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L’esercito Francese: Le armi [ di Massimo Zanca ]

Il fucile utilizzato dall’esercito francese durante le guerre rivoluzionarie prima e napoleoniche poi è lo Charleville, dal nome della prima fabbrica che lo produsse nel lontano 1728. Da allora l’arma subì una serie piuttosto lunga di modifiche, che noi però seguiremo solo nelle sue fasi finali. Partiamo dunque dall’anno 1763: la Francia ha appena perso la guerra dei sette anni contro Prussia ed Inghilterra e si rende conto dell’urgenza di adeguare le proprie armi ai nuovi standard europei. Il primo tentativo è tuttavia un fucile talmente pesante da essere sostituito dopo soli tre anni dal modello pensato da M.de Montbeillard, Ispettore della manifattura di Saint Etienne. Nasce il cosiddetto Modello 1766, decisamente più affidabile e resistente del precedente a dispetto del minor peso. Il calibro rimarrà sempre di 17,5 mm.

Fucile Charleville 1766
Entro il 1770 le fabbriche francesi produssero più di 150.000 esemplari. Dopo questa data venne progressivamente rimpiazzato dal modello 1770/71: quando scoppiò nel 1776 la Guerra d’Indipendenza Americana, la Francia rifornì i ribelli proprio con i fucili modello 1766 ormai messi a deposito.

Fucile Charleville modello 1777
Arriviamo quindi al modello 1777, l’arma utilizzata durante le guerre rivoluzionarie. Le differenze rispetto al modello 1766 sono minimali: una forma più longilinea, più affusolata, e la sostituzione delle bande che tengono la cinghia alla quale vengono aggiunte due viti per poter meglio sfilare la cinghia stessa. Semmai, più importante è la maggior attenzione riservata in fase di produzione nel cercare di rendere i singoli pezzi intercambiabili da un fucile all’altro, prima passo verso la moderna tecnica di produzione in serie.

Fucile Charleville 1777 annoIX
L’ltima evoluzione di quest’arma è il modello 1777 Corrigé An IX, così chiamato perchè modificato ed introdotto durante l’anno nono della rivoluzione, cioè nel 1798. Ancora una volta le modifiche sono modeste: si introducono per tutte e tre le bande metalliche che tengono la canna legata al legno una molla ritrattile, il cane ha una forma leggermente diversa ma, soprattutto, sua caratteristica principale è la martellina con il bacinetto a forma di cuore in ottone con una vite di supporto, mentre quello del 1766 era piatto, in acciao e di forma trapezoidale.Tutte le parti metalliche – bacinetto escluso, in ottone - vengono fatte in acciaio, certo un acciaio nemmeno paragonabile per resistenza a quello forgiato grazie alle attuali tecniche metallurgiche. L’arma misura oltre 150 cm, cui vanno aggiunti 40 cm di baionetta, per un peso di 4,7 Kg, 5 con la baionetta.
La cavalleria, invece, aveva in uso il moschetto da dragone. I dragoni vennero creati all’inizio del 1600 come fanteria montata, ma alla fine del 1700 divennero una parte ben specifica della cavalleria, per quanto in molti eserciti fornita di armi da fuoco.

Moschetto da dragone anno IX Il fucile in dotazione ai cavalieri era più corto e leggero di quello utilizzato dalla fanteria, anche se dello stesso calibro, per poter utilizzare le munizioni in uso alla fanteria e per non dover impiantare una specifica produzione di proiettili adatti solo per questo tipo di arma. Gli anelli attorno alla canna sono ora però in ottone per evitare l’ossidazione causata dal sudore del cavallo.

Le parti del fucile Charleville 1777 sono sostanzialmente tre:
1.La parte in legno, detta la crosse. Viene costruito utilizzando del robusto legno di noce ed è fatto in modo tale da contenere il meccanismo di sparo e la canna sferica; sulla parte che poggia sulla spalla vi è una placca in acciaio.
2.La canna del fucile, detta Canon. Si attacca alla parte in legno grazie ad una vite posta alla sua estremità e grazie a tre bande metalliche, a loro volta fissate da tre molle retrattili. Alla base vi è un piccolo foro, chiamato lumiére, che, mettendo in comunicazione la polvere versata nel bacinetto con quella versata nella canna, permette all’arma di sparare. In prossimità della bocca da fuoco vi è un piccolo pezzo di metallo di forma quadrangolare per fissare la baionetta.
3.Il meccanismo di sparo, detto patine. Qui troviamo il cane, chien, che tiene, grazie ad un semplice meccanismo a vite, la pietra focaia, la silex, a sua volta avvolta da un pezzo di piombo o di pelle per evitare che, stringendo la vite, si possa rompere o spezzare. Ogni soldato doveva avere nella propria giberna tre pietre focaie piombate pronte all’uso: durante le marce o nei periodi di acquartieramento venivano tolte per preservarle ed al loro posto veniva messo un pezzetto di legno. Vi è poi il bacinetto in ottone, le bassinet, nel quale si mette la carica di innesco, che ha una copertura in acciaio, detta cucchiaio o, meglio, couvre-bassinet, che consente al soldato di maneggiare il fucile senza vuotare il bacinetto e alla pietra focaia di creare la scintilla tramite sfregamento, quando si preme il grilletto. Il meccanismo è attaccato alla parte in legno da due viti.
4.La baguette, ovvero la bacchetta, che si incanala in un apposito spazio intagliato nel legno. All’estremità inferiore ha un filo che permette di avvitarvi alcuni utili strumenti per pulire la canna o per estrarre la palla.
Veniamo ora al modo di funzionamento di queste armi. Il regolamento francese dell’epoca prevedeva dodici distinte fasi di caricamento. Senza analizzarle nel dettaglio, il soldato doveva:
1.Abbassare l’arma a livello del torace, mantenendola puntata verso il nemico e tenendola con la mano sinistra;
2.Sollevare il cucchiaio con la mano destra.
3.Con la stessa mano, prendere la cartuccia dalla giberna, avendo cura di far passare la mano fra calcio del fucile e corpo per non ostacolare i compagni impegnati nella medesima operazione, e portarla alla bocca. La cartuccia non è altro che un pezzo di carta avvolto a mò di cilindro e chiuso alle estremità al cui interno si trovano 10 grammi la polvere nera e quindi la palla: prima di questa invenzione i soldati utilizzavano il corno, con tutti i problemi che questo strumento comportava per quanto concerne il versare nella canna la giusta quantità di polvere.
4.Strappare la cartuccia con i denti e tenere in bocca la palla. Si pensi che per evitare il servizio militare molti uomini si facevano togliere i denti o si amputavano le dita della mano destra, dimodochè non potessero premere il grilletto del fucile.
5.Riempire (o quasi) il bacinetto di polvere nera.
6.Chiudere il cucchiaio.
7.Raddrizzare l’arma lungo la gamba sinistra.
8.Versare nella canna del fucile la rimanente polvere nera, la palla e quindi la carta.
9.Estrarre la bacchetta ed infilarla nella canna.
10.Pigiare con la bacchetta verso il fondo della canna quanto in precedenza versato.
11.Riporre la bacchetta nell’apposita canalatura.
12.Portare l’arma.
A questo punto si poteva sparare: un tiratore esperto poteva eseguire tutte queste operazioni in un tempo di circa trenta secondi o meno. Tuttavia in condizioni di stress da battaglia, il ritmo rallentava sensibilmente fino a toccare il minuto. Si consideri poi che si tratta di un’arma soggetta a diversi problemi che potevano far sì che il colpo non partisse. Proponiamo di seguito i più comuni:
-Polvere nera umida,che quindi non brucia, a causa di pioggia, neve o anche solo per condensa del metallo. Se il problema riguarda la polvere versata nel bacinetto, basta semplicemente vuotarlo, asciugarlo e mettere nuova polvere; se invece ad essere umida è la polvere versata nella canna, bisogna rovesciare il fucile e – colpendolo ed utilizzando un attrezzo chiamato tirapalla(tirez-ball) che si avvita all’estremità della bacchetta e dotato di uncini – cercare di fare uscire la polvere.
-Combustione della polvere posta nel bacinetto.In questo caso si è verificata un’ostruzione nel buco di comunicazione fra bacinetto e canna, probabilmente causata da detriti di carta o di polvere nera, che all’epoca era molto rozza e lasciava moltissimi residui dopo la combustione. Bisogna pulire con un panno il bacinetto e quindi utilizzare l’epinglette, una sorta di forte spillone che ogni soldato porta appeso con una catenella ai bottoni della giacca, per liberare la lumiére. A questo punto bisogna comunque riempire di nuovo il bacinetto utilizzando la polvere di una nuova cartuccia, detta di innesto, che verrà poi conservata nella giberna per usi analoghi.
-Nessuna combustione della polvere posta nel bacinetto.Questo problema, decisamente il più comune, dipende dalla mancata scintilla della pietra focaia. Diverse le cause: si è premuto con poca forza il grilletto, la pietra focaia non è ben stretta nei denti del cane o troppo usurata (si tenga presente che una pietra spara dai 12 ai 15 colpi e che i soldati avevano in dotazione tre pietre focaie, che in teoria dovevano consentirgli di sparare tutti o quasi i 35-40 colpi che portavano nella giberna, circa due kg di piombo), o va sistemata meglio, oppure, ancora, è sporca e dunque va pulita.
Per evitare tutti questi problemi, o quantomeno per ridurne l’incidenza, era molto importante tenere il fucile quanto più pulito possibile e quanto più lontano dall’umidità. Per ovviare a quest’ultimo inconveniente, ad esempio, i soldati erano soliti avvolgere il meccanismo del cane con tela o pelle, ma il problema era così sentito che persino il regolamento arrivò a prevedere una particolare posizione per portare l’arma e preservarla il più possibile dall’acqua: all’ordine l’arm sur le bras gouche, i fanti arrivavano a portare sempre il meccanismo di sparo fra il braccio sinistro ed il costato, praticamente sotto l’ascella. Il corpo, in tal modo, faceva per così dire da ombrello: dato il peso e la lunghezza dell’arma questa è però una posizione che non si riusciva a mantenere per lungo tempo. Proprio in funzione di rendere la pulizia del fucile – ma anche la fabbricazione – più semplice e veloce possibile, i progettisti fecero sì che l’intera arma fosse smontabile utilizzando un unico strumento: il tournez-vie, composto da tre lati, due dei quali terminanti a mò di cacciavite ed uno invece rotondo. I primi due servivano per smontare le viti del fucile, il terzo per stringere la vite che tiene stretta la pietra focaia. Smontarlo era molto facile: dopo aver tolto la cinghia – che però non tutti i fucili possedevano – si svitano le due viti del meccanismo di sparo e quindi lo si toglieva dal supporto in legno; poi si toglieva la vita della canna e quindi si sfilavano i tre anelli metallici che la tengono ancorata ancora al legno, magari aiutandosi con la bacchetta usandola a mò di martello se le bande si fossero rivelate troppo dure da sfilare a mani nude. A questo punto, per pulirlo bastava avere dell’acqua, preferibilmente calda, della polvere di mattone per grattare via le impurità, una spazzolina molto resistente e degli stracci per asciugarlo. Per pulire l’interno della canna si utilizzava sempre l’acqua unitamente ad alcuni strumenti attorno ai quali venivano legati piccoli lembi di stracci, come il legastracci o il tirez-ball che venivano avvitati all’estremità della bacchetta e infilando poi quest’ultima all’interno della canna. Per pulire le canne, tuttavia, spesso i soldati vi urinavano dentro, in quanto l’acidità dell’urina lavava egregiamente l’arma. Ma qual era la reale efficacia di questo fucile sul campo di battaglia? Abbiamo visto come fosse facile fare cilecca: aggiungiamo ora che si tratta di un fucile ad anima liscia. Cosa significa? Che l’interno della canna è liscio, non rigato come lo sono quelli delle armi moderne. Senza scendere in un tecnicismo da esperti, è però importante rilevare che a causa di questo particolare la palla, una volta uscita dalla canna, non riusciva a mantenere una traiettoria precisa e che questa poteva essere influenzata anche da leggeri aliti di vento. Dunque, siamo di fronte anche ad un’arma estremamente imprecisa. Ma c’è di più. Infatti la polvere nera non riusciva a dare molta forza e velocità alla pesante palla di piombo circolare usata come proiettile, cosicchè la gittata utile dell’arma risultava molto breve, comunque sotto i cento metri. Insomma, per ricapitolare, un’arma imprecisa, soggetta a cilecche e dalla corta gittata, ma che poteva veramente avere effetti devastanti se utilizzata contro un bersaglio che si trovasse a meno di 50 metri, quando si poteva vedere il bianco degli occhi del nemico. Aggiungiamo, infine, che il fumo prodotto dalla combustione poteva veramente creare – specie in giornate prive di vento – una cortina che limitava fortemente la visuale dei soldati, rendendo il tiro, se possibile, ancora più impreciso. Il panorama delle armi bianche è certamente più vario e proponiamo di seguito solo alcuni esempi. Iniziamo dalla spada in dotazione alla fanteria d’èlite – granatieri, carabinieri, volteggiatori dal 1803 e tutti i cacciatori ma anche musicanti e sottufficiali – , detta briquet, dalla lama leggermente ricurva, dall’elsa squadrata in periodo repubblicano e tondeggiante in quello imperiale e dal fodero in cuoio nero. Si tratta di un’arma che assai raramente veniva usata in battaglia: infatti, si trattava soprattutto, diremmo noi oggi con espressione moderna, di uno status-symbol, cio’ di un’accessorio che distingueva solo le truppe migliori in seno all’esercito. Non a caso, era obbligo per i soldati appartenenti a tali unità portare la spada durante la libera uscita. Era, ovviamente, la cavalleria il corpo che utilizzava le migliori e più diverse spade. La spada adottata dalla cavalleria leggera nel 1811 (ussari, cacciatori e artiglieria a cavallo) aveva la lama ricurva, l’elsa in ottone, il fodero in metallo con due anelli che permettevano al cavaliere di montare il cavallo con la maggiore libertà possibile. I dragoni portavano una spada introdotta all’inizio della repubblica, nel 1794, dalla lama dritta di circa un metro di lunghezza, elsa in ottone – che alcuni studiosi di uniformologia inglese erroneamente interpretarono come rame – e presa rivestita in cuoio nero. Rimase in dotazione fino alla fine del Primo Impero, anche se nei modelli dell’anno nono, undicesimo e tredicesimo. Infine, proponiamo il modello utilizzato dalla cavalleria pesante della Guardia. Si tratta di una spada lunga 97,5 cm, con elsa in rame giallastro contraddistinta da una granata a da un fodero in pelle nera rivestita da un foglio di metallo.Queste armi venivano usate preferibilmente di taglio più che di punta, dato che il peso stesso della spada, più ancora che l’affilatura della lama, era in grado di uccidere un uomo, specie se colpito fra collo e spalla.Infine, l’artiglieria. Abbiamo visto che durante le guerre Rivoluzionarie e Napoleoniche che insanguinarono l’Europa fra 1792 e 1815, i piccoli eserciti professionali del diciottesimo secolo divennero presto grandi eserciti nazionali formati da soldati di leva. In questo stesso periodo l’artiglieria si trasformÒ da corpo armato formato da specialisti, quasi da meccanici, in una vera e propria branca dell’armata capace di dominare i campi di battaglia. Si pensi, ad esempio, che l’Armata d’Italia aveva, nel 1796, 60 pezzi di artiglieria; sedici anni dopo, alla battaglia di Borodino, l’artiglieria di ambo le parti annoverava poco meno di 1200 cannoni, che sparavano circa 15.000 colpi all’ora… e tutto questo su di un fronte di cinque chilometri! Quali furono, dunque, i fattori che portarono ad un tale, radicale, cambiamento della situazione? Anzitutto, alla base, vi sono dei miglioramenti tecnologici. I pezzi di artiglieria, durante il ’700, erano pesanti, ingombranti e poco maneggevoli, il che rendeva problematico il loro trasporto sulle strade sterrate dell’Europa dell’epoca. Addirittura, alcuni eserciti, fra cui quello Francese, non erano in grado di muovere la loro artiglieria, tanto che il traino era affidato a contrattori civili, tramite regolare contratto, che però – diremmo per natura – evitavano accuratamente ogni esposizione al pericolo: così accadeva che, una volta piazzati, i cannoni – e specie quelli più pesanti – non si muovessero più per tutto il corso della battaglia. Per cercare di risolvere queste problematiche, molte nazioni europee continuarono, per quanto sporadicamente, a migliorare la loro arma di artiglieria. Molti di questi sforzi si focalizzarono attorno specifiche individualità che, utilizzando genio e contatti privilegiati con membri influenti della casa reale, riuscirono effettivamente a cambiare la situazione. A partire dai tardi anni 60 del 1700, in Francia sono i generali d’artiglieria a far muovere i primi passi alla normazione. Prima Jean-Florent de Valliére introduce l’unificazione dei calibri delle bocche da fuoco; dopo Jean-Baptiste Vaquette de Gribevaul stabilisce delle tabelle con i requisiti di costruzione dei principali pezzi d’artiglieria, stabilendo il principio dell’intercambiabilità delle parti meccaniche, ridefinisce lo stesso design dei pezzi, rendendoli più leggeri, grazie all’utilizzo del bronzo, e anche più facili da manovrare sia sulle strade che sul campo, introduce, sotto la canna del cannone, una vite che consente di regolarne l’alzo e dunque la distanza di tiro e disegna i traini in modo tale da permettere agli artiglieri di muoversi assieme ai loro pezzi; inventa la cosiddetta prolonge, prolunga, una corda di circa otto metri attaccata all’affusto del cannone ed al traino che evita l’inconveniente di dover sganciare/agganciare il pezzo ogni volta che, rispettivamente, viene messo in batteria oppure mosso in una nuova posizione sul campo di battaglia. Infine, Gribevaul riduce il numero dei calibri esistenti, portandoli a sole tre misure: 4, 8 e 12 libbre più un obice da 6 (all’epoca la potenza dei cannoni non era calcolata misurando il diametro della bocca da fuoco come facciamo noi oggi, bensì sul peso della palla: una libbra corrisponde a 454 grammi, per cui siamo di fronte a proiettili rispettivamente di gr. 1816, 3632, 5448 e 2724). Vengono anche create apposite scuole di artiglieria, con tanto di esami finali, che vengono frequentate per lo più da non nobili: per questo motivo, questa risulterà l’arma meno colpita dalle epurazioni rivoluzionarie. Il funzionamento di un pezzo di artiglieria è molto simile, se non uguale, a quello dei moschetti. Si inseriva la polvere da sparo, posta all’interno di un involucro di carta, la palla e si pigiava il tutto: mentre si eseguivano queste operazioni, un altro artigliere, opportunamente dotato di un guanto di cuoio, otturava il focone per prevenire – togliendo ossigeno – ogni esplosione prematura della carica causata da residui incandescenti di polvere del colpo precedente. Così caricato, il capo pezzo regolava l’alzo del cannone e – sempre attraverso il focone – forava la cartuccia e metteva una piccola miccia: a questo punto bastava darle fuoco perché il cannone sparasse. L’esplosione era talmente forte che il cannone veniva spinto indietro di qualche metro e questo obbligava gli attendenti a rimettere il pezzo in batteria, spingendolo con corde, bastoni o anche a mano. Prima di procedere al nuovo caricamento, l’artigliere dotato di scovone immergeva l’estremità con la spugna in un secchio pieno d’acqua e quindi puliva la canna, sia per rimuovere i residui della polvere da sparo, sia per prevenire – ancora una volta – combustioni non desiderate, Per quanto riguarda le munizioni, ve ne erano fondamentalmente di tre tipi:
<-Palla: una palla rotonda avente il calibro del cannone. Il proiettile produceva gli stessi effetti che produce una palla da bowling sui birilli: abbatte tutto ciò che si trova sul suo cammino ed è tanto più letale quanto più incontra formazioni profonde e può contare su terreni duri, sui quali può rimbalzare fino a quando esaurisce la propria energia cinetica. Si ricorderà che proprio a Waterloo il terreno fangoso impedì all’artiglieria francese di avere quegli effetti devastanti sulle formazioni nemiche che di solito aveva, obbligando di fatto Napoleone a posticipare l’inizio della battaglia di due ore, decisione che permetterà ai Prussiani di giungere sul fianco destro dell’armata francese.
-Mitraglia: un contenitore riempito con 112 pallottole di moschetto che veniva utilizzato a breve distanza e i cui effetti erano veramente disastrosi.
-Granata esplosiva: si tratta di palle cave riempite di esplosivo, sparate dagli obici, che venivano utilizzate per lo più per distruggere o incendiare case o villaggi o ancora per raggiungere un bersaglio celato dietro una collina.
A queste si aggiungevano munizioni particolari, come palle arroventate su speciali griglie o gli shrapnel inglesi, una palla rotonda cava riempita con un miscuglio di esplosivo e pallottole da moschetto, fatta esplodere da una miccia o anche i razzi che, per quanto veramente molto imprecisi, erano tuttavia utili per spaventare uomini e cavalli o per incendiare case e villaggi. Ma a che distanza sparavano questi pezzi? Un pezzo da 12 libbre francese arrivava teoricamente ai 1800 metri, uno da 8 ai 1500 ed uno da 4 ai1200 metri. Dal momento, tuttavia, che la precisione di queste armi, ad anima liscia proprio come i moschetti e dal rudimentale meccanismo di alzo, lasciava alquanto a desiderare, si preferiva aprire il fuoco ad una distanza nettamente inferiore che garantisse una più alta percentuale di centri. Fra l’altro, anche la cortina fumogena prodotta da una batteria era tale che anche la visibilità non consentiva di effettuare tiri su obiettivi troppo distanti ed indistinti.
La cadenza di fuoco poteva essere di 1 o due colpi al minuto; tuttavia non era possibile mantenere un tale ritmo per tutta la battaglia per la relativa poca disponibilità di munizioni
Facendo due conti, ad un ritmo di fuoco nemmeno tanto alto di 1 colpo al minuto, un pezzo da 12 libbre avrebbe potuto sparare per 78 minuti, uno da 8 per 97 ed uno da 4 per 168. Per avere qualche dato su cui riflettere, si pensi che Waterloo durò circa 10 ore, cioè 600 minuti!

Per gentile concessione dell’Associazione Napoleonica d’Italia
Documento inserito il: 24/12/2014

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