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Roma e l'Evocatio: vitto e alloggio offresi [ di Carlo Ciullini ]

Roma è una meta del turismo internazionale di grande prestigio: l'inarrivabile fascino archeologico, artistico, culturale e storico ne fanno uno dei luoghi più ammirati al mondo, visitato ogni anno da milioni di persone, irresistibilmente attratte dal magnetico richiamo della “Città eterna”.
Interminabile è la lista delle sue straordinarie icone, universalmente conosciute e amate: il Colosseo, Piazza San Pietro, Castel Sant'Angelo, la fontana di Trevi, i Musei Vaticani, il Mosè e la Pietà michelangioleschi, l'Ara Pacis, Trastevere e l'isola Tiberina... I simboli stessi del Comune della città, la Lupa capitolina e l'acronimo S.P.Q.R godono di rinomanza quanto pochi altri.
Si sta bene, a Roma: anzi, benissimo.
E la bellezza frutto dell'ingegno umano, accumulata in secoli, è ricamata su una natura morbida, dolcemente suadente, i colli accarezzati dal sinuoso scorrere del Tevere, testimone silenzioso di millenni carichi di storia leggendaria.
La Caput Mundi, centro vitale di un impero ineguagliabile per durata e complessità, si è poi trasformata nel cuore pulsante della cristianità: alla supremazia politico-militare ed economico-commerciale, si è così sostituita quella religiosa, e dall'antico Mons Vaticanus è venuta irradiandosi su tutto il pianeta, vividissima, la luce di un credo che ha mutato realmente il corso degli eventi umani.
Perché a Roma, da sempre, non si sono trovate bene (nonostante tutto) solo le persone: anche la divinità, in qualunque forma si sia palesata, ha da millenni fatto dell'Urbe la sede più piacevole.
Venerando il divino, dai Numi più arcaici sino al Dio dei cristiani, i discendenti di Romolo hanno mostrato una sensibilità religiosa sui generis, tanto devotamente profonda e dogmatica da rasentare, non di rado, la più bieca superstizione.
Se Roma è stata, per secoli, centro del mondo, lo si è dovuto in gran parte (questo hanno sempre pensato i suoi abitanti) alla perenne protezione che la divinità, nelle sue molteplici accezioni storiche, ha copiosamente elargito alla pia e zelante città. In ambito di storia antica, l'Urbs, sin dalle sue origini, si è come arrogata la patente di dimora terrena prediletta dalla deità, di enclave esclusiva e prestigiosa solerte a ricevere degnamente il variegato Pantheon celeste.
Un continuo scambio di “amorosi sensi”, quello tra l'Olimpo e il popolo dei Quiriti, un rapporto privilegiato con l'ultraterreno che i Romani ritennero fosse loro dovuto meritatamente, giusto premio per la cura maniacale con cui essi, ferventi, gestirono i culti religiosi e le procedure rituali.
Roma era grande, anzi lo diveniva sempre più, e c'era davvero posto per gli Dei d'ogni foggia e provenienza: quanto maggiormente la città si fosse impregnata del divino, tanto più sarebbe stata prospera e potente.
Non si temeva, al riguardo, alcuna pletorica saturazione: tutt'altro.
La religione romana fu in grado di assimilare abilmente enti supremi appartenenti ad altri contesti etnici: sovente, questa opera di integrazione fu il frutto di una suadente opera di seductio, grazie alla quale Roma puntava sulla propria fascinazione per addurre a sé gli Dei di popoli con i quali veniva a scontrarsi, in modo da privare i nemici del supporto divino.
Ad esempio, nei casi di assedio si invitavano, tramite appositi riti, le entità sovrannaturali preposte alla tutela della città ad abbandonarla, per ricevere in cambio un culto ad hoc a Roma, con la prestigiosa edificazione sui colli di un tempio personale e la costituzione di uno specifico corpo sacerdotale.
Si parlerà, in queste pagine, proprio dei melliflui inviti che i Romani lanciarono agli Dei inizialmente loro ostili, per convincerli ad abbracciare la causa di Roma e trasferirsi sulle rive del flavus Tevere: essi avrebbero, così, privato della loro egida i protetti di un tempo, a partire proprio dai centri abitati.
L'offerta romana sventolava, dinanzi agli occhi delle divinità anche più riluttanti, la possibilità di un “trasloco” estremamente conveniente: l'erezione di splendidi sacrari, certamente più grandi e opulenti dei precedenti, e un'offerta di voti e doni ricca e costante.
Il Campidoglio, il sacer Pomoerium avrebbero rappresentato le sedi élitarie per eccellenza, degne financo della deità più esigente.
Insomma, un mutuo e vantaggioso scambio, quello tra il popolo di Roma e i suoi Dei, vecchi o nuovi che fossero, conferente lustro e benessere comuni.
Il richiamo, allettante e deciso al tempo stesso, volto ai Numi perché lasciassero il campo avverso volgendo lo sguardo a Roma, portava il nome latino di evocatio: un trascinare a sé ammaliante e irresistibile, un'offerta cui non poter rinunciare. Straordinariamente, Roma aveva così potuto collezionare, come fossero figurine da applicarsi su di un album, una legione di Dei di tutte le risme, assoldando copiosamente forze sovrannaturali pronte a ogni bisogna.
Qualsiasi aspetto del vivere quotidiano dovesse esser tutelato, ebbene, l'Urbs poteva vantare il dio o la dea preposti all'uopo, fossero autoctoni o d'importazione.
Una spesa, quella relativa alla voce “culti statali”, sicuramente ingente, ma ben investita: Roma rappresentò davvero, è il caso di dirlo, il paradiso degli antichi Dei.
Una prerogativa che, in verità, pare poco mutata anche oggi...
L'evocatio consisteva in un qualcosa di simile a un carmen, una formula evocativa pronunciata, dopo aver posto l'assedio a una città nemica, poco prima di entrare nella stessa, ormai conquistata.
Al termine della formulazione, si compiva il sacrificio rituale: l'esame degli exta, cioè le viscere della vittima, dava l'assenso o il diniego degli Dei invocati a lasciare l'urbe capitolata per trasferirsi, quindi, a Roma, patria dell'esercito vincitore.
Le fonti antiche, al riguardo, ci testimoniano alcune di queste evocationes: sebbene, dal punto di vista filologico, esse non siano appurabili nella loro letterale enunciazione, tuttavia contribuiscono in modo efficace a disegnare lo stereotipo evocativo, la procedura usuale grazie alla quale “arruolare” nei propri ranghi le forze divine.
Effettivamente, agli occhi dei religiosissimi Romani, fare propria una città senza prima trarne fuori i suoi Dei tutelari, avrebbe significato render gli stessi captivi, cioè prigionieri.
Macrobio, un autore latino del V° secolo dopo Cristo, nella sua opera tanto affascinante quanto mastodontica, i “Saturnalia”, ci riporta un paio di evocationes: egli narra di averle riprese da uno scritto di Semmanieo Sereno, un trattato chiamato “Delle cose perdute” che presentava due formule, pronunciate a pieni polmoni dal comandante romano (forse Scipione Emiliano, nel 146 a.C.) dinanzi alle mura di Cartagine, assediata e in procinto di cadere.
La prima di esse recita così: “Se c'è un dio, se c'è una dea sotto la tutela dei quali stiano la città e il popolo di Cartagine, io ti prego, io ti scongiuro e ti domando in grazia, o grande dio che hai preso questa città e questa gente sotto la tua protezione, di abbandonare la città e il suo popolo, di disertare tutte le sue abitazioni, templi e luoghi sacri, e di allontanarti da essi; di inspirare a questa gente e alla sua città la paura, il terrore e l'oblio, e dopo averli abbandonati, di venire a Roma da me e i miei.
Che le nostre case
- prosegue l'orazione- i nostri templi, i nostri oggetti sacri e la nostra città ti risultino più piacevoli e più convenienti; fa in modo che noi si sappia e si constati che ormai tu sei il protettore mio, del popolo di Roma e dei miei soldati.
Se tu agirai in questo modo, io faccio voto di fondare dei templi e di istituire dei giochi in tuo onore...!
”.
Macrobio tende a sottolineare come tali parole, altamente significanti e solenni, potessero essere pronunciate espressamente soltanto dai dittatori e dal comandante in capo, in qualità di massime espressioni dell'esercito romano assediante: erano loro, tra gli esseri umani, i più titolati a rivolgersi direttamente agli Dei e a invocarne l'attenzione.
Ed ecco la seconda evocatio tramandataci da Macrobio, riferita, con ogni probabilità, allo stesso evento bellico riguardante la precedente orazione: la epocale capitolazione, al termine della IIIa guerra punica, di Cartagine, e la sua totale rasatura al suolo, culminata nel celebre spargimento di sale sulle macerie affinché più niente avesse a rinascere in quei luoghi.
Una damnatio memoriae in piena regola, dunque, applicata non a un singolo personaggio, o a una dinastia, ma a una città intera (in realtà, come ben sappiamo, nei secoli seguenti alla distrutta Cartagine punica subentrò quella romana, florido porto tra i principali centri di flusso commerciale dell'impero).
La preghiera lanciata ai Numi della metropoli africana suona così: “Dì, padre Giove, o Mani, o in qualunque maniera sia lecito chiamarvi, io vi prego, tutti voi, di riempire di paura, di terrore, di angoscia questa città di Cartagine e questo esercito di cui intendo parlare.
Che questi soldati, questi nemici, che questa armata che lancia schiere contro le nostre legioni e contro le nostre truppe, che la loro città, i loro campi, e che coloro che abitano nelle loro case, nei loro borghi e nelle loro campagne siano da voi messi in fuga e privati della luce del cielo.
Che l'armata dei nemici
- incalza l'invocazione, dai toni cupi e quasi infernali- che le loro città, che i loro campi, dei quali voglio trattare, che le teste delle persone di ogni età vi siano dedicate e consacrate, secondo le leggi mediante le quali vi sono consacrati i più forti tra i nemici.
In virtù della mia magistratura, io ve li dedico al posto nostro, io ve li sostituisco per mio conto, al posto del popolo romano, delle nostre legioni e dei nostri eserciti, affinché voi conserviate, in mezzo all'impresa che dobbiamo compiere, la mia persona, la mia dignità, il mio potere, le nostre legioni e le nostre schiere...!
”.
il rito evocativo è giunto quasi al termine, e l'imperator si fa carico della promessa solenne, onde ricompensare la divinità ormai divenuta favorevole: “Se lo so, se lo sento, se comprendo che così avete fatto, chiunque abbia giurato di immolare per voi tre pecore nere, in qualunque luogo lo abbia fatto, si ritenga validamente impegnato.
Terra, madre nostra, e te, Giove, te lo garantisco...!
”.
Tito Livio nella sua monumentale “Ab Urbe condita”, fonte antica tra le più preziose, richiama un'altra evocatio, proferita dinanzi alle salde mura di Veio, enclave etrusca nel Vetus Latium: l'orante è Furio Camillo, allora dictator della Repubblica romana, impegnata da un decennio in un estenuante assedio alla città nemica.
Il rito, eseguito dal generale con tutti i crismi, fu un vero e proprio happening, con l'arrivo da Roma di una moltitudine pronta ad assistere di persona alla caduta della potente avversaria: una sorta di rappresentazione cinematografica ante-litteram...
Livio descrive l'emozione di quel giorno, ore che avvolsero il popolo e l'esercito romani vibranti di febbrile attesa per l'epocale evento: l'acerrima rivale stava per essere finalmente conquistata, e Roma avrebbe potuto, in tal modo, mettere una pietra fondamentale alla sua conquista di spazi vitali nel Lazio e alla sua montante brama di dominio.
Si riversò nell'accampamento una folla smisurata -scrive lo storico patavino- Allora, dopo aver preso gli auspici, egli [Camillo, n.d.A] avanzò e disse ai soldati di impugnare le armi”.
Levata una preghiera ad Apollo delfico (cui sarebbe spettata una parte importante del bottino: gli Dei andavano sempre trattati con sommo rispetto e abbondante generosità...), il condottiero invocò poi la grande protettrice della città assediata, chiamandola a sé: “Prego te, Giunone Regina, che ora risiedi a Veio, di seguire noi vincitori nella nostra città che, ben presto, sarà la tua: qui ti accoglierà un tempio degno della tua grandezza...!”.
E' il V°libro del capolavoro liviano a riportarci queste parole, e lo stesso scrittore augusteo intende evidenziare quanto l'evento bellico fosse permeato di sacralità e di dinamiche sovrannaturali: “I Veienti […] erano ignari di come gli Dei fossero stati chiamati alla spartizione del bottino, e non sapevano che fossero stati attratti fuori da Veio dalle preghiere dei Romani, e già guardavano ai templi dei nemici e alle nuove sedi; essi erano all'oscuro che quello fosse l'ultimo dei loro giorni”.
Arroganza, forse, nel proporre ai Celesti di mutar bandiera.
Certamente, superba consapevolezza della propria, irresistibile fascinazione, cui nessun dio avrebbe potuto resistere: Roma non aveva concorrenti, in questa “compravendita divina”, forte di una capacità di contrattazione senza pari.
Il circolo virtuoso, in effetti, si staglia in tutta la sua evidenza: la città più potente assolda gli Dei tutelari dei rivali, ricavandone sempre maggior prestigio e forza grazie ai quali trascinare, sin dentro le sue mura, i Numi prima avversi.
Nella sua straordinaria, incessante opera di assimilazione di quanto le fosse alieno ma utile (usi, costumi, riti e tradizioni di altre popolazioni), Roma non poté trascurare di far proprie anche le entità celesti, sicuramente il patrimonio di maggior affidamento tra quelli ereditabili da gente straniera.
In antichità, l'onnipotenza divina godeva della più totale e indefessa fiducia: niente accadeva senza il suo favore, e niente cui essa si fosse opposta.
Per tal motivo, un popolo dedito alla guerra quale il romano, non poteva astenersi dal consultare, prima di ogni battaglia, àuguri, aruspici e vati onde comprendere la volontà degli Dei circa lo scontro e il suo esito: dinanzi a un parere negativo espresso dal vaticinio preposto, la superiorità numerica, logistica e d'armi di un esercito legionario rispetto al nemico decadeva automaticamente, forzando le coorti alla ritirata o all'attesa di un responso più propizio.
Non vi è dubbio: i Quirites si arrogavano, come tutte le grandi potenze nella storia dell'umanità, il privilegiato diritto d'intrattenere un rapporto quasi “intimo” con le divinità, una relazione altolocata del tutto gratificante per ambo le parti contraenti.
L'Urbs, così, beneficiava della nutrita presenza divina, una pletora di dei e dee adibiti alla salvaguardia di ogni aspetto della quotidianità, dalle vittorie in guerra al raffreddore dei neonati; di rimando, il Pantheon inflazionato della città, colmo di divinità antiche e di recente importazione, veniva gratificato dalla solennità dei templi e dei sacrari, dalla magnificenza dei riti liturgici e dall'opulenza degli ordini incaricati dei culti.
Roma amava essere amata: nello spasmodico ampliamento dei suoi confini, nella costante ricerca di nuovi spazi, l'integrazione delle divinità straniere con le quali si venne via via a trovare rappresentò uno dei motivi pregnanti del suo formarsi quale entità cosmopolita senza pari, almeno per quel che riguarda la storia del mondo antico.
Roma, la prediletta degli Dei, dunque: Dei ben felici di proteggerla e di farne brillare sempre più il nome.

Nell'immagine il tempio dedicato al dio Mitra, divinità "importata" dall'oriente.


Riferimenti bibliografici

MACROBIO, “Saturnalia”, III°libro, Utet, Torino, 1977;
TITO LIVIO, “Ab Urbe condita”, V°libro, Sonzogno editore, Milano, 1937;
Documento inserito il: 09/01/2018
  • TAG: roma antica, dei, evocatio, religioni, impero romano

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