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Le acque degli antichi

La cultura dell’acqua.
Analizzando le varie culture che si sono avvicendate sulla Madre Terra è interessante capire come queste abbiano risolto il fattore dell’approvvigionamento idrico, anche in rapporto al terreno geologico, per rispondere alle esigenze che la vita cosiddetta civile prospettava di volta in volta. Gli acquedotti scavati manualmente nel sottosuolo, come del resto i vecchi pozzi, sono manufatti vicini alla vita di tutti i giorni, alla gente “comune” che non si menziona nei libri di storia, ma che di fatto la Storia l’hanno fatta proprio loro. In Italia hanno accompagnato la vita di molti almeno fino alla fine del XIX secolo e ancora si utilizzano. In varie zone della Terra sono tutt’oggi l’unico sistema per l’approvvigionamento idrico. Sono opere architettoniche da preservare, recuperare e studiare, perché faticosamente realizzate affinché durassero nel tempo e dissetassero possibilmente fino alla fine dello stesso. Oggi in Europa le si documenta, ma domani potrebbe essere necessario rimetterle in funzione o scavarne di analoghe.

La storia dell’acqua.
In generale l’acquedotto è un sistema che consente di condurre l’acqua dal punto di presa a quello di utilizzo. Sfruttando la forza di gravità, un semplice canale scavato alla luce del sole può consentire all’acqua di scorrere fino al luogo di fruizione, fino all’insediamento da approvvigionare. Ma gli inconvenienti sono molti: animali che ne inquinano le acque, franamento delle sponde, intorbidamento quando piove e via così. Non ultimo il fattore bellico: la prima cosa che si faceva, quando si assediava una fortezza o un borgo, era quello di togliere l’acqua interrompendo il flusso nei canali. Generalmente, per tutti questi motivi ed altri d’ordine pratico, già dall’antichità si scavano gallerie e cunicoli sotterranei per il trasporto dell’acqua entro le mura. I cinque fattori legati all’attuale approvvigionamento idrico, ovvero il prelievo, il trasporto, il sollevamento, l’immagazzinamento e la distribuzione, erano stati risolti almeno tremila anni fa. E con ogni probabilità ne sono stati realizzati anche in precedenza. Si hanno quindi pozzi (più raramente discenderie e finestrature) che servono alle seguenti funzioni
:
- raggiungere la quota prefissata per la realizzazione del condotto sotterraneo;
- evacuare il materiale scavato e ventilare l’ambiente;
- sollevare il liquido a giorno a lavoro ultimato;
- manutenzionare l’acquedotto (Padovan G., La classificazione per tipologia delle cavità artificiali, in Padovan G. (a cura di), Archeologia del sottosuolo. Lettura e studio delle cavità artificiali, British Archaeological Reports, International Series 1416, Oxford 2005, p. 18).

In Italia, soprattutto nella parte centrale, abbiamo uno sviluppo di opere idrauliche sotterranee a dir poco sorprendente. Più le indagini sul campo si estendono più vengono alla luce acquedotti probabilmente millenari i quali, senza manutenzione alcuna, fanno fluire all’esterno il loro liquido in pacato silenzio. Spesso gli sbocchi di tali acquedotti sono occultati da movimenti franosi. Ma l’acqua prosegue, filtrando attraverso i detriti ed oggi molti scambiano queste vene d’acqua per sorgenti. Magari pure misteriose perché si trovano in posti laddove la natura del terreno non consentirebbe la presenza di acqua perenne.

Come “nasce” la tecnica idraulica?
Come ha fatto l’essere umano a “inventarsi” gli acquedotti sotterranei? La seconda domanda è: chi li ha, se così si può dire, esportati? In varie miniere le maestranze avevano la necessità di eliminare le acque sia sorgenti sia d’infiltrazione dai cantieri sotterranei. Un sistema era quello d’installare impianti di sollevamento di vario tipo come, ad esempio, norie e coclee. Oppure le si poteva incanalare in una galleria, o in un cunicolo, aventi leggera pendenza e condurle all’esterno. Probabilmente proprio per trovare una soluzione all’eduzione dell’acqua dai cantieri si sono poste le basi per lo sviluppo dell’ingegneria idraulica. L’argomento è lungo e, se vogliamo, pure affascinante, e magari si potrà riprenderlo. Ma non tutte le opere idrauliche erano destinate all’eduzione, oppure all’irrigazione dei coltivi o all’approvvigionamento di acqua potabile: alcune servivano all’estrazione dell’oro.

Aurifodine e opere idrauliche.
Antiche popolazioni hanno coltivato l’oro un po’ in tutto il mondo, ma in Piemonte la cosa assume un sapore particolare. Innanzitutto con la parola «coltivazione» s’intende l’insieme dei lavori condotti per acquisire materie prime, come i minerali, mediante scavi in superficie e nel sottosuolo. Con «aurifodina» si indica, invece, la miniera d’oro. Nell’arco alpino centro-settentrionale sono presenti alcuni giacimenti auriferi e nella parte alta del Po e dei suoi affluenti montani la presenza dell’oro è nota fin dall’antichità. Determinati studi hanno fatto emergere come la coltivazione dell’oro sia avvenuta anche utilizzando l’acqua, per muovere ingenti quantità di sabbie aurifere. Nei giacimenti secondari, ovvero dove l’oro si trova disperso nei terreni alluvionali, l’acqua è raccolta in bacini situati nella parte sommitale del giacimento, all’interno del quale si scavano trincee oppure gallerie. L’acqua viene fatta poi fluire, lasciando così che eroda il terreno ricco d’oro trascinandolo a valle in un bacino di raccolta, in cui il metallo è poi separato. Tale tecnica, denominata ruina o arrugia montium, è stata utilizzata in Italia nord-occidentale nelle miniere d’oro coltivate dai Salassi e dagli Ictimuli, oppure a Las Medulas in Spagna, dove pare che i romani abbiano impiegato le stesse genti, deportate. Veniamo ora a quanto di “misterioso”, ovvero non adeguatamente studiato, vi è in Italia tra miniere e opere idrauliche.

“Misteriose” coltivazioni.
Alcuni studiosi, pochi per la verità, considerano che il Piemonte orientale fosse una gigantesca miniera d’oro a cielo aperto, coltivata soprattutto grazie alla realizzazione d’imponenti opere idrauliche. Taluni lo negano a priori. Qualcun’altro sostiene invece che non sia opera nostrana: «Risulta quindi che nella regione Piemonte vi è stata un’immigrazione dall’India, o meglio, per vari indizi trovati nella zona di partenza degli immigrati, fuggiti perché l’Indo si era spostato di centinaia di chilometri in breve tempo, dal Belucistan verso il 3000 a.C. Un’altra importante immigrazione fu quella dei Dori, staccatisi nel XIV Sec. a.C. dal gruppo principale che si dirigeva verso la Grecia» (Micheletti T., La preistoria dell’attività estrattiva e la pesca dell’oro in Piemonte, in Politecnico di Torino – Facoltà di Ingegneria, Piemonte minerario. Minerali Storia Ambiente del territorio piemontese e valdostano, C.E.L.I.D., Torino 1992, p. 19). Tale teoria vuole che migliaia di anni fa siano migrate delle genti che dall’India (o meglio dal bacino dell’Indo) sono poi giunte in Piemonte a coltivare l’oro. La qual cosa mi lascia perplesso.

“Misteriosi” acquedotti.
Secondo altre fonti la tecnica idraulica dello scavo d’acquedotti ipogei (qui denominati karez) sarebbe giunta in Italia e quindi in Europa dall’antica Persia o addirittura dalla Cina e per l’esattezza dai territori del nord-ovest, nel Bacino del Tarim, posto a ovest del Deserto del Gobi e a nord del Tibet: «Nella sola prefettura di Turpan nel 1948 furono censiti 478 karez, alcuni dei quali andati successivamente in disuso a causa del pompaggio di acque sotterranee che ha abbassato il livello di falda. Tuttavia nel 1983 nell’intera zona alle falde delle Montagne Fiammeggianti si contavano ancora 1154 karez (Pan e Chao 1993 [Pan C., Chao T. 1993, The relation of the Karez systems of Xinjang and the central plains of China, Proceed. Intern. Conf. on Karez irrigation, p. 23, Urumqi]). Tenendo presente che lo sviluppo di un tipico karez supera in media i 3 chilometri, se ne ricava che la cifra di 3000 chilometri di gallerie sotterranee è tutt’altro che esagerata. Un lavoro che non a torto è stato da alcuni paragonato al lavoro necessario per l’erezione della famosa Grande Muraglia» (Castellani V., Civiltà dell’acqua. Archeologia del territorio da Roma arcaica alle antiche civiltà mediterranee, Editorial Service System, Roma 1999, pp. 242-243). E la conclusione, sulla quale rimango perplesso, è la seguente: «da parte di alcuni ricercatori cinesi viene sostenuto che la tecnica dei karez sia nata in tempi antichissimi sugli altopiani del Fiume Giallo (Shouchum 1993 [Shouchum C. 1993, The study of historical geography on the origin of the Karez of Turpan, Proceed. Intern. Conf. on Karez irrigation, p. 47, Urumqi]) e da qui importata nello Xinjang e dallo Xinjang verso la Persia ed il mondo occidentale. Un’ipotesi per molti versi affascinante, che vedrebbe ancora una volta l’occidente come debitore dell’antico sviluppo della civiltà cinese» (Ibidem, p. 246). Questo senza tenere conto che tale territorio ha restituito numerose sepolture i cui cadaveri, mummificatisi naturalmente, non sono cinesi (si veda utilmente: Mallory J. P., Mair V. H., The Tarim Mummies, Thames & Hudson, London 2000). Senza tenere conto che gli acquedotti non sono stati studiati e men che meno gli insediamenti.

“Misteriose” tombe.
Innanzitutto molte tombe sono rivestite in pali di legno, di dimensioni anche ragguardevoli e questo dimostra che l’area è diventata deserta in tempi relativamente recenti. Inoltre: «Settanta chilometri ad ovest del letto prosciugato del lago di Lop Nor, lungo il fiume Könch Darya (chiamato in mandarino Kong-que he, “Fiume del pavone”), lo scavo di 42 tombe ha portato alla luce 18 crani, riferibili, sulla base della tipologia delle tombe, a due diverse serie, una più antica e una più recente. I crani sono chiaramente europoidi (dolicocefali) e strettamente somiglianti ad un tipo proto-europeo, con qualche tratto nordico. La serie di tombe più antiche si trova nel centro di 7 cerchi concentrici di pali di legno piantati verticalmente, con altri pali posti a raggiera rivolti verso le quattro direzioni cardinali» (Mair V. H., I corpi essiccati di popolazioni caucasoidi dell’Età del Bronzo e del Ferro rinvenuti nel Bacino del Tarim (Cina), in Cadonna A., Lanciotti L. (a cura di), Cina e Iran da Alessandro Magno alla dinastia Tang, Olschki Editore, Firenze 1996, p. 10-11).

Europei stanziali in territorio oggi cinese.
In linea generale i corpi conservatisi nelle tombe del bacino del Tarim presentano stature medio-alte, capelli biondi o biondo-rossi o castani, pelle chiara, barbe e baffi: le foto sono da vedere. Le vesti sono ben fatte, accuratamente tessute e colorate, hanno pantaloni, gonne, cappelli. In una tomba è stata rinvenuta una donna cha indossa un singolare cappello di feltro conico e lungo, con falda circolare: sembra il tipico cappello da strega raffigurato nelle nostre fiabe. In particolare molti tessuti sono assimilabili, o identici, al tartan celtico e successivamente scozzese: «I fili blu, bianchi e marroni danno origine a un bel motivo, incontestabilmente di tipo plaid. Si tratta di un’armatura diagonale 2.2, molto simile a quelle ritrovate in Europa nel periodo di Hallstatt (inizio del 1100 a.C. circa e terminato attorno al 500 a.C.). Quindi i tessuti di Hami corrispondono all’incirca ai primi tessuti in diagonale provenienti dalle miniere di sale del periodo Hallstatt in Germania e in Austria. Stando alle nostre attuali conoscenze sulla storia della tessitura, questo tipo di tessuti è tipicamente europeo» (Ibidem, pp. 14-15).

Il «Mito Europeo».
Tornando alle opere idrauliche, sull’argomento della «importazione» ho avuto modo di osservare così: «Ben pochi acquedotti scavati interamente a mano sono stati interamente studiati. In diverse regioni mediorientali esistono acquedotti ipogei che per vari motivi vengono definiti “antichissimi”. Occorre dimostrarlo. In quest’ultimo decennio taluni ricercatori sono stati in Iran, in Iraq, nel Turfan Cinese e qualcuno asserisce che quelli del Turfan, essendo più antichi e forse scavati dai Cinesi, sono i progenitori degli altri» (Padovan G., Archeologia del sottosuolo. Manuale per la conoscenza del mondo ipogeo, Mursia, Milano 2009, pp. 148-149). Per le opere minerarie e per quelle idrauliche ci si trova dunque «debitori» di altre culture? Di altre popolazioni non europee? Può darsi. Personalmente sono di parere differente e ho cercato di argomentarlo scrivendo un libro: «Il Mito Europeo. Le culture che ci hanno preceduto». Ho parlato delle genti che sono partite da quel territorio oggi noto con il nome di Europa e sono migrate altrove, portando con sé usi, costumi e miti. Ho parlato di «europei» e non di «indoeuropei», perché le genti europee giunsero quasi in ogni angolo del mondo. Se gli acquedotti sotterranei del Turfan, assieme alle loro mummie silenti con la pelle chiara, i baffoni biondi o rossi e le fattezze da vichinghi affascinano, il deserto ha fatto sparire quasi tutto sotto una coltre arida. In Iran, invece, la vita è continuata, grazie soprattutto alle genti tenaci che lo hanno abitato e agli impianti idraulici sotterranei a dir poco eccezionali, ancora ampiamente usati e manutenzionati con cura.

L’Iran.
L’Iran, o Repubblica Islamica d’Iran, occupa la parte occidentale di un vasto altipiano che si estende nelle terre comprese tra il Mar Caspio a nord e il Golfo Persico a sud, fino quasi al confine naturale della Valle dell’Indo. È la terra della mitica Persia. Qui assistiamo al movimento di varie civiltà, che ci hanno lasciato più di quanto noi si possa sospettare sull’attività degli artigiani e degli specialisti antichi, sul pensiero filosofico e politico, sullo sviluppo di una società stratificata e articolata, sui commerci che si spingono lontano: «Concentrazione e dilatazione sono i due pistoni a movimento sincrono del motore della civiltà. La fusione tra l’uomo e le idee produce un aumento di potenziale che si scarica nello spazio circostante, stimolando o distruggendo le comunità vicine. La rapida diffusione del nuovo sistema di produzione raggiunge molto presto l’Iran ed è quindi a partire dalla fine del settimo millennio a.C. che l’altopiano entra nella storia umana, costituendo una delle regioni più avanzate. Allorquando si formerà lo stato achemenide, il paese avrà pertanto già tremila anni di civiltà urbana alle sue spalle» (Tosi M., Iran l’alba della civiltà, Provinciali Spotorno Editori, Novilara 1972, p. 20). Parlando della storia e della preistoria del suo Paese, l’archeologo iraniano Zabihollah Rahmatian descrive con semplicità e chiarezza chi sono gli Ariani e come si stanziano in Iran nel I millennio a.: «Questi Ariani, che possedevano grande abilità e talento, riuscirono facilmente a stabilirsi sull’altipiano e allacciarono buone relazioni con le popolazioni già inserite, mescolando così e influenzando a loro volta la cultura degli annessi» (Rahmatian Z., La cultura ariana nell’altipiano iranico, in Mondo Archeologico, n. 1, Tedeschi Editore, Firenze 1976, p. 20). Giuseppe Tucci così ci racconta di questa terra: «L’Iran ha fornito, per millenni, un contributo di pensiero e ispirazione d’arte a gran parte del continente euro-asiatico ed è stato mediatore fra diverse culture dell’Oriente e dell’Occidente. L’Impero achemenide congiunse l’Oceano Indiano con il Mediterraneo e raccorciò quasi le distanze immense con strade che solcano la vastità del terreno, per deserti e montagne, ostile ai commerci dell’uomo. Con Ciro riconobbe parità di diritti a tutti i sudditi e con generosità, fino ai suoi tempi insolita, tollerò tutte le religioni che, sotto il dominio di lui, fraternamente si incontrarono. La dottrina zoroastriana che inculcò l’etica scrupolosa, il dualismo fra bene e male che valicò i confini dell’Iran, il mitraismo che dilagò nell’Impero Romano, le idee escatologiche sono i bagliori di un tormento mai sopito. Poi l’Islam dovette anch’esso far molte concessioni alla resistenza d’una tradizione di cultura che è creazione imperitura dell’Iran» (Tucci G., Presentazione, in Tosi M., Iran l’alba della civiltà, Provinciali Spotorno Editori, Novilara 1972, p. 11).

Le acque sotterranee degli Arii.
Le vaste zone aride dell’Iran sono approvvigionate da ben organizzate reti di canalizzazioni sotterranee, le quali consentono la vita di superficie, oggi come allora: «L’ingegno e lo sforzo congiunti hanno prodotto uno degli elementi caratterizzanti del paesaggio iranico: i qanats. È un sistema di pozzi verticali collegati sulla base da un cunicolo sotterraneo che congiunge il pozzo principale al villaggio. L’acqua scorre al riparo dal sole e dalla siccità della superficie, per distanze spesso superiori ai 30 chilometri. In questo modo è assicurata una costante erogazione che, se avvenisse all’aperto, tenderebbe ad evaporare soprattutto sui lunghi percorsi. L’invenzione tutt’ora operata in Iran per una rete sotterranea di 170.000 miglia, risale con ogni probabilità al I millennio a.C.» (Tosi M., op. cit., p. 28). Ecco un utile passo tratto dallo storico Polibio (203-120 a.) che ci parla degli acquedotti sotterranei: «Arsace credeva che Antioco sarebbe venuto fino a questi luoghi ma non avrebbe osato, soprattutto a causa della mancanza d’acqua, attraversare con un così numeroso esercito il deserto con essi confinante. In quelle regioni non esiste acqua alla superficie della terra, benché vi siano molti canali sotterranei e pozzi scavati nel deserto, sconosciuti a chi non abbia pratica dei luoghi. Gli indigeni raccontano -ed è una notizia plausibile- che i Persiani, al tempo della loro egemonia sull’Asia, concedettero a chiunque avesse condotto acqua di fonte in località precedentemente non irrigate la facoltà di godere dei frutti del terreno per cinque generazioni. Essendo il Tauro ricco di molte e copiose acque, gli abitanti si sottoposero a ogni spesa e sacrificio per costruire lunghi canali sotterranei, di modo che ai nostri giorni chi usa di queste acque non sa donde sgorghino e siano state condotte» (Polibio, Storie, Schick C. (traduzione e note), Mondadori, Milano 1992, X, 28).

L’identità europea da mantenere.
Occorrerà oggi preservare questi sistemi sotterranei che non necessitano di energia per condurre l’acqua ai punti di fruizione. Si dovrà quindi capire che sostituire a tali sistemi sotterranei le condotte superficiali in materiale plastico è inutile ancorché dannoso. Occorre studiare come i nostri predecessori hanno sfruttato consapevolmente le risorse della natura e farne tesoro, perché le opere del passato continuano a parlarci. Se noi sapremo ascoltarle ne trarremo insegnamento nonché beneficio anche dal punto di vista culturale. Il sistema di vita facile, incentrato sul consumo del suolo, sulla cementificazione, sull’indiscriminata cattura delle acque di superficie e di falda, non solo determina la perdita dei valori tradizionali, ma innanzitutto inficia la consapevolezza di chi noi siamo e di chi siamo stati. In Europa e soprattutto in Italia, in Grecia, Spagna e Francia, abbiamo un rilevante sviluppo di opere cunicolari, destinate al trasporto dell’acqua. Occorre osservare come vi sia una certa corrispondenza tra bacini minerari e sviluppo di opere cunicolari, tra l’acquisizione di tecniche minerarie da parte di determinate genti e l’applicazione delle tecniche di abbattimento della roccia per la creazione di percorsi sotterranei, generalmente ad uso di condotta idraulica. La qualcosa meriterebbe degli studi approfonditi, che potrebbero comprovare la nascita o quantomeno lo sviluppo della tecnica mineraria e conseguentemente idraulica proprio nel cuore battente europeo, agli albori della Storia. Il viaggio dei nostri progenitori Europei ha creato il mito. Oggi i miti d’allora dobbiamo essere noi.
Documento inserito il: 21/12/2014
  • TAG: acque degli antichi, cultura dell acqua, l acqua nei secoli

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