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Perché amare il Greco? Commento al libro 'La lingua geniale. 9 ragioni per amare il Greco' [ di ]

di Savino Strazza


Il grande scrittore J.R.R Tolkien soleva dire: “Che cosa sono le lingue dopotutto, non solo il modo di chiamare le cose ma la ninfa vitale di una cultura di un popolo”.
Così la lingua greca riesce ancora a stupirci , a raccontare, ad impressionarci a distanza di secoli; riesce ad essere immortale grazie alle voci, le gesta, le ambizioni di un popolo che cambiò per sempre il volto del mondo.
Andrea Marcolongo e il suo libro tengono fede alla passione e, soprattutto, all’amore che il greco infonde ancora nei nostri animi, perché, come ricorda l’autrice, è “strano voler sapere il greco”, dovremmo solo imparare ad ascoltarlo.
Questo libro vuole fornirci “9 ragioni per amare il greco”. Diviso in nove capitoli, ognuno contiene un frammento di ragione per amare la lingua geniale. L’autrice si sofferma, innanzitutto, sul concetto del tempo in greco. È affascinante conoscere e comprendere, già da questa fondamentale sfaccettatura la lontananza di pensiero tra la nostra civiltà e quella della Grecia Antica. Per noi il tempo, dice l’autrice, è prigione, è paura di non essere, di non essere stato e di non essere in futuro. Per i greci, come per i latini poi, il tempo è, invece, opportunità, non “perché?” ma “come?” e questo “come?” si esprimeva tramite l’aspetto, esso si riferiva solo all’importanza della qualità dell’azione al di fuori delle catene temporali. In fondo alla lingua greca non interessa il momento preciso dell’azione, non vuole interromperne la corsa tra il suo inizio e la sua fine. Ciò che importa è, invece, il suo “divenire”, non soltanto “l’istante in cui avviene”. Di qui il concentrarsi sul “come”. Ne deriva che il modo del verbo usato, insieme alla costruzione della frase rappresentano senza dubbio una riflessione intorno all’azione, il suo esistere o non esistere. Ad esempio l’uso dell’ottativo, un tempo ormai scomparso nelle lingue moderne, è foriero di sfumature impensabili. Esso esprime un desiderio, ponendo l’attenzione sulla possibilità o meno della sua realizzazione.
Ogni aspetto della grammatica e della sintassi greca viene analizzato in modo originale, comunicandone al lettore un fascino che, spesso, si dimentica di trasmettere sui banchi di scuola. Così sui suoni, accenti e sugli spiriti, senza mai dimenticare che il greco è una lingua per sempre scomparsa insieme ai suoi “parlanti”.
E sono scomparsi anche i suoni del greco. Ricorda, infatti, l’autrice che non possediamo i testi della letteratura greca. Li possiamo leggere, studiare, ma non pronunciare. Sono giunti a noi muti, senza voce. L’alfabeto in cui ora leggiamo i testi greci corrisponde a quello adottato ufficialmente ad Atene nel 403-402 a.C., composto da ventiquattro lettere. Abbiamo, cioè, l’alfabeto scritto, ma non il suono delle lettere. Dell’esatta pronuncia non abbiamo un’accurata descrizione, anche perché i suoni del greco cambiarono nel tempo, oltre che nello spazio. La musicalità di questa lingua non c’è stata tramandata nella sua totalità. Ecco perché, per noi contemporanei, appare difficile apprendere il vero significato dell’accento greco il quale non era di tipo intensivo ma melodico. Non consisteva tanto nell’intensità quanto nel tono del suono emesso. Stesso discorso per la caratterizzazione ritmica della stessa lingua greca, basata sull’alternanza di sillabe lunghe e brevi.
L’autrice passa poi a considerare i diversi aspetti della perdita della pronuncia originale, soffermandosi sul grande lavoro dei grammatici alessandrini che codificarono i segni grafici giunti fino a noi: spiriti, accenti, punteggiatura.
Nel greco antico, grammaticalmente parlando, si contava fino a tre: uno, due, due o più. Affianco al singolare “io” e al plurale “noi”, la lingua greca antica possedeva un terzo numero: “il duale”, cioè “noi due”. Tuttavia, ci ricorda sempre l’autrice, il duale non esprimeva una mera somma matematica , “uno più uno uguale due”. Il duale era, invece, il numero del patto, dell’accordo, dell’intesa. Era il numero della coppia, il contrario della solitudine. L’uso di questo numero era legato alle relazioni che l’autore scorgeva tra due entità. Il suo utilizzo, infatti, dipendeva dalla connessione e dal rapporto che il parlante rintracciava o non rintracciava tra due entità. Un numero per dare senso alle reazioni tra cose e persone, se quel senso c’era. Come puntualmente sottolineato nel libro, il duale ha senso solo perché il greco antico sentiva il bisogno di esprimere linguisticamente qualcosa di più di un numero matematico, qualcosa che noi abbiamo perduto, impegnati a far di conto. Il senso delle relazioni tra le cose e le persone.
Altro punto centrale del libro è la risposta alla domanda “come si traduce?”. E qui l’autrice si sofferma sulla differenza tra “traduzione” e “versione”.
Tutte le lingue straniere si “traducono”, le lingue antiche, il latino e il greco, si “volgono”. Versione deriva dal latino “verto” che significa “indirizzare”, “cambiare”, “trasformare” e, quindi, anche “tradurre”. “Tradurre” deriva dal verbo latino “traduco” cioè “trasferire”, “svelare”, “condurre al di là”, “portare altrove”. L’obiettivo profondo della traduzione, precisa Andrea Marcolongo, è quello di condurre il significato al di là della barriera linguistica del significante, per questo, la traduzione, intesa nel significato evidenziato, non sarà mai l’opera originale ma “un cammino” verso il suo senso originale. Il risultato, in definitiva, rappresenterà “un incontro” , come chi si imbatte in un’altra persona, lontana ma al tempo stesso vicina. Per arrivare alla fine di quest’incontro è necessaria una perfetta conoscenza della lingua ma anche la capacità di ascoltare “cosa la lingua ci stia dicendo da un passato che è si remoto, ma non dissolto”.
Documento inserito il: 09/09/2020
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