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Le portaerei giapponesi. Uno studio completo della loro strategia

La seconda guerra mondiale, dopo la prova data dalle portaerei in Atlantico, con la scoperta e il conseguente affondamento della BISMARCK, ed in Mediterraneo, con l'attacco alla flotta italiana a Taranto, doveva pienamente consacrare il valore di questo tipo di nave nel corso del gigantesco conflitto nippo-americano.
Il voler dare adesso un giudizio sulla validità delle portaerei giapponesi ci porta indubbiamente molto lontano giacché, prima di poterne emettere uno che abbia una qualche parvenza di validità, é necessario tener conto di svariati fattori che concorsero tra loro a far si che questa determinata specialità della Marina giapponese, dopo un esordio brillantissimo, dovesse prima segnare il passo e poi accettare, pressoché passivamente, la superiorità americana, superiorità che seppe estrinsecarsi nelle navi, nella tattica di combattimento e negli aerei imbarcati.

LE NAVI
Per tutta la durata della guerra nel Pacifico - dal 7 dicembre 1941 (attacco a Pearl Harbor) al 15 agosto 1945 (data della fine delle ostilità) - venticinque portaerei vennero utilizzate dalla Marina Imperiale, includendo tra queste anche la SHINANO, affondata nel corso delle sue prime prove in mare. Orbene, su venticinque portaerei entrate in servizio, alla fine della guerra soltanto quattro unità (HOSHO, JUNYO, RYUHO e KATSURAGI) risultavano ancora a galla, mentre tutte le altre ventuno erano state affondate.
Riguardando queste cifre, si sarebbe ovviamente tentati a far d'ogni erba un fascio, concludendo immediatamente circa l'estrema fragilità della portaerei in genere.
Una tesi di questo genere correrebbe tuttavia il rischio di venir smantellata perché le portaerei americane della classe ESSEX, colpite da attacchi suicidi, come la TICONDEROGA, l'INTREPID, la FRANKLIN e la WASP, fornirono un'ampia dimostrazione delle capacità di resistenza acquisite da una portaerei convenientemente costruita e compartimentata.
Bisogna tener adesso conto che, delle venticinque portaerei giapponesi entrate in servizio, soltanto dieci vennero costruite come tali, tre risultarono dalla conversione di unità da battaglia, mentre addirittura dodici, dunque quasi il 50% del totale, furono delle portaerei improvvisate perché originate dalla conversione di navi non di squadra come: navi appoggio aerei, navi appoggio sommergibili e navi passeggeri.
Queste ultime unità non solo risentirono sempre dei difetti insiti nella loro costruzione, ma anche, come nel caso della JUNYO alla Battaglia del Mar delle Filippine (giugno 1944), di una capacità d'intervento molto ridotta, giacché la scarsa velocità e le ridotte dimensioni del ponte di volo, non consentirono il loro intervento quando invece sarebbe stato necessario. Infatti, i bombardieri a tuffo del tipo Aichi 12 SUISEI (JUDY) imbarcati sull'unità, non vennero neppure impiegati perché, non solo la portaerei non aveva la necessaria velocità per poterli lanciare nella zona in cui poteva trattenersi, ma anche perché, data la limitatezza del ponte di volo, anche in condizioni normali l'involo e l'appontaggio si presentavano alquanto problematici. Visti questi risultati, é logico dedurre che l'esperienza nipponica consacrò il fallimento della portaerei da combattimento originata dalla conversione d'una nave non protetta perché, come giustamente disse il famoso critico navale Pierre Belleroche, analizzando appunto in un suo studio , apparso nel dicembre 1945, la causa della disfatta delle portaerei del Sol Levante: "Le porte-avion est un navire de combat armé d'avions de même que la cuirassé est un navire armé de canons. Faire un porte-avion de ligne à partir d'un coque non protegés de paquebot est aussi normal que de transformer un paquebot en bâtiment de ligne".
Infine, altro fattore negativo che l'entrata in servizio di siffatta unità portò alla Marina Imperiale, fu la mancanza di "omogeneità" nei tipi, fattore che rese particolarmente cauto il Comando Supremo Giapponese nell'impiegare le sue squadre di portaerei per tutto il 1943.
Dopo la disfatta di Midway, bisogna infatti tener conto che ai Nipponici rimasero soltanto due unità d'una certa consistenza e d'un certo rendimento, la SHOKAKU e la ZUIKAKU, e che pertanto bisognò attendere il marzo 1944, epoca d'entrata in squadra della TAIHO, per avere una portaerei le cui caratteristiche di velocità e di protezione potessero sufficientemente integrare le due sunnominate navi.
Fatte queste due logiche critiche, é però giusto riconoscere a certe portaerei giapponesi una fortissima struttura ed un'elevata velocità. Ad esempio, facendo un raffronto tra la TAIHO e quello che noi riteniamo il più riuscito tipo di portaerei degli Alleati, la classe britannica ILLUSTRIOUS, vediamo come, vi fosse una maggior protezione del ponte di volo, 95 mm contro 75, ed una superiore velocità, 34 nodi anziché 32, Il fatto che tutte e sei le unità inglesi sopravvissero al conflitto, al contrario della nave nipponica che venne invece affondata nel corso della sua prima azione di guerra, non é imputabile alla solidità della costruzione, ma bensì ad altri fattori che adesso illustreremo e che pesarono sull'efficienza delle portaerei giapponesi.

LA TATTICA DI COMBATTIMENTO
I danni subiti dalla portaerei ILLUSTRIOUS quando, il 10 gennaio 1941, venne intercettata nel canale di Sicilia da una cinquantina di Junkers JU-87 e JU-88 che la colpirono in maniera molto grave, dovevano inevitabilmente suonare come un campanello d'allarme circa l'opportunità d'impiegare la portaerei senza l'ausilio di altre unità, fortemente dotate di artiglieria A.A., che potessero assicurare un'efficiente protezione ad un determinato tipo di nave che, per la sua stessa struttura, mal si prestava alle grandi ed estese corazzature.
L'Ammiragliato britannico, pur non trovando subito la formula del binomio "corazzata-portaerei", comprese perfettamente come quest'incombenza non potesse venir lasciata ai soli incrociatori giacché, sia il GLOUCESTER che il SOUTHAMPTON, che appunto fungevano da scorta "diretta" dell'ILLUSTRIOUS, vennero gravemente colpiti, tanto che il secondo dovette essere affondato con il siluro.
Però, dagli insegnamenti di questo episodio, né gli Americani, né i Giapponesi seppero trarre quegli opportuni ammaestramenti che avrebbero loro consentito di impiegare subito più razionalmente queste preziosissime navi. Infatti, in raffronto con le alte velocità raggiungibili con le portaerei di squadra, pochissime erano le navi da battaglia - all'inizio della guerra soltanto le KONGO nipponiche potevano raggiungere i 30/31 nodi - in grado di toccare certi limiti.
I Giapponesi rimasero sempre ancorati allo schema della "Divisione autonoma", vuoi per ristrettezza di mentalità, vuoi perché le loro ultime costruzione in fatto di unità da battaglia, la YAMATO e la MUSASHI, avevano una velocità operativa di 26/27 nodi. Gli Americani, al contrario, con l'entrata in servizio delle NORTH CAROLINA prima, delle ALABAMA e delle IOWA poi, perfezionarono stupendamente questo nuovo sistema che consentì ad un più grande numero di portaerei e di navi da battaglia di operare per una maggiore gloria comune.
Però, a nostro modo di vedere, l'inizio di questo sistema d'impiego da parte americana non fu la conseguenza del vaglio di determinati canoni, ma fu invece motivato da necessità contingenti in quanto, dopo l'inutilizzazione di quasi tutte le corazzate della Pacific Fleet, era ovvio che si dovesse ripiegare, essendo assolutamente fuori discussione la possibilità d'impiegare le portaerei da sole, su una scorta di incrociatori. La differenza dei risultati fu, come abbiamo detto, che gli Americani avevano in costruzione tutta una serie di navi da battaglia veloci, mentre i Giapponesi furono sempre obbligati ad operare con formazioni gravemente sbilanciate in fatto di velocità.
La lezione di Midway, dove le artiglierie A.A. degli incrociatori americani limitarono fortemente gli effetti degli attacchi dei velivoli giapponesi, ebbe la sua definitiva consacrazione quando, alla battaglia delle Isole Santa Cruz (ottobre 1942), le artiglierie A.A. della corazzata SOUTH DAKOTA, abbattendo 23 aerei della SHOKAKU e della ZUIKAKU, salvarono letteralmente dalla distruzione la già danneggiata ENTERPRISE. Il salvataggio della USS ENTERPRISE ad opera della SOUTH DAKOTA, anche se di per sé poteva apparire come uno dei tanti avvenimenti che compongono la dinamica di una battaglia navale, acquistò un significato trascendente dal fatto vero e proprio in quantoché, quando le nuove portaerei del tipo ESSEX si riunirono alla Flotta del Pacifico, condizionò tutta la tattica americana. Però, oltre che della scoperta e dell'applicazione su vasta scala del tandem "nave da battaglia - portaerei", le unità americano poterono giovarsi anche di una superiorità assoluta in fatto di pezzi A.A. e di apparati di tiro e punteria. Questi fattori si integrarono vicendevolmente con l'installazione degli ottimi cannoni da 127/38 - ancor ora montati su alcune unità tra le più moderne unità dell'US Navy - e di mitragliere a forte cadenza di fuoco da 40 mm Bofors e da 20 mm Oerlikon, armi che migliorarono notevolmente la loro precisione grazie al dispositivo di mira Sperry-Draper - esperimentata appunto dalla South Dakota alle Santa Cruz - ed alla spoletta a scoppio automatico sull'obbiettivo, impiegata per la prima volta dall'incrociatore USS HELENA il 5 gennaio 1943. Quest'ultimo ritrovato, aumentando l'efficacia delle granate americane da 127, creò attorno alle portaerei uno sbarramento di fuoco tale, il cui superamento rappresentava una impresa durissima, tale da rendere un ipotetico centro del nemico una specie di "vittoria di Pirro".
Fu appunto la tattica di combattimento della Task Force, unita ai progressi scientifici, quella che permise a quella gigantesca forza navale americana (nota come V Squadra, allorché era al comando dell'ammiraglio Spruance, e poi, quando invece passò sotto l'ammiraglio Halsey, come III Squadra) di penetrare tanto profondamente nelle acque nemiche.
La potenza di quest'immenso concentramento di unità non soltanto di estrinsecò nella forza del numero, ma anche, e forse maggiormente, nei canoni tattici che sovraintendevano al suo impiego. Ragionando per assurdo, se gli Americani avessero potuto mandare nel 1942 ad Okinawa la stessa flotta che nel 1945 investì l'isola, senza però che le armi ed i dettami d'impiego avessero ricevuto le necessarie migliorie, i Giapponesi avrebbero avuto ben motivo di rallegrarsi perché, quanto più grande fosse stato il numero delle navi nemiche, tanto più dura sarebbe stata la sconfitta ch'essi le avrebbero inflitta.

AEREI IMBARCATI
Per quanto concerne quest'ultimo aspetto delle cause della sconfitta delle portaerei nipponiche, più che un vero e proprio giudizio sulla qualità dei caccia imbarcati su di esse (i bombardieri a tuffo, e gli aerosiluranti nipponici e americani, grosso modo si equivalevano, daremo una piccola scorsa a quei fattori che non consentirono ai Giapponesi, dopo l'entrata in servizio del Mitsubishi 52 (ZEKE), di produrre intercettatori di prestazioni superiori a quelli dell'avversario, situazione che tanto acutamente, negli anni 1943-1945, doveva poi pesare sulle operazioni nell'Oceano Pacifico.
Poco tempo dopo l'inizio della guerra, i Giapponesi cominciarono la progettazione di quell'aereo che, allorquando lo ZEKE avesse iniziato la sua logica parabola discendente, avrebbe dovuto sostituirlo: il Mitsubishi A 7 M REPPU.
Tuttavia, la costruzione di questo velivolo, sul quale si fondavano grandi speranze, venne negativamente condizionata, come d'altronde molti insigni progettisti avevano previsto, dalle pessime prestazioni del motore HOMARE, fattore questo che non ne permise la costruzione in massa.
Gli Americani invece, avvalendosi anche degli studi fatti sullo ZEKE precipitato su un'isoletta deserta ad est di Dutche Harbor nel corso nel corso di un attacco contro le Aleutine (giugno 1942), ovviarono ai difetti del caccia nipponico (scarsa adattabilità alle picchiate, mancanza di blindature protezionale, poca manovrabilità alle alte quote), producendo il loro magnifico F6F HELLCAT che in breve, validamente coadiuvato dal Chance Vought CORSAIR, dominò incontrastato nei cieli dell'Estremo Oriente.
Le portaerei giapponesi furono anche grandemente svantaggiate non solo dalla mancanza di un aereo che potesse efficacemente contrastare i caccia imbarcati sulle similari unità statunitensi, ma anche dalla più completa disorganizzazione dei piani costruttivi dell'aviazione, nonché, quando le incursioni dei Douglas B29 americani aumentarono d'intensità, dal mancato decentramento dell'industria aeronautica, decentramento che, iniziato troppo tardi, non diede nessun risultato.
Gli sforzi frenetici, uniti ai "miglioramenti dell'ultima ora" (installazione sugli ZEKE di serbatoi supplementari per aumentarne l'autonomia, oppure di dotarli di bombe da 550 libbre per trasformarli in aerei d'assalto), non riuscirono più a far pendere la bilancia dalla parte nipponica, portando di piena attualità quell'affermazione che l'ammiraglio Castex aveva scritto nel lontano 1927: "la superiorità aerea é divenuta una condizione necessaria per il dominio del mare ed ora ne fa parte integrante".

Nell'immagine, la portaerei della Marina Imperiale Giapponese AKAGI.


Articolo tratto dal n°20 del bimestre Agosto-Settembre 1964, della rivista Interconair Aviazione e Marina.
Documento inserito il: 08/10/2017
  • TAG: portaerei, marina imperiale giapponese, flotta combinata, seconda guerra mondiale, battaglia pacifico

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