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Quando i soldati russi stupravano le donne tedesche [ di Michele Strazza ]

Le notizie continue sugli stupri commessi dalle truppe russe in Ucraina ci riportano alla memoria quello che avvenne quando l’Armata Rossa sconfisse l’esercito nazista nel 1945.
Soltanto nelle prime due settimane di occupazione di Berlino si registrarono oltre centomila casi di stupro ad opera dei soldati sovietici, mentre sull’intero territorio tedesco alcune stime parlano di circa due milioni di stupri.
Sulle stime, naturalmente, non tutti sono d’accordo e, forse, non si riuscirà mai ad avere un conto esatto. La storica americana Grossmann ha ipotizzato che gli stupri nella sola Berlino superassero il milione.
Ma al di là delle cifre, il fenomeno della violenza sessuale da parte dell’esercito russo fu senza dubbio quantitativamente e qualitativamente elevato, rappresentando uno degli episodi più orrendi del secondo conflitto mondiale e su cui la storia ufficiale dei vincitori non volle mai attardarsi a riflettere.
Gli orrori nella capitale tedesca vennero annotati, tra l’aprile e il giugno del 1945, da una giovane giornalista berlinese. Marta Hillers, che, dopo aver subito essa stessa violenza, si legò ad un ufficiale sovietico da cui ottenne protezione. Un fenomeno, questo, che coinvolse numerose donne le quali, pur di non essere sottoposte a violenze ripetute, si scelsero un “protettore”.
Come era avvenuto nelle altre città, anche a Berlino moltissime donne non ressero a quanto avvenuto e si suicidarono. Anche molti uomini fecero lo stesso.
Nella capitale del Reich, tra aprile e maggio del 1945, si registrarono circa cinquemila suicidi. Alcune volte i genitori uccidevano prima i figli e poi se stessi, lasciando biglietti da cui si deduceva il terrore per i russi.
Innumerevoli donne moriranno in seguito nel tentativo di abortire i feti. L’altro grande problema fu, infatti, quello delle gravidanze indesiderate e dei nati illegittimi, i c.d. “russenkinder”. Pare, infatti, che nel solo biennio 1945-46 nella zona della Germania occupata dai sovietici siano nati tra i centocinquantamila e i duecentomila russenkinder, senza contare naturalmente gli aborti.
Da quando, dunque, il 22 giugno 1944, l’Armata Rossa iniziò l’avanzata nei territori del Reich, morte e distruzione si abbatterono sulla popolazione civile. E mentre donne, vecchi e bambini si mettevano in viaggio verso ovest la violenza sovietica travolse tutto senza alcuna distinzione. Durante la fuga, ma anche nelle stesse città occupate, centinaia di migliaia di donne, vecchie e bambine vennero stuprate dai soldati vincitori, in una girandola di orrore senza fine cui, spesso, solo il suicidio poteva mettere fine.
Molte volte le madri tedesche tentavano con ogni mezzo di proteggere le proprie figlie dalla violenza, tagliando loro i capelli e vestendole da maschi. Altre volte si cercava di convincere un’altra donna presente ad offrirsi ai russi per salvare le adolescenti.
Intrisi d’odio verso le popolazioni civili, a torto ritenuti colpevoli della ferocia nazista, i soldati sovietici commisero ogni genere di violenza sul corpo femminile, considerato bottino di guerra ed oggetto di vendetta, simbolo del nemico sconfitto e dell’impotenza maschile di proteggerlo.
Spesso, dopo lo stupro seguivano torture e uccisioni. Ed anche dopo la morte i corpi, espressione della nazione sconfitta, continuavano ad essere dilaniati, deturpati, quasi a rendere permanente e ancora più visibile l’affronto.
Le violenze avvenute in pubblico, davanti ai familiari, nelle piazze dei villaggi, l’ordine di non seppellire i cadaveri, tutto doveva servire ad esaltare la “punizione collettiva” e il senso di impotenza delle vittime su cui i carnefici infierivano.
Il corpo delle donne assumeva così una molteplicità di valenze, diventava esso stesso “terreno” della guerra, da conquistare e depredare, da possedere per poi distruggere ed annientare. I ventri squarciati e i feti fatti a pezzi alle donne incinte era la dimostrazione di un “calvario” reso perenne, la certezza della distruzione della discendenza e della stirpe.
In questo orrore senza fine, nell’assenza degli uomini, furono le donne che diventarono punto di riferimento delle famiglie, dei figli, del dolore di bambine anch’esse violentate. Il conforto e la solidarietà furono gli unici approdi per chi resistette alla tentazione del suicidio, unica strada per riprendere il controllo del proprio corpo.
Tra rimozione e ricordo, nelle famiglie distrutte, le donne tedesche seppero abbandonare il ruolo di “vittime” per assurgere a quello di “protagoniste” della difficile ricostruzione materiale e morale di un mondo seppellito dalle macerie.
Ed oggi siamo sicuri che anche le donne ucraine, sconvolte dalla violenza bellica, sapranno assurgere al ruolo di protagoniste di un dopoguerra che ciascuno di noi non vede l’ora di osservare.
In fondo, il vero eroe in una guerra non è quello che imbraccia un fucile ma chi, portando il peso di quella violenza, è pronto a dare tutto per proteggere quanto ha di più caro.
Documento inserito il: 12/05/2022
  • TAG: armata rossa, stupri, guerra, russenkinder, ucraina, russia, germania, seconda guerra mondiale

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