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“God bless Romam” [ di Carlo Ciullini ]

Quando si è giovani, ci si sente pervasi da una forza e una energia dirompenti, e si ha la presunzione di essere in grado di plasmare la realtà secondo la propria volontà e le personali esigenze.
E' l'innato ottimismo della verde età: tutto sembra a portata di mano e conseguibile, e l'entusiasmo trascinante impregna di sé ogni aspetto della vita di chi ritiene di poter affrontare ogni ostacolo e risolvere ogni problema.
Ed ecco che il senso di galoppante onnipotenza trascina a una esaltazione senza limiti, quella per cui ci si sente in diritto anche di assumersi grandi responsabilità, e di farsi paladino di sommi ideali: tutto questo a prescindere dal fatto che gli altri, al riguardo, siano d'accordo, oppure no.
Questo complesso e sublimato processo di “auto-investitura”, forse arrogante in se stesso, può certamente essere applicato, oltre che al singolo individuo, anche a una ampia comunità o, ancor di più, a una intera realtà nazionale.
Nel 1776, al termine di una sanguinosa guerra d'indipendenza, gli Stati Uniti d'America ammainarono per sempre le Union Jack del Regno Unito che avevano garrito per secoli nelle contrade del Nuovo mondo, sostituendo al simbolo di quella che era stata la madrepatria, ora non più riconosciuta nei suoi attributi potestativi, la bandiera a stelle e strisce dei tredici Stati fondatori della nuova repubblica.
Nasceva, così, un paese per sue caratteristiche già moderno, vigoroso, euforico, ricchissimo di risorse umane, naturali ed economiche.
Sospinta da un soffio aureo così intenso, la nuova nazione, figlia legittima di una terra vergine benedetta da Dio, godendo di tutti i benefici incomparabili che questa offriva, non poté porre freno allo smodato desiderio di ritagliarsi un ruolo importante, anzi di prima grandezza, nel palcoscenico mondiale.
Gli Usa si ritrovarono a navigare nel mare magno della Storia accanto a vascelli come Spagna, Francia e, ancor più, Gran Bretagna: imperi consolidati, colonie e possedimenti estesissimi, dominii trans-continentali che facevano capo a entità nazionali esistenti fin dal Medioevo.
Tuttavia, la vitalità statunitense, la sua gioventù fresca e così energica, quel suo viscerale, endemico ottimismo che portava gli Americani a considerare che nulla fosse loro precluso, ebbero successo in tempi relativamente brevi.
Se il XIX° secolo rifulse per quella straordinaria epoca vittoriana durante la quale Londra rappresentò davvero l'indiscussa capitale del mondo, faro di un impero che controllava un quarto almeno del pianeta, il XX° è stato invece, indubitabilmente, l'epopea della supremazia stars & stripes.
Ciò che preme maggiormente sottolineare, ad ogni buon conto, è quanto gli Usa si sentissero, fin da subito, “unti dal Signore”, prescelti da Dio quale nazione-guida del mondo intero: una sorta di longa manus terrena, esecutrice fedele degli intenti divini volti alla pace, al benessere, alla stabilità e al progresso della comunità internazionale, ma anche feroce nemica del male e del caos.
Un'America, dunque, che riconosceva (e riconosce) se stessa non come truce sentinella, avida di potere assoluto e di dominio soffocante ma, al contrario, come tutela universale del buono e del giusto.
Un compito arduo ma, al tempo stesso, santo, e proprio per questo benedetto da Dio.
God bless America”: è lei, così grande e forte, a meritare quanto nessun'altra nazione la patente di “prediletta da Dio”, ed anzi, proprio il fasto ai massimi livelli degli Usa certifica, costantemente e senza dar adito a dubbi, la continua, privilegiata benevolenza del Signore nei confronti della terra eletta.
In una sorta di circolo virtuoso, quella americana è una grandezza che alimenta perennemente se stessa: l'America (per i suoi abitanti in primis) è il paese più grande perché è il benvoluto dal Cielo, e di converso l'operato e la praxis statunitense onorano giornalmente, come dovuto, il favore divino.
Dio e un popolo eletto, dunque.
Per tal motivo, assai spesso le più importanti personalità degli Usa, dai presidenti in giù, concludono i loro discorsi, istituzionali o meno, con la rinomata frase “God bless America”: è un esplicito invito rivolto all'Alto, perché la tutela celeste prosegua incessante nell'opera di sostegno al popolo della terra più meritevole.
Un concetto, questo, che ci riporta anche a una realtà, quella ebraica, di primo piano nell'ambito degli sviluppi internazionali: tuttavia, dal punto di vista della similitudine storica, ci appare più attinente comparare l'esperienza americana a quella di Roma antica.
Un confronto a nostro parere sempre attuale, malgrado le difformità cronologiche del caso: gli Stati Uniti, se non nella forma certamente nella sostanza, rappresentano infatti una entità sovra-nazionale (e questo per interessi, connessioni, privilegi, rapporti variegati) tanto quanto lo fu, secoli fa, Roma imperiale, forse l'“Impero” per antonomasia.
Essa stessa, un tempo, sprigionò gioventù, dotatissima sin dagli albori di sana e robusta costituzione, e oltremodo smaniosa di amplificare il proprio potere.
Un villaggio, quello romano, minuscolo all'inizio della sua prodigiosa storia, attaccato al Palatino come una tellina allo scoglio, e popolato da pastori in fuga dalla malaria, da fuoriusciti e da pochi di buono; circondato, per di più, da stirpi d'antico ceppo e di solide tradizioni: Etruschi, Latini, Sabini, e poi Volsci, Equi, Sanniti...
Potenze straniere sicuramente di livello locale, ma comunque, all'apparenza, troppo forti per una realtà minuta, appena sbocciata, quale era la Roma di metà del VIII° secolo avanti Cristo.
Tuttavia, quel popolo esiguo, ancora imberbe, ebbe fin da subito una grande considerazione di se stesso: ritenne infatti di godere, come nessun altro, di una relationship con gli dei molto, molto speciale.
Beninteso, tante tra le medie e grandi città italiche di allora, se non tutte, ritenevano di poter annoverare divinità e personaggi mitici tra i propri fondatori, e a buon diritto: a esempio, ne portavano vanto quelle realtà urbane preesistenti a Roma stessa, e che ne circondavano pericolosamente il limitato territorio.
Si diceva di Cures, l'antica capitale della Sabina, che fosse stata fondata da Modio Fabidio, figlio di una fanciulla del luogo, appartenente alla tribù laziale degli Aborigeni e unitasi al dio Quirino; Laurento, invece, era stata eretta e governata da una autoctona divinità silvestre, Pico, il cui padre era il dio Saturno; e fondatori di natura mitica poterono vantare città prestigiose come Albalonga (creata da Ascanio, figlio di Enea) e Lavinio (così chiamata in onore della sposa dell'eroe troiano, Lavinia appunto, figlia del re Latino).
Far rifulgere, alla base dell'albero genealogico della propria patria, nomi appartenenti, direttamente o no, alla sfera celeste, come non avrebbe potuto inorgoglire le schiatte di quella Italia arcaica?
E quanto lustro conferiva alla propria città una fondazione messa in atto da ascendenze divine, oppure da uomini di sangue regale e permeati di leggenda?
Così i natali illustri, ultraterreni o epici che fossero, si riflettevano prestigiosamente, nei secoli, nel vanto e nella coscienza di un popolo e di una nazione.
Quanto a Roma, essa era figlia di Romolo, suo fondatore e primo re; Romolo, a sua volta, era figlio di Rea Silvia, che lo aveva concepito congiuntasi forzatamente al dio Marte, il signore di tutte le battaglie, invaghitosi di tanta bellezza femminile.
L'accreditarsi, così, d'esser stata generata direttamente dal seme divino del dio della guerra, significava due cose, più delle altre: che il pedigree di quella piccola realtà laziale era tra i più prestigiosi, e che nel suo corpo di giovane Stato scorreva sangue guerriero purissimo.
Il desiderio ansioso, martellante, irrefrenabile di Roma di lottare non solo per formarsi e poi sopravvivere, ma vieppiù per espandersi, prevalere e dominare fu, da subito, il marchio a fuoco del suo DNA.
Già ai primi Romani, quelli del periodo regio-arcaico, parve naturale avvertire lo spirare, sopra le loro teste, di una benevola aura di protezione divina.
Anche le altre città (a partire da quelle più vicine all'Urbe, come abbiamo visto) si giovavano di forti tutele celesti, forse efficaci, certamente nobilitanti.
Ma Roma non era come ciò che la circondava, come quelle genti vetuste che la pressavano da ogni dove: Roma era oggettivamente, nella coscienza dei suoi abitanti, la prediletta degli dei.
Il filo invisibile che legava all'Olimpo quel gruppo di casupole fatte di canne e pietre, adagiate sulle pendici di un pugno di colli assiepati lungo il biondo Tevere, vibrava di magia e magnificenza quale nessun altro.
Il fato glorioso, l'immane destino splendevano nelle speranze, anzi nelle certezze, del neonato popolo romano, un popolo che, seppur appena affacciatosi al mondo, contornato da realtà statali mature e già avvezze ai conflitti e ai clangori delle battaglie, a differenza di queste sentiva salda sulla propria spalla la mano propizia degli dei celesti: gli alleati più validi, per i mortali.
Ciò che i Romani percepirono sin dai primordi fu un senso di immanente benignità ultraterrena, di irreversibilità di un fatum che aveva in serbo, per la piccola Roma, un futuro pregno di gloria e potenza universale.
Un destino immutabile, per l'Urbs, una strada maestra intrapresa sin dall'inizio della propria esistenza che non poteva essere più abbandonata: una forza inerziale, quella romana, dirompente per se stessa e per le genti che, via via, andarono confinando con i suoi onnivori limina.
Come abbiamo sottolineato riguardo alla realtà americana, anche Roma si cibò costantemente di un auto-referenziale senso di supremazia universale, di un sentimento di “superiority-complex” confortato ogni giorno dagli eventi: le vittorie e la prosperità, sulle rive del Tevere, erano la migliore testimonianza di quanto gli dei arridessero al popolo romano, una gente gratificabile in quanto “santa” per eccellenza, la più ligia ai suoi doveri religiosi, la più devota nel venerare le divinità.
E questa ferrea consapevolezza, fonte di prestigio e di orgoglio significò, per i Romani del periodo regio-arcaico e repubblicano, rendere a loro volta necessariamente “sacra” ogni azione, ogni attività, ogni relazione.
Un popolo che fosse santo agli occhi degli dei, obbligatoriamente doveva ammantare di sacralità tutto quanto portasse a compimento.
Sostenuti da una moralità e da una prassi etica incorruttibili, mai discosti dalle usanze tradizionali (tanto austere e rigide quanto oggetto di reverenza), i Romani sacralizzarono ogni cosa mettessero in pratica: non solo in ambito dei più importanti eventi politico-istituzionali, bellici, diplomatici e, a maggior ragione, religiosi, ma anche in seno alle quotidiane dinamiche familiari e nelle più semplici relazioni interpersonali.
Ogni azione, per Roma, doveva nel suo espletarsi onorare gli dei, giacché questi le riservavano la loro sempiterna benedizione. Ecco perciò, con accenti toccanti il parossismo, la presenza, nel pletorico Pantheon latino, di una divinità protettrice per ogni singolo atto di tutti i giorni, fosse anche il più insignificante: il dio protettore degli starnuti e dei colpi di tosse, quello dell'aggiogamento del bestiame e quello dei parti animali, e poi il dio a tutela dell'apertura della porta di casa, e quello preposto, invece, alla sua chiusura.
Roma, dunque, come vera e propria gemmazione terrena dell'Olimpo, e suo armonioso riflesso; Roma come enclave divina tra i popoli umani, quale figlia prediletta delle volontà celesti.
In seguito, il declino spirituale e l'incipiente corruzione (non solo dei costumi) esplosi nel I° secolo avanti Cristo, e che toccarono l'acme con le sanguinosissime guerre civili, rappresentarono i propilei di una decadenza inconfutabile dei mores atavici, vero stigma negativo del periodo imperiale.
Il più grande cantore della Caput Mundi, e della ineluttabilità del suo dominio sull'intero ecumene allora conosciuto, fu senza ombra di dubbio Publio Virgilio Marone.
I toni della sua lirica inimitabile riecheggiano assordanti, nell'opera immortale del vate mantovano: “Te regere imperio populos, Romane, memento; hae tibi erunt artes, pacisque imponere morem, parcere subiectis et debellare superbos...” [Eneide, VI, vr.851/853].
Queste le parole dell'ombra del defunto Anchise al figlio Enea, sceso nell'Ade in carne e ossa, un artificio letterario volto in concreto alla glorificazione di Roma e della sua parabola storica.
Le lunghe, forti braccia della capitale dell'impero avvinghiano il mondo, e lo portano a sé: così, alla teporosa, materna protezione sta sottesa anche la salda presa di possesso.
Risparmiare i vinti, e abbattere i superbi”...Nelle parole di Virgilio, freme e detona il richiamo esplicito alla missione universale di Roma: quella d'esser signora, e non tiranna, del mondo, egida dei perdenti e degli afflitti e castigatrice degli oppressori, di coloro cioè che si discostano dalla impronta di pacifica convivenza impressa dall'Urbs ai suoi dominii.
Frasi che, oggigiorno, possono anche risuonare risibili, alla luce dell'evidente politica di sfrenato imperialismo che, per secoli, fu portata avanti dai Romani.
Ad ogni modo, non può non risaltare, in tutta la sua evidenza, la similarità tra i “compiti universali” che Roma un tempo, e gli Usa adesso, si sono imposti in qualità di espressioni massime di potenza mondiale: un dovere etico-morale, quello di “guardiano” dell'ordine costituito e del benessere comune, ripetutamente manifestato ad alta voce dai due colossi storici.
Si tratta però, in definitiva, di una maschera di facciata, un'affettazione ostentata a sommo studio per occultare ciò che, al di là delle pieghe dell'apparenza, sembra invece evidente nella sua cruda realtà: l'imposizione di uno status quo, prima romano e poi statunitense, arbitrariamente elargito al resto del mondo, un tacito diktat di assoluto controllo delle dinamiche mondiali.
Che gli Stati Uniti d'America rappresentino un'entità politica, sociale, economico-finanziaria, militare, commerciale e culturale di portata sovranazionale, è fuori di dubbio (esattamente come Roma un paio di millenni fa): se non nel nome, che echeggia gli ideali repubblicani più puri, almeno nella sua forma l'America veste i panni, al giorno d'oggi, di un vero e proprio impero trans-continentale, con le sue numerose basi strategiche sparse un po' dovunque, nel mondo.
Ci si può domandare del perché, in queste pagine, nell'accostare a Roma una realtà concretamente (e orgogliosamente) imperiale a tutti gli effetti, non si sia ad esempio piuttosto optato per la Gran Bretagna del periodo tra XVII° e XX° secolo. Il motivo è che, a conti fatti, malgrado la medesima matrice anglosassone, le istituzioni americane hanno dato l'impressione, più di quelle inglesi, di seguire (e imitare) un “modello” romano, a partire dalle loro rappresentazioni più iconiche e appariscenti.
Ecco, dunque, l'aquila simbolo degli Usa (avvolta dal nastro recante il motto latino “E pluribus unus”) tanto quanto lo fu di Roma imperiale; poi l'autorevole nome di Senato conferito all'espressione più alta del potere legislativo statunitense, Senato che si riunisce nella grande aula congressuale dove troneggiano, per di più, imponenti fasci littori, un tempo emblemi dell'autorità consolare...
Tutti questi marchi ormai secolari (vere effigi di americanità) risultano ampiamente riconoscibili per il senso iconico di forza che esercitano: essi non sono solo richiami a Roma, omaggi all'eredità da lei lasciata, ma quasi rappresentano i segni concreti di un passaggio di testimone, la prosecuzione di un lavoro che, esauritosi in Eurasia e Africa tanto tempo prima, sia stato ripreso al di là dell'Oceano da un nuovo soggetto che, più degli altri, si sia sentito investito di una missione universale affidata dal destino.
E questa giovane nazione fatta di pionieri, di cowboy e banditi, di cercatori d'oro in perenne espansione verso territori estremi, verso spazi dilatati all'infinito, ha ripercorso davvero i passi degli antichi Romani che, mai domi né sazi, anelavano sempre di oltrepassare quel confine che marcava quanto era già loro.
Il titolo che abbiamo conferito a questo articolo rappresenta, in definitiva, un ibrido sintattico, una cucitura di lingua inglese e latina che salda assieme non solo due idiomi, ma anche due identità nazionali per molti versi simili nel percepire se stesse e il proprio rapporto col mondo.
La Roma mitica, la Roma arcaico-regia e poi quella repubblicana, serbavano profondamente, solcando il mare dei secoli, la fresca euforia della gioventù, l'ardore vibrante del popolo nuovo, ottimista a oltranza e dall'ambizione smisurata: gli dei, dall'alto delle loro sfere celesti, benedicevano tutto questo alacre fervore umano e l'opera indefessa di gente dalla devozione religiosa illimitata, una stirpe eletta e intimamente conscia della perenne protezione divina.
Un “do ut des”, quello tra Roma e i suoi dei, improntato a un rapporto purissimo di reciproca convenienza, e perciò tanto efficace quanto duraturo.
Da una parte l'Urbe assicurava ai celesti funzioni liturgiche rigorosissime in ogni loro procedura, l'erezione e il mantenimento di monumentali templi, via via più numerosi, inserendo la presenza tutrice delle sue divinità in tutti gli ambiti quotidiani; dall'altra gli dei (a partire dalla Triade Capitolina in giù) avrebbero, a loro volta, costantemente asperso la città sul Tevere con la loro benevola protezione.
Questa era, allora, la percezione diffusa e convintissima del mondo latino riguardo il miracoloso equilibrio tra umano e divino, tra terra e cielo, tra Roma e Olimpo.
Purtroppo (in un rapporto di “causa-effetto” di cui è complicato intravvedere il moto iniziale) a un declino degli integerrimi mores che, ancestralmente, sottolineavano con forza la superiorità, per natura e civiltà, dei Romani rispetto alle altre genti, seguì l'attenuarsi della devozione popolare verso i celesti (o, piuttosto, fu forse vero il contrario...?).
Tant'è, quell'aura magica che aveva, per secoli, caratterizzato l'armoniosissima relazione tra Roma antica e le sue innumerevoli divinità si affievolì fino a estinguersi.
Tutto divenne perciò più profano, più terreno, sempre meno denso di eterei ideali e sacrale reverenza: alla santità degli atti si sostituì, traumaticamente, la loro egoistica convenienza, forzato tributo ai tempi nuovi caratterizzati dalla corruzione dell'animo e dalla perdita dei valori fondamentali del vivere civile.
Facendo prevalere gli aspetti materiali della vita a scapito della sua spiritualità, i Romani del crepuscolo repubblicano, dell'era imperiale e di quella tardo-antica, ritenendosi forse meno “osservati” dall'alto e perciò disimpegnati da una relazione diretta col divino più stringente, si sentirono autorizzati a macchiare sempre più la loro esistenza di azioni illecite e fedifraghe: il sacro intangibile che permeava, un tempo, le parole, i gesti e gli eventi, la duplice natura civile e religiosa, intimamente osservata, di ogni atto ufficiale, erano colati a picco per sempre.
L'incrollabile fiducia in un trattamento di riguardo riservato dagli dei alla loro città, influenzò i Romani non solo nel perimetro religioso ma anche in seno al proprio comportamento etico, in relazione a quei costumi atavici da sempre motivo di vanto: la saldezza e la nettezza morale dei Quiriti non ebbe per molto tempo eguali tra gli altri popoli, e la parola d'onore di un Romano rendeva sacro e legittimo ogni tipo di rapporto. Poi, il declino.
L'Urbs come emanazione diretta dell'Olimpo, dunque.
Riprendiamo, infine, un concetto più volte espresso in questo articolo, e che riteniamo basilare.
E' infatti necessario ribadire in tutta franchezza che, ancor più di quelli che furono i grandi imperi del passato (Spagna, Francia, Gran Bretagna), sono stati gli Usa di questo ultimo secolo a essersi assunti il ruolo di popolo eletto e prediletto dal dio non più pagano, ma cristiano.
In Campidoglio, a Washington, proprio tra i fasci littori cui abbiamo accennato, svetta scolpito nel marmo il motto “In God we trust”: una confidenza invero ben riposta, se il premio divino per tanta sollecita devozione è la leadership americana sui popoli del mondo.
Tutte le nazioni, dalle più grandi alle più piccole, confidano nell'aiuto di Dio: ma, così come vi è un figlio o un nipote preferito da genitori e nonni, egualmente, e da sempre, è esistito un popolo che si sia arrogato il favore distinto del Cielo.
Sorta solo due secoli e mezzo fa, la nazione statunitense è necessariamente da considerarsi ancora relativamente giovane, soprattutto se comparata alla vetustà storica delle altre realtà nazionali, alcune delle quali millenarie.
Per rifarsi alla lirica di una canzone di alcuni anni fa, è proprio questo “entusiasmo ragazzino” ad agitare il cuore dell'America, pompando con forza nelle sue vene linfa fresca e vitale.
Il vigore su cui poggiare per compiere l'azione grande, il desiderio mai sopito dell'impresa memorabile, l'ambizione di toccare sempre i vertici eccelsi agitano e muovono lo spirito americano, denso di ottimistico ardimento.
Poi, anche per gli Usa, come già accaduto per Roma e le altre grandi entità politiche della Storia, giungerà l'era del declino, il tempo irreversibile della decadenza fisiologica, cui non sarà fattivamente possibile porre un rimedio che vada al di là di un temporaneo rallentamento del processo corruttivo.
E forse, lentamente, anche in America quella sacralità che i suoi cittadini conferiscono al profondo sentimento nutrito verso la patria andrà scemando, e l'euforia iniziale perderà la propria inerzia: come vuole la legge di natura, anche per gli Usa le forze verranno meno; in tal modo subentreranno nuove potenze, gravide di pugnace energia, a prenderne il posto di protagonista nel palcoscenico del mondo.
Tutto questo, fra qualche lustro, o decennio? Forse un secolo? Non è dato saperlo, ma è certo che prima o poi così sarà, per quanto al giorno d'oggi tutto sembri estremamente lontano dal realizzarsi.
Ai suoi contemporanei, in verità, anche l'egemonia universale di Roma parve davvero eterna e incrollabile, tanto da spingere un autore del periodo tardo-antico, Claudio Claudiano, a scrivere nel suo “De Consulatu Stilichonis”, verso la fine del IV°secolo (quando, cioè, il Titanic stava già affondando): “Né mai una fine si avrà del dominio di Roma”.
Eppure, Roma e l'impero d'occidente crollarono realmente, di lì a non molto: perché, come accade a ogni essere vivente, anche un popolo e una nazione, per sua stessa, intrinseca natura, nasce, cresce, si evolve maturando secondo le sue capacità, invecchia e perisce.
Così per Roma, così, probabilmente, per ciascuna nazione egemonica che, nel presente e nel futuro, ne ricalchi le orme.


Riferimenti bibliografici

CARANDINI A., “Giove, custode di Roma”, Utet, Torino, 2016
CORRIAS M., “Gli dei di Roma antica”, Uno Editori, Torino, 2017
CLAUDIO CLAUDIANO,“De Consulatu Stilichonis”, Loeb Classical Library, Harvard University Press,1922
VIRGILIO, “Eneide”, I meridiani- Mondadori (a cura di E. Paratore), Milano, 2004
Documento inserito il: 17/10/2017
  • TAG: usa, america, impero romano, antica roma

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