare, le scienze esatte. Nella sua opera fisica, secondo un ventaglio di interessi abituale per un gesuita seicentesco, prese in esame l’ottica euclidea, il magnetismo – quello inglese di William Gilbert, non quello fantasioso del confratello tedesco Athanasius Kircher – il moto della Terra, il flusso e riflusso delle maree, le applicazioni tecnico-pratiche della geometria, i logaritmi e la trigonometria (sia piana, sia sferica) di Tolomeo. Leibniz, che conobbe Fabri, a Roma, durante il suo viaggio italiano del 1689-1690, lo mise per grandezza intellettuale al fiando di Galileo, Stenone, Torricelli e Borelli, per gli studi su elasticità e teoria delle vibrazioni e del solo Galileo per gli sforzi profusi nel tentativo di razionalizzare la cinematica sperimentale. Lo stesso Borelli, mai abituato a troppi complimenti nei confronti dei colleghi, non esitò, carteggiando con Leopoldo de’ Medici – la vera anima del Cimento di Firenze, insieme al fratello, Ferdinando II – a confessare candidamente, una volta tanto, di trovare «veramente mi pare ammirabile la veemenza dell'ingegno di questo Padre [...] e la molta sua erudizione con la franchezza e sicurezza con la quale tratta d’innumerabili cose tutte difficilissime e recondite».
Fabri scrisse moltissimo. Sommervogel conta di lui oltre quaranta trattati scientifici (in alcuni casi rimasti manoscritti e conservati oggi presso la Biblioteca di Lione). Ricordiamo, in questa sede, perlomeno – oltre al sopra citato Tractatus de motu locali, dedicato alla dinamica terrestre e, nella fattispecie, alle spiegazioni galileiane circa la caduta dei corpi, contenute nei Discorsi pubblicati nel 1638 dagli Elzeviri a Leida – la Una fides unius Ecclesiæ Romanæ contra Indifferentes hujus sæculi tribus librus facili methodo asserto (del 1657), l’Opusculum geometricum de linea sinum et cyclode (1659, riesame matematico dei calcoli geometrici di Torricelli), la Summula Theologica (stampata a Lione, nel 1669, ed assai distante dalle conclusioni aristoteliche) e l’Apologeticus doctrinæ moralis: quest’ultimo libro, pubblicato in poche copie a Colonia fra il 1670 e il 1672 e divenuto con il tempo un esemplare rarissimo, non ottenne, all’epoca, l’approvazione ecclesiastica e finì, cosa di certo non comune, per uno scrittore gesuita romano con potenti entrature alla corte papale, all’Indice dei Libri proibiti. D’altra parte, Fabri rischiò l’incarcerazione, scrivendo che «tant qu'aucune preuve absolue pour le mouvement de la terre n'a été trouvée, l’Église est compétente pour statuer sur la question. Si la preuve, cependant, se trouve, il devrait y avoir aucune difficulté à expliquer que les passages pertinents de la Bible doivent être interprétés dans un sens plus symbolique». Ebbe invece diverse edizioni a stampa l’Euphiander seu vir ingeniosus, impresso, a Lione nel 1669, a Vienna nel 1731, a Budapest nel 1749 ed ancora ad Offenheim nel 1763, libro che innescò una dimenticata diatriba con il letterato ed uomo di scienza dalmata Stefano Gradi (1613-1683), allievo di somaschi e gesuiti, poi arciprete di Ragusa e consultore del Sant’Uffizio, nelle grazie di Alessandro VII, nonché custode a Roma della Vaticana, diplomatico, matematico e studioso di ingegneria navale in contatto epistolare con i membri della comunità accademico-scientifica granducale, e con la cerchia di Holstenius, ad Amburgo.


Grimaldi, Gottignies e la scienza gesuitica romana

Fra il 1633 ed il 1635, Fabri risiedette a Roma, segnalandosi tra i chierici della Roma cattolica più versati nella cultura scientifica. Presso il Collegio romano, studiò teologia e scienze. Vi ritornò, per stabilirvisi sino alla morte, nel 1647, chiamatovi dal pontefice, come teologo della Penitenziaria apostolica. A Roma, durante i suoi due soggiorni – lunghissimo il secondo: oltre trent’anni – Fabri strinse rapporti di amicizia con letterati e uomini di scienza, tra i quali Ricci e Magalotti (i quali nel 1657 lo fecero subito socio corrispondente della fiorentina Accademia del Cimento) e i liguri Grassi e Baliani. Con loro discusse a lungo di fisica e strumenti, d’idrostatica e meteorologia.
A Roma, Fabri pubblicò nel 1678 il suo Dialogus vel Opusculum de opinione probabili in quo proxima morum regula scilicet conscientia ad sua principia reducitus, ripubblicato l’anno seguente, in Francia, dal Mechlin, con il titolo di Disputatio de opinione probabili. Si trattava di un trattato – costituito da undici dialoghi sul modello platonico – dedicato alla natura delle probabilità, un secolo avanti (Fabri vi lavorava dal 1657 almeno) le ricerche illuministiche sul tema di Diderot, Condorcet e d’Alembert nella seconda metà del Settecento francese.
In realtà, i primissimi periodi romani di Fabri furono complicatissimi e drammatici. Accusato di aderire al cartesianesimo (cosa non del tutto falsa), egli giunse nella città del Papa re sul finire del 1669 e finì in prigione. Il suo crimine pare essere stato lo studio degli anelli di Saturno, fatto intorno al 1660, tema che innescò anche l’aspra polemica tra Fabri e l’olandese Huygens. Grazie a Ricci, il gesuita francese fece la conoscenza di Leopoldo de’ Medici, che, a Roma, era divenuto cardinale da poco. Fu infatti il principe toscano, adoperandosi diplomaticamente presso la corte pontificia, a far scarcerare Fabri. Non solo. Nella contesa scientifica tra Fabri ed Huygens, durata cinque anni, fu il principe toscano a coinvolgere in veste di arbitri i membri dell’Accademia del Cimento. Il dissidio, che prelude incidentalmente alla nascita della moderna astrofisica, riguardava proprio il sistema di Saturno – che Galileo, per la limitata portata ottica del suo cannocchiale, aveva visto, nel Sidereus Nuncius (1610), «tricorporeo» – e lo scarto fra i suoi anelli (noti, nella Repubblica delle Scienze di allora, anche come divisioni di Cassini). Fabri, alla luce delle proprie osservazioni, non riusciva ad accettare che Saturno fosse circondato da due serie, distinte, di anelli grandi e piccoli che brillavano da lontano, come correttamente Huygens aveva stabilito (e come avrebbe confermato poi ancora nel 1676). Furono Leopoldo e i fisici ed astronomi raccolti nel Cimento a convincere, infine, il Fabri e a farlo ritrattare, riportando la pace fra i contendenti dopo il duello scientifico.
Nel campo della meccanica celeste, il gesuita francese scoprì la nebulosa di Andromeda – una scoperta quasi mai rammentata dagli storici dell’astronomia, al pari di quella della cintura di Orione fatta dal galileiano Peiresc – e formulò una dottrina delle maree basata sull’attrazione lunare, prima dello stesso Newton, dimostrando così di aver letto Keplero. Inoltre, nei Dialogi physici sex quorum primum est de lumine (1665-1669), Fabri trattò pochi anni dopo Boyle – i cui Experiments touching Colours erano apparsi a stampa nel 1664 – di fenomeni luminosi e cromatici, in parte riprendendo il legato cartesiano ed in parte aprendo la strada a quella che sarebbe stata, di lì a non molto, la nuova scienza ottica inglese. Il primo dialogo dell’opera di Fabri, soprattutto, conteneva e diffondeva una efficace descrizione degli esperimenti riportati nella Physico-mathesis de Lumine (1665) del gesuita felsineo Francesco Maria Grimaldi (1618-1663). Tra questi, vi era il primo ragguaglio a proposito della diffrazione e delle sue leggi, fondamento della teoria ondulatoria della luce. Il libro (postumo) di Grimaldi venne acquistato in Italia e spedito il 30 aprile 1672 a Cambridge a Newton, dal suo più fidato agente sul continente, il matematico e viaggiatore John Collins (1625-1683), fellow a Londra della Royal Society, e stretto collaboratore pure di Wallis e Gregory, nonché in Europa di Borelli ed Huygens. Da parte sua, Newton stesso ammise – aveva da pochissimo pubblicato la sua New theory about Light and Colous – di avere scoperto il fenomeno della diffrazione (e la conseguente ipotesi delle onde luminose) sulle pagine grimaldiane, le stesse alle quali Fabri garantì presso le cerchie dei dotti e accademici romani una più ampia circolazione con la stampa appunto dei Dialogi physici.
Prima della ripresa ad opera di Fabri, Grimaldi era in effetti passato quasi inosservato. Eppure il fisico ed astronomo emiliano, formatosi a Parma (1635) e a Ferrara (1636), era stato l’assistente a Bologna di Giambattista Riccioli, osservando attraverso rigorosi studi sperimentali e non solamente teorici le macchie solari – di cui Galileo aveva scritto, si sa, nel 1613 – e in particolare quelle lunari, realizzando, di queste ultime, una dettagliatissima descrizione: carte selenografiche tra le migliori e più usate di tutto il Seicento, in larga parte incluse nell’Almagestum Novum riccioliano, nel 1651. Il Grimaldi fu anche, negli spazi intellettuali degli Stati della Chiesa, eccellente cultore di acustica, di storia e di geografia. La sua eredità fu raccolta e diffusa a Roma da Fabri. Chi ancora crede nel mito (protestante) di una scienza libera e vitale solo in Nord Europa dovrebbe rileggersi le loro pagine. Il De lumine grimaldiano ispirò poi non solo i Dialogi physici di Fabri, ma altresì le ricerche ottiche di Guglielmini in Italia, e di Hooke in Inghilterra (dal secondo, intese anche come risposta polemica al modello newtoniano). Scrivendo, da Bologna, a Montanari, il 15 di settembre del 1680, il medesimo Guglielmini confidò che, sulla scia, appunto, di Riccioli e di Grimaldi, «qui il Signor Fabri nelle sue [osservazioni] ne fa gran squarci: tutto il giorno con carte in mano, con comete disegnate tra le stelle fisse; e le mostra a chi vuole, e non vuole vederle».
Fabri fu a Roma anche un punto di riferimento per tecnici ed artefici. Eustachio Divini – abile costruttore di lenti e vetri per i telescopi, allora impegnato nella disputa, sui tubi ottici, con i fratelli Campani – gravitò nel Collegio romano di Fabri e Gottignies. Durante il duro scontro fra Divini ed i Campani, e nel corso della propria contrapposizione con Huygens, il Fabri annotò che «Eustachii de divinis septempedani brevis annotatio in systema Saturnium Christiani Hugenii». Quanto al gesuita belga Gilles-François de Gottignies (1630-1689), matematico ed astronomo, di Bruxelles, era molto attivo e presente, entro la comunità scientifica romana, interessato primariamente agli strumenti del nuovo sapere astronomico post-galileiano (in Roma, i Gesuiti erano quasi tutti cripto-copernicani e, nel privato dei loro commerci epistolari, non esitavano a confermare la validità dello schema di tipo eliocentrico). Corrispondente prima ed avversario poi di Cassini – passato intanto, da Bologna, nella Versailles del Re Sole – padre Gottignies si occupò, oltre che di dinamica celeste e macchine, anche di matematica pratica (sulla scorta qui dell’opera precedente del confratello Clavio) e di tecnologie costruttive. Le sue opere vennero sovente tradotte in francese, ancora da Buffon e dai naturalisti dei Lumi, nel XVIII secolo. Forse, fra tutti i Gesuiti seicenteschi, Gottignies è quello di cui meno si sa: un personaggio veramente ancora tutto da studiare e da conoscere. Nonostante ciò, nella storia degli astronomi romani e dei loro strumenti, ebbe senz’altro magna pars e fu una figura di punta.


La cerchia di Cristina di Svezia fra alchimia e cultura scientifico-accademica

Tramite l’azione di diplomatici, segretari d’ambasciata e viaggiatori, l’interesse per la scienza romana era, nel secondo Seicento, vivissimo in Europa. In Inghilterra, la curiosità era elevata. Henri Justel (1619-1693), bibliotecario di Re Carlo II Stuart dopo la Restaurazione monarchica, comunicò nel 1667, alla Royal Society (nella persona del suo segretario, Henry Oldenburg), l’uscita a stampa della Synopsis optica di Fabri e della Centuria problematum opticarum di Eschinardi. Fra Londra e Oxford, luce e colori erano appena prima di Newton tra gli argomenti all’ordine del giorno. Tuttavia Roma non era da meno, e sin dagli anni delle prime dissertazioni kircheriane in materia, per quanto ancora fantasiose e vittime d’un enciclopedismo troppo rapsodico, dispersivo ed autoindulgente.
Francesco Eschinardi (1623-1703) si muoveva in sostanza lungo la linea tracciata dal Fabri. Il dotto romano era un erudito di vaglia, capace di spaziare dalla fisica alla matematica, dall’ottica alla astronomia (che nel Collegio gesuitico restava ovviamente tolemaica), dall’archeologia classica alla geometria, dalla logica alla topografia. Insegnante a Roma, vi ebbe come allievo lo storico e biologo Filippo Buonanni (1638-1725), il gesuita che scrisse il primo libro mai pubblicato sulle conchiglie e i molluschi marini. Eschinardi, oltre che nel Collegio romano, insegnò anche a Perugia ed a Firenze: incarichi didattici che traspaiono dalla sua produzione scientifica, ad asempio dal trattato di acustica grimaldiana De sono pneumatico (1672). Visse peraltro soprattutto a Roma, ove collaborò con saggi di statica al Giornale de’ Letterati di Francesco de’ Nazari e fu l’animatore della Accademia fisico-matematica, fondata e diretta da Giovanni Ciampini (1633-1698) dal 1677, se non patrocinata, certo frequentata personalmente e in modo partecipe dall’ex regina Cristina di Svezia, a Roma dal 1654.
Eschinardi poteva vantare una vasta formazione culturale. Fu, al Collegio romano, docente di physica seu philosophia naturalis fino al 1660, poi dal 1661 lettore di metafisica e quindi, dal 1665, di mathesis cum geometria et astronomia. Ad attrarlo erano specie le scienze esatte e la costruzione di dispositivi ottici ed apparati strumentali, come si evince da una lettera di Eschinardi al professore dello Studio perugino Lemme Rossi, del 15 settembre 1667, dove si discute di problemi affrontati in calce alle sue Centuriae opticae, stampate di lì a un anno. Dotato di una curiosità inesauribile, padre Eschinardi era solito intervenire nelle riunioni dell’Accademia ciampiniana, su qualsiasi tema, dalla meccanica all’idraulica, con puntuali memorie scientifiche, facendo se necessario anche funzioni di segretario e verbalista.
Eschinardi, con le sue dissertazioni a stampa, ci ha lasciato soprattutto manuali. Interessante è, comunque, il Brevis Tractatus de Coloribus, che si ricollega per un verso alla precedente letteratura gesuitica di Kircher e Riccioli, Grimaldi e Fabri e, per un altro, redistribuisce gli argomenti esposti all’interno del libro in definitiones di termini tecnici, spiegazione dei meccanismi naturali legati alla vista, fisiologia dell’occhio umano, fabbricazione artificiale di lenti e specchi – senza dimenticare, naturalmente, quelli comburenti di Archimede ripresi nel primo Seicento felsineo da Cavalieri – uso e funzionamento di telescopi e microscopi nella soluzione dei problemata di meccanica celeste. Nel De Impetu Tractatus, stampato a Roma, e non privo di suggestioni medievali, tratta invece questioni fisico-astronomiche, secondo la tipica metodologia ignaziana, ossia combinando antichi e moderni, tradizione e innovazione, filosofia e scienza, veteres e novatores. Un ideale sincretistico comune poi anche alle opere successive di Eschinardi. Il Cursus del 1689 venne da lui dedicato al Redi, il poeta e naturalista più in vista della Toscana barocca, protégé di Leopoldo de’ Medici e Cosimo III. Nelle pagine del Cursus, troviamo inoltre riferimenti, espliciti e precisi, alle opere di Copernico, Galileo e Borelli. Non poco, per un gesuita romano del Seicento, che certo non difettava di coraggio, aperto al dialogo con la nuova scienza in modo disponibile e generoso. Pur legato allo schema tradizionale di marca peripatetica – via Tycho Brahe, però – della centralità del globo terrestre, il libro del gesuita di Roma palesa un’ammirazione sincera per l’opera innovatrice dei galileiani fiorentini raccolti nel Cimento e il desiderio di seguirne le orme impiegando il metodo sperimentale.
Alle sedute dell’Accademia fisico-matematica sono da riportare gli altri volumi di Eschinardi, dal Discorso sopra la cometa (1681) – che tratta, anche, di calamite e di deviazione, nella bussola, dell’ago magnetico – agli altri trattati, su ittiologia, chimica pneumatica, misurazione del calore, su costruzione di cannocchiali e tubi ottici, la meccanica, l’ottica geometrica e l’astronomia, non senza occasionali contributi originali sulle scale termometriche (già oggetto di studio di Ferdinando II, in Toscana). La ricchezza di contenuti culturali della produzione a stampa di Eschinardi risalta, inoltre, dai suoi poderosi lavori storico-eruditi in collaborazione con Gian Battista Cingolani, l’agrimensore di Urbino con il quale il gesuita visitò palmo a palmo praticamente tutto l’odierno Lazio. Legata poi almeno in parte alle adunanze dell’Accademia fisico-matematica è l’opera di archeologia erudita dal titolo Lettera familiare sopra Monte Testaccio e Via Ostiense, dedicata da Eschinardi a Ciampini, il quale oltre che uomo di scienza era anche lui storico di razza. Ad Eschinardi va ricondotta inoltre la la carta topografica dell’Irlanda che egli rivendica a sé in una sua lettera al padre Francesco Portero, minore osservante, pubblicata all'inizio degli Annali ecclesiastici d’Ibernia (stampati, in Roma, nel 1697), e nell’opera di un altro religioso, padre Agostino Lubin, nel 1689. Di Eschinardi è infine una dissertazione scientifica sugli orologi idraulici posta in coda alla Appendix ad Exodium de tympano, pubblicata, a Roma, da Mario Bettini (1582-1657) e – se prestiamo, qui, fede a Southwell – riedita e circolante ancora nel 1650. Oggi ve n’è, nei nostri centri bibliotecari, una sola ed unica copia, nella Biblioteca Augusta di Perugia. Veramente una preziosa rarità bibliografica.
Quanto ai presunti viaggi di Eschinardi, in Egitto e sul Nilo, arrivando all’Istmo di Suez e alle zone lì vicine, si tratta con buona probabilità di mitografia, inventata dai suoi primi biografi. Sotto il profilo scientifico, certamente, Eschinardi fornì il meglio di sé in veste di membro della Accademia fisico-matematica ciampiniana. Questa era protetta in Roma da Cristina di Svezia (1626-1689), l’ex regina nordica che – circondata da astronomi, matematici, fisici, alchimisti, religiosi e architetti – fu nella seconda metà del XVII secolo munifica mecenate prima in Europa settentrionale e poi, dopo la rinuncia alla fede luterana e la conversione al cattolicesimo, nell’Italia centrale.
Un ruolo molto importante, nell’abiura del protestantesimo della sovrana, giocò Paolo Casati (1617-1707), gesuita piacentino, matematico, astronomo e teologo, di origini milanesi, professore al Collegio romano. Noto ed apprezzato dai colleghi della Repubblica delle Lettere, per gli interessi di carattere scientifico e per la sua conoscenza del mondo culturale francese, nel 1651 Casati fu scelto, dal Generale della Compagnia di Gesù, per una missione particolarmente impegnativa: egli doveva, infatti, recarsi a Stoccolma, presso la Regina di Svezia, per sincerarsi circa la reale solidità delle sue intenzioni. Casati salpò da Venezia in dicembre, ed arrivò a Stoccolma dopo avere trascorso quattro mesi in mare. Agli occhi stranieri, egli poteva sembrare un viaggiatore, ma, in verità, era un inviato del Papa. Con la Regina, Casati parlò dei fondamenti della dottrina cattolica, del problema del bene e del male, della provvidenza, dell’immortalità dell’anima, e del principio cuius regio, eius religio, durante incontri da cui emerse la straordinaria cultura teologica e scientifica della sovrana, ma, più di tutto, la sua ferma intenzione di abbracciare la religione cattolica, dopo un lustro di inquietudini religiose e dubbi. Casati discusse, con lei, anche del mistero trinitario, dell’accordo di fondo tra fede e scienza, del culto delle reliquie e dei santi. Nel frattempo il gesuita si manteneva in stretto contatto epistolare con il pontefice e con Francesco Piccolomini, nuovo Generale dell’Ordine.
Passando per Amburgo, Casati rientrò a Roma nel giugno del 1652, continuando a carteggiare con la Regina di Svezia, che lo rassicurava da Uppsala. A Roma, Casati tornò all’insegnamento e fu inviato prima a Venezia e poi a Parma (1677). Nella città ducale, rettore dello Studio universitario, amico dei Farnese, poté attendere al completamento e alla pubblicazione delle proprie opere di tipo scientifico, a cui stava, da tempo, lavorando, ricche di osservazioni, esperienze ed esperimenti. Egli, peraltro, aveva già dato alle stampe vari libri interessanti. Nella dissertazione Vacuum Proscriptum, edita a Genova nel 1649, pur all’interno di un quadro di riferimento di stampo tradizionalista, Casati aveva ridiscusso l’ipotesi aristotelica dell’horror vacui, riferendo di prove sperimentali da lui fatte con il mercurio (chiuso in un tubo torricelliano), ed impiegando le argomentazioni della reductio ad absurdum. Nella Terra machinis mota, stampata a Roma nel 1655, composta di cinque scritti, aveva immaginato un dialogo fra Galileo, Mersenne e Guldino, su varie questioni di astronomia, geografia celeste, astronomia tecnica, selenografia, geodesia e cosmografia: le dimensioni del nostro pianeta, i corpi celesti sospesi nel vuoto, i fenomeni della capillarità, il confronto tra le forze delle macchine, la gravità terrestre, i diversi metodi per determinare la massa terrestre, il movimento della Terra e la separazione fra terre ed acque, non senza esperimenti di rilievo, come quello per determinare il peso dell’acqua (problema già affrontato da Galileo in riva all’Arno e presso l’arsenale veneziano). Nella dissertazione, che dà informazioni anche in merito all’esperimento sulla producibilità materiale del vuoto, fatto, a Magdeburgo, da Von Guericke (1602-1686), vi è poi la presentazione positiva – dopo un quarto di secolo – e della figura e dell’opera scientifica galileiane. Alla tradizione del galileismo, poi, aveva rinviato anche l’oggi rarissima Fabrica et uso del compasso di proportione, pubblicata in prima edizione a Bologna nel 1664 e poi riedita, ancora nel 1668, 1671 e 1685, recensita con favore sugli Acta Eruditorum di Lipsia. Inoltre, nei Problemata ab anonimo geometra Lugduni Batavorum proposita, uscita, a Parma, nel 1675, Casati si era occupato di meccanica. Ne Le ceneri dell’Olimpo, di due anni prima, aveva trattato di meteorologia e fenomeni atmosferici, sotto forma di dialogo fra tre nobili veneti. Altri fantasmi galileiani, forse.
Una volta giunto a Parma, sia pure continuando a dialogare proficuamente con il gruppo della Accademia fisico-matematica, raccolto attorno a Cristina, Ciampini ed Eschinardi, il primo scopo di Casati fu quello di portare a termine i lavori interrotti, sopra i più vari argomenti: vulcani, comete, fuochi aerei, anima dei bruti (tema, in Francia, già cartesiano) e strumenti per misurare il calore (nel primo Seicento inglese un desideratum di Bacone e dei suoi epigoni). Nel De Igne – edito a Venezia nel 1686, a Lipsia nel 1688, ed a Parma nel 1694, dedicato a Cosimo III, il Granduca di Toscana dal 1670 – Casati mise assieme tredici dialoghi, sulla natura dei corpi, composti di parti fisse (i sali), di umore (il mercurio) e di spirito (lo zolfo). Evidente è, nell’opera, l’influenza dell’esoterismo e della tradizione alchemica paracelsiana di parte della cerchia accademica romana di Cristina.
Casati scrisse e pubblicò moltissimo, negli ultimi tre lustri della sua vita. Nelle Hydrostaticae Dissertationes, apparse a Parma nel 1695 ed ancora in forma di dialogo – fra tre patrizi veneziani: il Mauroceno, il Gradenigo ed il Dandolo – prese in considerazione varie problematiche di idraulica e fisica dei fluidi: nel primo dialogo analizzò l’equilibrio delle acque subaeree e la forza dell’acqua in moto, nel secondo il galleggiamento dei corpi immersi nei liquidi e quindi l’idrostatica archimedea, nel terzo la costruzione e stabilità dei natanti in base al loro centro di gravità, nel quarto la fisiologia umana in rapporto alle acque e la velocità di immersione dei corpi secondo la loro forma, nel quinto infine la velocità delle acque in rapporto alla pendenza e alla natura del suolo, spostando il discorso sui temi di pubblica utilità (canalizzazione delle acque ed opere idrauliche). Nella storia della fisica matematica italiana, e dell’idro-dinamica in particolare, le Dissertationes casatiane – dopo Galileo e prima di Poleni e Frisi – fanno ancora data, malgrado nessuno le segnali mai. Forse permane ancora il pregiudizio anti-clericale e laico relativo alla scienza dei Gesuiti, ma è ora di deporlo. Fra l’altro il libro di Casati presenta, in appendice, anche una interessante disamina delle pompe idrauliche per le fontane, da cui traspare ancora una volta la lettura di Galileo, Guericke, Boyle, Schott e Cassini.
Casati lavorò, ancora, al trattato De gli Horologi Solari (un manoscritto sulla fabbricazione di gnomoni e meridiane), alle Exercitationes matheseos exhibitaæ (altro manoscritto, del 1698, volto a collezionare una serie di studi, algebrici e geometrici), alle De angelis disputationes theologicae (la sua unica opera di teologia, stampata nella natia Piacenza, nel 1703, dedicata al cardinale di Estrées) e alle Opticae dissertationes edite a Parma, nel 1705. In questo suo ultimo scritto, egli ritornava alla scienza (grimaldiana) della luce e dei colori: antico amore scientifico dei Gesuiti italiani.


Nell'immagine, I Dialoghi fisici di padre Fabri (1665)


Bibliografia

Fonti primarie a stampa

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Documento inserito il: 16/02/2024
  • TAG: Seicento, nuova scienza, Gesuiti, storia della cultura europea, fisica, teologia, astronomia, Barocco, storia politica e istituzionale, storia moderna, Roma, Francia, Belgio

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