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L'Assedio di Masada nel racconto di Flavio Giuseppe (1° parte) [ di Carlo Ciullini ]

Mai più cadrà Masada...!”
Questo il solenne giuramento lanciato al terso cielo sovrastante il Mar Morto dalle reclute, uomini e donne, del potente esercito israeliano.
I giovani soldati, infatti, si recano sulle pendici del monte sacro dove i padri dei padri, nel 74 dopo la nascita di Cristo, combatterono l'ultima battaglia per emanciparsi dalla cattività imposta dalle legioni dei Flavi.
Qui, memori del valore bellico della nazione, e pronti anche all'estremo sacrificio, le nuove leve dell'apparato militare di Tel-Aviv gridano la loro fedeltà al paese, in una sorta di intima e atemporale connessione con lo spirito guerriero patrio: un legame profondo con chi, duemila anni fa, non volle soggiacere passivamente al dominio romano e si ribellò con veemenza, sino al compimento dell'atto finale.
Dopo i tragici eventi relativi a quella folle ecatombe che fu la seconda guerra mondiale, il neonato Stato d'Israele (sorto nel 1948 in seguito alla decadenza del protettorato britannico sul territorio palestinese, e grazie alla indefessa opera di nazionalisti come David Ben Gurion) ha sempre esibito i propri muscoli, palesando una organizzazione militare di livello eccelso e di proverbiale efficienza.
Gli Ebrei non erano più disposti ad accettare supinamente le violenze e le angherie altrui, che per secoli si erano attuate nei loro confronti, anche sotto forma di nefasti stermini di massa (dai periodici pogrom all'olocausto): finalmente abitatori di quella terra avita che avevano abbandonata in seguito alla diaspora, intesero mostrare non solo ai paesi limitrofi, ma al mondo intero, quanto fossero disposti a fare pur di salvaguardare la propria integrità di popolo e di Stato.
D'altra parte, già nel corso del secondo conflitto mondiale i vari battaglioni ebraici, inquadrati in eserciti regolari impegnati contro le forze dell'Asse, o presenti nelle fila di movimenti partigiani, avevano compiutamente manifestato il proprio desiderio di battersi, esaltando nei vari teatri di guerra in cui vennero impiegati le antiche virtù guerriere d'Israele.
Leggendaria, al riguardo, risulta la rivolta del ghetto di Varsavia contro i nazisti, iniziata nel gennaio del '43, e terminata circa tre mesi dopo con l'annientamento di alcune migliaia di Ebrei internati nel ghetto stesso e destinati a morire comunque, nei campi di sterminio o con le armi in pugno: questa ultima opzione fu la scelta più nobile di chi volle contrapporsi con la forza all'orrenda ineluttabilità.
Da un nemico letale che, con la fine della guerra e la vittoria degli Alleati, cessava di esistere (perlomeno sui campi di battaglia), il neonato Israele passò a doversi confrontare con un nuovo (e antico) genere di avversario: il mondo arabo.
Proprio le epocali guerre arabo-israeliane, tanto relativamente brevi quanto intense, hanno contraddistinto la seconda metà del XX° secolo.
Con esse, gli Ebrei hanno evidenziato grandi capacità militari che, poggiando su accurata preparazione e addestramento, modernità di equipaggiamento e armamento, sagacia tattico-strategica ed elasticità logistica hanno permesso alla stella di Davide di confrontarsi e prevalere al cospetto di eserciti ben più numerosi.
Nella seconda metà del secolo scorso, Israele ha dovuto più volte far fronte alle importanti realtà limitrofe del mondo arabo. Da quando infatti, nel 1948, la Palestina, ottenuta l'indipendenza del protettorato britannico l'anno stesso, fu occupata dalle forze sioniste (da sempre agognanti un ritorno alla terra di Canaan), lo scontro tra le due entità, l'araba e l'ebraica, non si è mai concretamente sopito.
Le differenze sociali, culturali e, in primis, politico-religiose hanno scavato un solco difficilmente colmabile: al netto della tensione, sempre tragicamente accesa, tra Israele e il mai riconosciuto Stato palestinese, molteplici e sanguinosi sono stati i conflitti susseguitisi per decenni tra la stella a sei punte e i rappresentanti della Lega araba.
Il primo scontro si verificò nel 1948 (cioè al momento dell'insediamento sionista in Palestina) dando luogo alla cosiddetta “guerra d'indipendenza”; secondo conflitto fu quello dei “6 giorni”(1967), seguito da quello altrettanto famoso del “Kippur”, del 1973.
Ad eccezione del caso iniziale, nel corso del quale Israele godette, in definitiva, di una sostanziale superiorità numerica nei confronti dei nemici, fu durante i due grandi eventi seguenti che si manifestò la straordinaria abilità militare degli israeliani: in effetti, a fronte di armate ben più copiose e a dispetto di mezzi aerei e corazzati in numero ridotto rispetto all'avversario, le truppe di Tel-Aviv seppero imporre il proprio predominio in ambito tattico-strategico e in rapidità d'azione.
Anche l'unione di grandi paesi affiliati alla Lega come Egitto, Siria, Iraq, Giordania non furono sufficienti ad abbattere la giovane e forte realtà ebraica.
In un certo senso, sui sabbiosi campi di battaglia del Mediterraneo e del Medioriente, parve scuotere i petti dei soldati dell'esercito israeliano lo stesso, indomito vigore che aveva agitato, in molteplici occasioni, i loro orgogliosi antenati.
Ci faremo accompagnare, in questo viaggio nell'antico valore di Israele, da Flavio Giuseppe, un nobile ebreo nato nel 37 dopo Cristo, cioè l'anno del passaggio del potere da Tiberio al nipote Caligola.
Giuseppe, un levita appartenente alla più alta casta sacerdotale, fu un intellettuale disposto anche, viste le circostanze, a intraprendere una virata a 180°: virata che lo portò, dal rappresentare uno degli elementi di spicco della resistenza ebraica verso il dominio romano, all'accettare l'egemonia imperiale, divenendo così valido sostenitore della casa flavia e suo cantore.
Proprio Tito e Vespasiano, impegnati duramente nella repressione della grande rivolta giudaica del 66/70 (una seconda sollevazione fu cruentemente repressa sotto Adriano) riconobbero infatti in Giuseppe (Yoseph in lingua ebraica) un uomo capace, che da valoroso guerriero ribelle alla vessazione di Roma avrebbe potuto, solertemente, farsene servitore grazie alle personali qualità militari, politiche ma, soprattutto, letterarie.
La “Guerra giudaica” dell'ormai romanizzato Tito Flavio Giuseppe (che nell'Urbe si trasferì dopo lo spegnimento della ribellione, per morirvi intorno al 100 dell'era volgare) rappresenta certamente un classico della letteratura antica: pubblicata prima del 79, quest'opera (che vide una prima stesura in aramaico, seguita da una seconda edizione scritta in greco ellenistico, di sicuro più diffondibile in seno al vastissimo Impero) si avvale della testimonianza diretta del suo autore che, come detto, fu uno dei caporioni dei rivoltosi.
Il racconto di Flavio Giuseppe è dunque, probabilmente, degno di fede, e le ampie competenze belliche dell'autore ci regalano un efficace resoconto dell'intero corso degli eventi.
Si ripeteva, perciò, quello che era accaduto due secoli prima col greco Polibio: al servizio degli Scipioni, da capo militare degli Achei ostili a Roma qual'era, aveva subìto il fascino della grandezza latina, ritenendone ineluttabile e fatale il dominio, e nelle sue grandi opere aveva descritto l'ascesa mondiale della città sul Tevere.
Anche Flavio Giuseppe, giustificando l'egemonia dell'aquila imperiale come espressione di una volontà provvidenziale, prestò così il suo talento alla gloria della dinastia flavia.
La stima di Vespasiano e di Tito nei confronti del protetto si manifestò in varie forme, dal conferimento di una sostanziosa pensione annua alla ospitalità nella loro reggia.
Ma riportiamo, ora, le parole dirette dello stesso scrittore, la più importante tra le testimonianze pervenuteci circa i fatti di Masada.
Masada rappresentò, in un certo senso, l'estremo rigurgito, procrastinato di qualche anno, di una guerra sanguinosissima che, estesasi per un lustro, aveva visto perpetrarsi stragi immani di legionari, guerrieri e civili, con distruzioni tanto di piccoli villaggi quanto di intere grandi città, Gerusalemme in primis, che assistette impotente allo scempio del proprio sacerrimo tempio salomonico.
Vespasiano e il figlio Tito, inviati nel 66 da Nerone per sedare la sollevazione in Giudea, se ne tornarono da quella provincia con già indosso il purpureo manto imperiale: li avevano accompagnati, in quel triste lustro, circa sessantamila addestratissimi fra legionari, ausiliari e alleati, che pur inferiori in numero rispetto alla massa del popolo ebraico avevano saputo, infine, domare la intera nazione ribelle, causando tra i rivoltosi perdite devastanti.
Le fonti storiche ci parlano di cifre realmente sconvolgenti: tra i seicentomila e il milione di morti, nell'arco del quinquennio bellico.
Tale dunque, per colpa di pazzi rivoluzionari, fu la fine di Gerusalemme -scrive Flavio Giuseppe all'inizio del 7°libro della sua opera, quello che propriamente tratta gli eventi legati a Masada- una città ammirata e famosa in tutto il mondo”.
Non è arduo cogliere, in queste parole, una indiretta giustificazione alla prassi, anche e soprattutto violenta, di coloro che, dai fatti di Giudea in poi, erano diventati i nuovi signori dello storico ebreo: i Romani.
Essi infatti, come detto, pur avendolo prima sconfitto e poi fatto prigioniero, avevano sin da subito mostrato di apprezzarne le doti intellettuali e letterarie: qualità cui seppero adeguatamente dare gratificazione.
Un'ottima arma, il latinizzato Flavio Giuseppe, in mano alla propaganda imperiale e ai Flavi: faceva buon gioco, a Roma stessa, il fatto che anche un illustre connazionale dei rivoltosi ebrei ne legittimasse l'operato.
Si trattava, in poche parole, della dura reazione a una sollevazione che non poteva avere, agli occhi dei dominatori, alcuna motivazione razionale e che, pertanto, veniva soffocata giustamente.
Chi aveva guidato la rivolta giudaica si era rivelato, anche nel racconto giuseppino, un incosciente e un utopista: in tutta la sua opera, infatti, Flavio Giuseppe sottolinea come la vittoria romana paia davvero esser sostenuta da un avallo divino, al quale è da folli opporsi.
Roma vince, Roma è signora del mondo perché così, per il momento, vuole anche il dio d'Israele: la tragica calamità che si abbatte sui discendenti di David è la punizione inflitta dal cielo al popolo ebraico, decaduto in quei valori etico-religiosi così tanto piamente osservati dai suoi padri.
Per Flavio Giuseppe, insomma, l'incendio che attraversa la terra natìa rappresenta un fuoco catartico, purificatore dello scempio morale in cui gran parte d'Israele era sprofondata.
E' tempo di tornare all'argomento principale, e di seguire lo storico nel suo accurato racconto riguardo Masada e la tragedia ad essa legata.
Al governo della Giudea, essendo morto Basso, era succeduto Flavio Silva”: siamo nel 73, e il nuovo governatore, che già nel nome portava le stimmate di uomo fidato di Vespasiano, guidò, in qualità di comandante delle truppe stanziate in Palestina, i legionari all'assedio della inespugnabile (ma anche per Roma...?) fortezza di Masada.
Questi, vedendo che tutto il paese era stato sottomesso con le armi tranne un unico bastione che era ancora in mano ai ribelli, raccolse tutte le forze che stavano nella regione e mosse contro di esso”.
Gli storici ci fanno sapere trattarsi, nello specifico, della Legio X Fretensis, che si avvalse anche dell'aiuto di diverse migliaia di uomini, grazie alla manodopera dei quali fu possibile elevare la colossale rampa con cui i Romani colmarono il dislivello che separava le loro macchine d'assedio dalla costruzione militare che assolveva pure ai compiti di reggia.
Siamo poco lontani da quel Mar Morto (chiamato lago Asfaltide da Giuseppe) costituente la maggior depressione del pianeta: in questa pianura quasi del tutto priva di vita, e circondata da pareti scoscese, svetta una irta altura di circa 400 metri, la cui cima, assai difficilmente raggiungibile, si era palesata quale luogo ideale per l'edificazione di fortilizi inespugnabili.
La narrazione di Giuseppe è, dal punto di vista descrittivo, minuziosa: “Il primo a costruirvi sopra una fortezza fu il sommo sacerdote Giona, e la chiamò Masada; poi il re Erode dedicò grandi cure a rafforzarne l'impianto.
Egli infatti innalzò tutto intorno un muro costruito di pietra bianca, lungo sette stadi, dell'altezza di dodici cubiti e dello spessore di otto, da cui sorgevano trentasette torri alte ciascuna cinquanta cubiti.
[…] Poi, vi edificò anche una reggia ai margini delle pendici verso Occidente, a un livello più basso delle mura di cinta e rivolta a Sud. Al suo interno
-prosegue l'autore- la costruzione di sale, di porticati e di bagni era di varia fattura e assai ricca. Inoltre, presso ogni luogo destinato ad abitazione, sia sopra sia intorno alla reggia, come pure davanti al perimetro del muro, aveva fatto scavare nella roccia un gran numero di capaci cisterne per la conservazione dell'acqua, assicurandone il rifornimento in quantità non inferiore a chi disponeva di sorgenti.
Una strada sotterranea, invisibile dall'esterno, portava dalla reggia alla sommità
”.
Un'opera davvero gigantesca, eretta a dispetto di una natura ostile e quasi inaccessibile.
Colpisce la perfetta organizzazione della complessa struttura, del tutto autosufficiente nonostante le evidenti difficoltà logistiche: “Erode lasciò libera per la coltivazione la spianata su in cima, che era di un terreno più fertile e più soffice di qualsiasi campo in pianura, affinché se mai si verificasse una difficoltà nel far arrivare da fuori le vettovaglie, nemmeno di questo avessero a soffrire coloro che s'erano rifugiati nella fortezza”.
Questo straordinario luogo era stato occupato dal 66 (dunque allo scoppio della rivolta giudaica) da una corrente estremista degli Zeloti, cioè degli Ebrei nazionalisti che inneggiavano al recupero dei valori tradizionali e alla piena osservanza delle regole religiose: si trattava dei Sicari, guidati nella occupazione dell'altura di Masada dal loro potente capo Eleazar.
Abbiamo già evidenziato come Flavio Giuseppe intendesse incolpare, e senza troppi giri di parole, gli Ebrei stessi per la sventura abbattutasi sulla stirpe di Abramo e di Mosè.
L'attacco verbale alla setta sicaria è tagliente e diretto: “Così, maggiormente venivano dipinti in termini aspri i nemici di Roma, tanto più si dissimulava la feroce azione di repressione perpetrata dalle sue legioni”.
Il giudizio espresso da Flavio Giuseppe sui più accesi sostenitori della ribellione (al fianco dei quali un tempo era stato egli stesso) risulta davvero impietoso: “A quell'epoca i Sicari ordirono una congiura contro quelli che volevano accettare la sottomissione ai Romani e li combatterono in ogni modo come nemici, depredandoli degli averi e del bestiame, e appiccando il fuoco alle loro case; sostenevano, infatti, che non c'era nessuna differenza tra loro e gli stranieri, dato che ignobilmente buttavano via la libertà per cui i Giudei avevano tanto combattuto, e dichiaravano di preferire la schiavitù sotto i Romani. Ma queste parole -narra lo scrittore- erano un pretesto per aumentare la loro ferocia e la loro cupidigia, come poi dimostrarono con i fatti.
Furono dunque i Sicari
-chiosa Flavio Giuseppe- quelli che per primi calpestarono la legge e incrudelirono contro i connazionali, senza astenersi da alcun insulto per offendere le loro vittime, o da alcun atto per rovinarle”.
Questa, dunque, la realtà che Flavio Silva si trovò a dover fronteggiare: la fortezza di Masada doveva assolutamente esser ripulita dalla perniciosa presenza dei suoi irriducibili occupanti, ultima vampa di una rivolta ormai da tempo sopita in tutto il resto del territorio palestinese.
Così è descritta l'opera obsidionale messa in piedi dallo scaltro governatore inviato da Vespasiano: “Dopo aver circondato tutto il luogo con una linea di circonvallazione, e resi fattivi i più minuziosi accorgimenti per impedire che alcuno potesse fuggire, il comandante romano diede inizio alle operazioni di assedio nell'unico posto che aveva trovato idoneo alla elevazione di un terrapieno.
Alle spalle della torre che dominava la pista che a occidente si inerpicava verso la reggia e la sommità, si ergeva una grossa prominenza rocciosa di notevole lunghezza e molto sviluppata in larghezza, che però restava trecento cubiti [circa 150 mt, n.d.A] più in basso di Masada: si chiamava Bianca.
Silva vi salì a prenderne possesso, e ordinò all'esercito di costruirvi sopra un terrapieno
”.
In effetti, Masada rappresentò, tra le altre cose, anche un prodigioso esempio di quanto grande fosse l'abilità ingegneristica romana, specie se legata a opere d'assedio: un'arte, questa, fortemente sviluppatasi in epoca ellenistica, e dalle legioni ancor più perfezionata e resa efficiente.
I soldati si misero in azione con grande ardore e in gran numero, ed elevarono una solida rampa dell'altezza di duecento cubiti [100 mt circa].
Questa non venne però giudicata abbastanza stabile e alta per piazzarvi le macchine, e pertanto vi fu eretta sopra una piattaforma di grossi blocchi congiunti assieme, che aveva l'altezza e la larghezza di cinquanta cubiti [25 mt]”.
Finalmente, le truppe di Silva potevano utilizzare pienamente le loro formidabili artiglierie, devastanti e, per l'epoca, “tecnologicamente” avanzatissime: “Per il resto le macchine furono costruite a imitazione di quelle fatte fare da Vespasiano e poi da Tito per i loro assedi, e inoltre fu innalzata una torre di 60 cubiti [30 mt] tutta ricoperta di ferro, dall'alto della quale i Romani, tirando con un gran numero di catapulte e baliste, ben presto fecero piazza pulita dei difensori delle mura impedendo a chiunque di affacciarvisi”.
La competenza militare di Giuseppe risalta qui in tutta la sua evidenza: egli stesso, infatti, prima della cattura, aveva validamente ricoperto la carica di comandante delle forze difensive giudaiche.
Prosegue lo storico ebreo: “Nel frattempo Silva, che aveva allestito anche un grosso ariete, diede ordine di battere continuamente il muro, e alla fine, sia pure dopo molti sforzi, riuscì ad aprire una breccia e a farlo crollare.
Ma, intanto, all'interno i Sicari si erano affrettati a erigere un altro muro, che però non doveva fare la fine dell'altro, sotto i colpi dell'ariete: infatti lo fecero elastico e atto ad assorbire la violenza degli urti
”.
Ma la tenacia e la perseveranza della macchina bellica romana era proverbiale, e anche in tale circostanza non smentì se stessa: “Visto ciò, Silva pensò che di un tal baluardo avrebbe avuto ragione piuttosto col fuoco, e diede ordine ai suoi uomini di scagliarvi contro delle torce accese.
Quello, che era fatto di legno, prese subito fuoco, e incendiandosi in tutto il suo spessore a causa della scarsa compattezza, sprigionò una enorme fiammata.
Favoriti così dall'aiuto del dio
-conclude Flavio Giuseppe- i Romani fecero ritorno festanti nell'accampamento, essendosi stabilito di scatenare l'attacco contro i nemici il giorno dopo, e nella notte rafforzarono la vigilanza perché nessuno di quelli avesse a eclissarsi”.


Riferimenti bibliografici

FLAVIO GIUSEPPE, “la guerra giudaica”, Mondadori, Milano, 2013
Documento inserito il: 09/08/2016
  • TAG: flavio giuseppe, guerra giudaica, masada, assedio, flavio silva, zeloti, eleazaro ben jair

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