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Il valore della fede: l’esempio dei patriarchi dell’Antico Testamento [ di Yuri Leveratto ]

Il valore della fede: l’esempio dei patriarchi dell’Antico Testamento. Analisi dell’undicesimo capitolo della Lettera agli Ebrei

Nell’undicesimo capitolo della Lettera agli Ebrei l’autore analizza il valore della fede in Dio e della vita spirituale dei credenti, fornendo esempi tratti dall’Antico Testamento. L’autore descrive uomini e donne dell’Antico Testamento che sopportarono sofferenze e privazioni enormi pur di non rinnegare la loro fede. Nel capitolo si descrivono benedizioni materiali (terra, discendenza) e spirituali (risurrezione dei morti), che i credenti ricevettero in seguito alla loro fede. I credenti dell’Antico Testamento furono giustificati perché credevano che, in un tempo futuro, Dio avrebbe inviato il Messia per espiare i loro peccati.

Vediamo i primi tre versi:

1 La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede.
2 Per questa fede i nostri antenati sono stati approvati da Dio.
3 Per fede, noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio, sicché dall’invisibile ha preso origine il mondo visibile.


Nel primo verso si descrive ciò che la fede fa per noi. Attraverso la fede le cose che si sperano divengono reali. La fede, pertanto, porta il futuro nel presente e contribuisce a rendere reale ciò che è ancora in divenire. Nel secondo verso l’autore afferma che gli antenati degli ebrei furono approvati da Dio perché ebbero fede. Con questo verso l’autore afferma indirettamente la sua appartenenza all’etnia degli ebrei.
Nel terzo verso vi è un richiamo alla creazione del mondo da parte di Dio onnipotente (Genesi 1 e Vangelo di Giovanni 1, 3). E’ la Parola, ossia il Verbo (Gesù Cristo nel suo stato pre-incarnato), che ha creato l’universo.
Vediamo ora i versi successivi:

4 Per fede, Abele offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino e in base ad essa fu dichiarato giusto, avendo Dio attestato di gradire i suoi doni; per essa, benché morto, parla ancora.
5 Per fede, Enoc fu portato via, in modo da non vedere la morte; e non lo si trovò più, perché Dio lo aveva portato via. Infatti, prima di essere portato altrove, egli fu dichiarato persona gradita a Dio.
6 Senza la fede è impossibile essergli graditi; chi infatti si avvicina a Dio, deve credere che egli esiste e che ricompensa coloro che lo cercano.
7 Per fede, Noè, avvertito di cose che ancora non si vedevano, preso da sacro timore, costruì un’arca per la salvezza della sua famiglia; e per questa fede condannò il mondo e ricevette in eredità la giustizia secondo la fede.


A partire dal quarto verso vengono descritti esempi di come alcuni personaggi dell’Antico Testamento si siano affidati alla fede in Dio, e si siano abbandonati al Signore.
Innanzitutto notiamo che l’autore non cita Adamo ed Eva ma parte con la descrizione della fede di Abele. Adamo ed Eva, quando dovettero scegliere tra Dio e Satana, scelsero quest’ultimo. Ciò non significa, comunque, che dopo la caduta, essi non tornarono a Dio e non si pentirono del loro atto.
Abele offrì un sacrificio migliore di quello di Caino. Mentre Caino infatti offrì a Dio frutta e verdura, Abele si privò di un prezioso agnello, che sacrificò all’Eterno. Pertanto dimostrò di amare Dio più di ogni altra cosa. Abele pertanto dimostrò la propria buona fede accostandosi a Dio mediante il sangue di un sacrificio animale.
Nel quinto verso si descrive Enoc, il settimo patriarca antidiluviano, discendente di Set, il terzo figlio di Adamo. Nella Genesi si descrive che Enoc generò Matusalemme, e quindi dopo molti anni, “camminò con Dio”, quindi fu portato in cielo prima di morire. Enoc fu quindi assunto in cielo senza sperimentare la morte fisica. La sua fede in Dio era tale che il Creatore decise di portarlo con sé, non permettendo quindi che la morte avesse potere su di lui. Enoc quindi fu gradito a Dio.
Nel sesto verso l’autore ribadisce che senza fede è impossibile essere graditi a Dio. Bisogna quindi credere che Dio esaudirà le sue promesse.
Nel settimo verso si descrive Noè, il decimo patriarca antidiluviano. Egli credeva all’avvertimento di Dio, che aveva minacciato di distruggere il mondo con un diluvio (Genesi 6, 17). Noè credette, costruì un’arca e la sua fede fu ricompensata. Mentre il mondo fu condannato per la sua condotta empia, Noè e la sua famiglia si salvarono e furono giustificati per mezzo della fede. Dal settimo verso si evince anche che non importa la consistenza numerica dei credenti, ma importa solo la loro fede. Noè e la sua famiglia (sua moglie, i suoi tre figli con le rispettive mogli), erano un’assoluta minoranza rispetto agli abitanti antidiluviani della terra, eppure si salvarono, e si salvarono per fede in Dio.

Vediamo ora i versi successivi, riferiti ad Abramo:

8 Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava.
9 Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. 10 Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso.
11 Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. 12 Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare.
13 Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra. 14 Chi parla così, mostra di essere alla ricerca di una patria. 15 Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarvi; 16 ora invece essi aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città.
17 Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, 18 del quale era stato detto: Mediante Isacco avrai una tua discendenza. 19 Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo.


Abramo viveva ad Ur dei Caldei, una città della Mesopotamia (odierno Irak).
Dio gli si manifestò e gli ordinò di mettersi in cammino. Abraamo, guidato solo dalla fede, lasciò la sua casa e la sua patria e si mise in viaggio senza sapere dove andava. Dio si rivolse ad Abraamo possibilmente perché egli era l’uomo con più fede in Dio al mondo. Vediamo due passaggi della Genesi che provano che Abraamo credeva in Dio:

Abraamo credeva a YHWH, al Dio unico che lo aveva chiamato, Genesi (15, 6):

Ed egli credette all'Eterno, che glielo mise in conto di giustizia.

Abraamo credeva in un Dio onnipotente, Genesi (17, 1):

Quando Abramo ebbe novantanove anni, l'Eterno gli apparve e gli disse: «Io sono il Dio onnipotente; cammina alla mia presenza, e sii integro;

Dio aveva promesso ad Abraamo la terra di Canaan in eredità. Malgrado Abraamo avesse ricevuto in eredità da Dio quella terra, quando vi giunse non prese una dimora fissa, ma si accontentò di vivere in tende, simbolo di pellegrinaggio e di esilio, e visse a Canaan come in una terra straniera.
Abraamo infatti aspettava la città che ha fondamenta divine, il cui costruttore è Dio.
Sara, la moglie di Abraamo ebbe fede, e le fu concesso di concepire un figlio quando aveva novant’anni. Anche Abraamo era molto anziano quando nacque Isacco, (aveva novantanove anni), ma la sua fede era granitica.
Attraverso Isacco Abraamo diventò quindi padre di una numerosa discendenza spirituale, i veri credenti delle epoche successive.
Nel tredicesimo verso si ribadisce che tutti i patriarchi sono morti senza poter vedere l’adempimento delle promesse divine. Per esempio i profeti non poterono vedere il Messia. Però morirono avendo fede che Dio avrebbe inviato il Messia il quale avrebbe espiato i loro peccati, e per ciò morirono giustificati. Essi pertanto vissero come forestieri, che non aspirano a una patria terrena, ma celeste. Gran parte delle promesse fatte al popolo di Israele si riferivano a benedizioni materiali e terrene. Tuttavia i patriarchi e i profeti avevano anche una speranza celeste, in un’epoca di luce futura, che permetteva loro di considerare questo mondo come fosse un paese straniero.
A partire dal diciassettesimo verso l’autore descrive l’episodio biblico nel quale Dio mette alla prova la fede di Abraamo. Dio gli chiese una cosa terribile, di immolare il suo unico figlio, Isacco, su un altare. Ma Abraamo non titubò. Credette fermamente nel Signore e non obiettò il motivo del perché gli venne chiesta una cosa tanto difficile. Dio gli aveva promesso un’innumerevole progenie e Isacco era il suo figlio unigenito. Come avrebbe fatto Dio a mantenere la promessa sulla progenie se il suo unico figlio sarebbe morto? Ma Abraamo conosceva la promessa di Dio e niente altro per lui contava. Abraamo sapeva che Dio è onnipotente e avrebbe potuto risucitare suo figlio Isacco. Come sappiamo Dio fermò Abraamo quando era sul punto di eseguire l’ordine impartitogli. In pratica Dio verificò che Abraamo aveva una fede assoluta in lui e pertanto lo fermò: il sacrificio di Isacco non era più necessario.
Vediamo ora i versi successivi dove si descrivono i discendenti di Isacco:

20 Per fede, Isacco benedisse Giacobbe ed Esaù anche in vista di beni futuri.
21 Per fede, Giacobbe, morente, benedisse ciascuno dei figli di Giuseppe e si prostrò, appoggiandosi sull’estremità del bastone.
22 Per fede, Giuseppe, alla fine della vita, si ricordò dell’esodo dei figli d’Israele e diede disposizioni circa le proprie ossa.


Nel ventesimo verso si descrive che Isacco per fede invocò benedizioni future sui suoi figli Giacobbe ed Esaù. Sappiamo che il Signore (Genesi 25, 23), aveva annunciato a Rebecca che il maggiore (Esaù) avrebbe servito il minore (Giacobbe). Sappiamo anche che Esaù era il figlio prediletto di Isacco e come tale avrebbe avuto diritto alla parte migliore dell’eredità paterna.
Rebecca e Giacobbe ingannarono Isacco, inducendolo a pronunciare su Giacobbe la benedizione maggiore. Quando Isacco si rese conto dell’inganno ebbe un fremito d’ira, ma poi si ricordò dell’annuncio del Signore e quindi acconsentì alla volontà divina. Quindi Isacco ebbe fede nel Signore e comprese che la volontà divina doveva prevalere sulla sua personale predilezione per Esaù.
Nel ventunesimo verso l’autore descrive la benedizione che Giacobbe diede ai figli di Giuseppe, Efraim e Manasse. In realtà Giacobbe all’atto della benedizione incrociò le mani in modo che la benedizione del maggiore ricadesse sul minore, Efraim. Tale era stato l’ordine stabilito dal Signore.
Nel ventiduesimo verso si descrive la fede di Giuseppe, che era forte anche quando stava per morire. Egli credette alla promessa di Dio che avrebbe liberato il popolo di Israele dalla schiavitù in Egitto. La fede gli consentì di visualizzare l’esodo. Tale evento era così vivo nella sua mente che diede istruzioni ai suoi figli di portare con loro le sue ossa in modo che fossero seppellite in Canaan. Pertanto anche se Giuseppe era circondato dallo splendore dell’Egitto, il suo cuore era insieme al suo popolo nella benedizione futura.
Vediamo i versi successivi, che si riferiscono al patriarca e profeta Mosè:

23 Per fede, Mosè, appena nato, fu tenuto nascosto per tre mesi dai suoi genitori, perché videro che il bambino era bello; e non ebbero paura dell’editto del re.
24 Per fede, Mosè, divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone, 25 preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere momentaneamente del peccato. 26 Egli stimava ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto l’essere disprezzato per Cristo; aveva infatti lo sguardo fisso sulla ricompensa.
27 Per fede, egli lasciò l’Egitto, senza temere l’ira del re; infatti rimase saldo, come se vedesse l’invisibile.
28 Per fede, egli celebrò la Pasqua e fece l’aspersione del sangue, perché colui che sterminava i primogeniti non toccasse quelli degli Israeliti.
29 Per fede, essi passarono il Mar Rosso come fosse terra asciutta. Quando gli Egiziani tentarono di farlo, vi furono inghiottiti.


Nel ventitreesimo verso si fa riferimento alla fede dei genitori di Mosè e non alla fede del patriarca. “Videro che il bambino era bello”. Questa frase si riferisce a qualcosa di più della bellezza esteriore. Essi capirono che il bambino era stato scelto da Dio. La loro fede nel compimento dei disegni di Dio diede loro la forza di contravvenire l’editto del re e tenere il bambino nascosto per tre mesi.
Nei versi ventiquattresimo e venticinquesimo l’autore descrive che Mosè, sebbene cresciuto negli agi del palazzo d’Egitto, imparò che “ciò che da riposo non è il possesso dei beni, ma la rinuncia ad essi” (J. Gregory Mantle).
Mosè era figlio adottivo della figlia del Faraone. Una posizione aristocratica di assoluto rilievo che avrebbe potuto aprirgli le porte per essere un giorno lui stesso il faraone. Ma egli apparteneva al popolo di Dio e pertanto dichiarò la sua vera origine ebrea, rinunciando agli agi e ai vantaggi che la sua posizione gli permetteva e che lo avrebbero condotto al peccato contro Dio. Nel ventiseiesimo verso si descrive che egli preferì essere disprezzato dagli egiziani in quanto credeva nell’avvento futuro del Messia, piuttosto che dedicarsi ai tesori dell’Egitto. E ciò perché Mosè aveva lo sguardo fisso nell’eternità, e non solo nella vita terrena.
Nel ventisettesimo verso si descrive che Mosè rinnegò il re dell’Egitto e, fortificato nella fede, lasciò l’Egitto, senza timore del faraone. Inoltre nel verso ventottesimo verso si descrive che Mosè ripudiò la religione d’Egitto, e istituì la Pasqua e la cerimonia dell’aspersione del sangue in modo che l’angelo del Signore non sterminasse i primogeniti degli Israeliti. Per fede, pertanto Mosè era sicuro che la salvezza dovesse realizzarsi per mezzo del sangue dell’Agnello (Gesù Cristo) e non per mezzo delle acque del Nilo. Nel ventinovesimo verso si descrive che anche il passaggio del Mar Rosso fu un atto di fede. Gli ebrei credevano che Dio li avrebbe aiutati e avrebbe permesso loro di attraversare il Mar Rosso. Ed effettivamente il Mar Rosso si aprì (Esodo 14, 21). Ma gli egiziani che li seguivano furono inghiottiti dalle acque. Quindi il Mar Rosso, mentre fu un sentiero di liberazione per Israele, si rivelò una feroce condanna per gli Egiziani.
Vediamo ora i passaggi successivi:

30 Per fede, caddero le mura di Gerico, dopo che ne avevano fatto il giro per sette giorni.
31 Per fede, Raab, la prostituta, non perì con gli increduli, perché aveva accolto con benevolenza gli esploratori.
32 E che dirò ancora? Mi mancherebbe il tempo se volessi narrare di Gedeone, di Barak, di Sansone, di Iefte, di Davide, di Samuele e dei profeti; 33 per fede, essi conquistarono regni, esercitarono la giustizia, ottennero ciò che era stato promesso, chiusero le fauci dei leoni, 34 spensero la violenza del fuoco, sfuggirono alla lama della spada, trassero vigore dalla loro debolezza, divennero forti in guerra, respinsero invasioni di stranieri. 35 Alcune donne riebbero, per risurrezione, i loro morti. Altri, poi, furono torturati, non accettando la liberazione loro offerta, per ottenere una migliore risurrezione. 36 Altri, infine, subirono insulti e flagelli, catene e prigionia. 37 Furono lapidati, torturati, tagliati in due, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati – 38 di loro il mondo non era degno! –, vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra.
39 Tutti costoro, pur essendo stati approvati a causa della loro fede, non ottennero ciò che era stato loro promesso: 40 Dio infatti per noi aveva predisposto qualcosa di meglio, affinché essi non ottenessero la perfezione senza di noi.


La città di Gerico con le sue alte mura fu il primo obiettivo militare della conquista di Canaan da parte del popolo di Israele. Anche se le forze degli ebrei erano inferiori, Dio ordinò loro di accerchiare per sette giorni la città e, il settimo giorno, di marciarvi attorno sette volte. Nel momento in cui i sacerdoti avrebbero fatto squillare le tromba il popolo avrebbe dovuto gridare e le mura sarebbero crollate. Il popolo ebbe fede e le mura crollarono (Giosuè 6).
Nel trentunesimo verso si sottolinea come Raab, la meretrice, decise di stare dalla parte del Signore, abbandonando gli idoli, anche se ciò significava il tradimento verso la sua gente.
Nel verso trentaduesimo l’autore fa una domanda retorica e riconosce che se dovesse descrivere la fede di altri patriarchi come Gedeone, Barak, Sansone, Iefte, Davide e Samuele o i profeti, gli mancherebbe il tempo, e la trattazione si rivelerebbe troppo lunga. Nel trentatreesimo e trentaquattresimo verso l’autore descrive però le loro imprese conseguite attraverso la fede: “conquistarono regni” (Giosuè , i giudici e Davide); “praticarono la giustizia” (sovrani come Salomone, Ezechia e Giosia sono ricordati per i loro regni caratterizzati dalla giustizia); “ottennero ciò che era stato promesso” (la terra di Canaan, a dimostrazione della veridicità della parola di Dio); “chiusero le fauci dei leoni” (Daniele 6, 22, ma anche Sansone in Giudici 14, 5 e Davide in 1 Samuele 17, 34); “spensero la violenza del fuoco” (la fornace ardente consumò solo le funi dei tre ebrei in Daniele 3, 25); “scamparono al taglio della spada” (Davide sfuggì agli attacchi di Saul; Elia scampò l’odio di Iezebel; Eliseo riuscì a fuggire dal re di Siria); “trassero vigore dalla loro debolezza” (per esempio Eud era mancino, ma trafisse il re di Moab; Gedeone si servì di brocche d’argilla per sconfiggere i madianiti), ciò significa che Dio ha scelto i deboli per svergognare i forti, come scritto nella Prima Lettera ai Corinzi (1, 27):

Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti;

“divennero forti in guerra” (la fede dotò questi uomini di forza soprannaturale); “respinsero invasioni di stranieri” (anche se spesso numericamente inferiori, gli eserciti di Israele riportarono la vittoria causando lo sgomento dei nemici).
Nel verso trentacinquesimo si descrive che per fede alcune donne ricevettero in vita i loro morti per risurrezione (per esempio la vedova di Sarepta 1 Re 17, 22-23; la sunamita in 2 Re 4, 34). Sempre nel trentacinquesimo verso si descrive che la fede ha anche un altro volto. Come molti attuarono imprese epiche per fede, altri patirono sofferenze per non rinnegare la fede. Questi ultimi avrebbero potuto rinnegare il Signore ottenendo la libertà, ma preferirono morire per essere risuscitati nella gloria celeste che vivere come traditori del Signore.
Nel trentaseiesimo verso si descrive che molti furono scherniti, flagellati e torturati in prigione. Geremia per esempio sopportò tutte queste forme di punizione (Geremia 20, 1-6; Geremia 37, 15). Nel verso trentasettesimo continua la descrizione di come vari ebrei patirono sofferenze pur di non rinnegare la loro fede nel Signore. “Furono lapidati” (Gesù stesso descrive come i padri dei farisei uccisero Zaccaria fra il santuario e l’altare (Vangelo di Matteo 23, 35). “segati” (così, secondo la tradizione, Manasse avrebbe ucciso Isaia); “furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati” (il profeta Uria fu ucciso per aver proclamato il messaggio di Dio al re Ioiachim, in Geremia 26, 23).
Nel trentottesimo verso l’autore sostiene che il mondo non era degno di queste persone. Essi infatti andavano errando per deserti, montagne e caverne. Erano quindi separati dal mondo, ma non rinnegarono il loro Signore.
Nel trentanovesimo e quarantesimo verso l’autore descrive che Dio ha reso testimonianza a questi patriarchi e profeti dell’Antico Testamento, ma tuttavia essi morirono senza vedere l’adempimento di ciò che gli era stato promesso. Non poterono vedere il Messia.
Per noi credenti in Cristo, invece, e qui l’autore si riferisce all’età della Grazia, Dio riservò qualcosa di meglio. Dio aveva stabilito che essi non giungessero alla perfezione senza di noi.
Nel quarantesimo verso l’autore vuole significare che i credenti dell’Antico Testamento non potranno gustare la perfezione del corpo glorificato finché non saremo stati tutti rapiti in cielo per incontrare il Signore come descritto nella Prima Lettera ai Tessalonicesi (4, 13-18).
Pertanto i credenti dell’Antico Testamento furono giustificati perché credevano che, in un tempo futuro, Dio avrebbe inviato il Messia per espiare i loro peccati. I giusti di oggi guardano al passato, credendo che Dio, nella persona di Gesù Cristo, abbia già espiato i nostri peccati sulla croce.
Pertanto la Luce eterna di Cristo ha illuminato tutti gli uomini, da sempre, sia quelli che vissero nel passato, sia quelli che vivono ora e vivranno nel futuro. Quelli che prima di Cristo hanno avuto fede in Dio e si sono abbandonati alla sua volontà, credendo per fede che i loro peccati sarebbero stati espiati, hanno ottenuto la giustificazione e sono poi stati salvati da Cristo con la sua morte vicaria.
Documento inserito il: 22/04/2018

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