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Ferramonti: un lager in Calabria durante il fascismo [ di Carlo Baccellieri ]

Il compianto storico Renzo de Felice, che da autentico storico sapeva dire, fuor di ogni retorica, quello che altri non dicevano mai, ebbe a scrivere, nella sua fondamentale “Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo”:
Non v’è dubbio che la grande maggioranza degli italiani rimase anche dopo il 1939-43 lontana ed avversa al razzismo ed all’antisemitismo: è un fatto questo che nessuno contesta... è un fatto che chiunque abbia vissuto quegli anni può confermare e documentare con episodi e documenti di fatto particolari... Se su tutto ciò non vi è dubbio alcuno, non vi è però neppure dubbio che la politica della razza e l’antisemitismo trovarono nel paese un certo numero di adesioni certo ben più numerose degli ottocentosessantaquattro iscritti ai centri per lo studio del problema ebraico. Bisogna avere il coraggio di riconoscere che, in almeno due settori del popolo italiano l’antisemitismo ebbe un’eco abbastanza vasta; così come bisogna avere il coraggio di riconoscere che, divenuto l’antisemitismo una costante della vita italiana di quegli anni, molti italiani - pur non aderendovi - finirono per accettarlo come una delle tante "stranezze" del regime.” (1).
Egli individua i settori tra quanti ebbero interesse ad impossessarsi dei posti lasciati liberi dagli Ebrei dopo le leggi razziali dell’ottobre 1938 (in realtà molto pochi) ed in quelli che, “per carità di patria”, stesero un complice velo di silenzio o assorbirono “alcune stille di veleno” della propaganda fascista.
Con tutto il rispetto dovuto a Renzo De Felice non si può tacere che l’antisemitismo aveva da noi radici ben più antiche e profonde. La chiesa cattolica aveva nei secoli creato una cultura antiebraica, profondamente radicata a tutti i livelli, nelle classi popolari ed in quelle più elevate, secondo la quale non bisognava mai dimenticare che il popolo ebreo era il popolo “deicida”, maledetto da Dio e condannato ad errare eternamente per il mondo senza mai avere una patria.
In forza di questa cultura c’era nel popolo una larvata ma diffusa avversità verso gli Ebrei, forse più consistente nei luoghi dove gli Ebrei non erano presenti, che li circondava di una serie abbastanza generalizzata di luoghi comuni, del resto neppure oggi del tutto scomparsa. In base a questi stereotipi l’ebreo era avaro e strozzino, incapace di qualsiasi gesto di generosità, avido di danaro e dedito a qualunque traffico pur di ottenere un utile.
Tutto ciò portava, assai prima delle leggi razziali, a guardare gli Ebrei con assoluta diffidenza ed a emarginarli nella vita quotidiana, quanto meno nelle relazioni sociali.
Nello stesso tempo però tutti erano d’accordo nel ritenere gli Ebrei un popolo intelligentissimo capace di grandi cose e di grandi opere.
E’ anche vero che gli Ebrei non facevano nulla per integrarsi, gelosi della loro identità e della loro religione, tendevano a non uscire dall’ambito delle loro famiglie. Erano essi stessi, pur vivendo nella società ed accettandone onori e oneri, portati a vivere la vita quotidiana e di relazione all’interno del loro gruppo.
Del resto nessuno vorrà negare che, nella sostanza, il razzismo che gli Ebrei rimproverano ai “gentili” e che tanti lutti e disgrazie procurò al popolo ebraico ed all’umanità intera, è , o per lo meno era, una caratteristica proprio degli Ebrei che consentì attraverso i secoli, anzi i millenni, di mantenere, nonostante la diaspora e le persecuzioni, la loro identità nazionale e di religione in tutti i paesi ove furono costretti ad emigrare: è solo perché il padre maledice il figlio che sposa una donna appartenente ad altra religione (o razza?) che fu possibile mantenere questa identità, cosa che non riuscì a nessun altro popolo.
Per altro la stessa religione ebraica è, sostanzialmente, una religione razzista perché non è per tutti, ma solo per il “popolo eletto”, l’unico che ha diritto a colloquiare con Dio e può aspirare alla salvezza. Solo il messaggio cristiano, diffuso dagli Apostoli e da S. Paolo, trasforma la religione ebraica in una religione universale dove tutti i popoli sono eguali e tutti meritevoli di salvezza.
Per converso però bisogna ricordare che molti ebrei avevano partecipato al nostro Risorgimento, si erano comportati da buoni soldati nella prima guerra mondiale e qualcuno aveva financo partecipato all’impresa di Fiume con D’Annunzio. Molti erano gli antifascisti (molti tra i fuoriusciti di spicco erano ebrei) ma moltissimi altri, alcune migliaia, erano fascisti regolarmente iscritti.
Allora, parafrasando De Felice, bisogna avere il coraggio di dire tutto questo per capire appieno le vicende degli Ebrei in Italia durante il fascismo.
Questo antisemitismo, che forse non era un vero e proprio razzismo, lo si respirava giorno per giorno in famiglia e nella scuola, senza che fosse necessario ricevere ordini dall’alto, ancor prima che a Mussolini, al solo scopo di compiacere il suo alleato germanico, venisse l’infelice idea di emanare le c.d. “leggi razziali”.
Quando queste vennero con il R.D.L. 17 novembre 1938, n.1728, la stragrande maggioranza del popolo italiano le disapprovò perché ritenute, a giusta ragione inutili e dannose.
Mussolini, ormai nella rete del suo ingombrante alleato, non capì che non aderire alla idiota crociata antisemita di Hitler sarebbe stato un modo, abbastanza evidente, per mantenere e riaffermare la propria indipendenza.. E poi, con tanti nemici, che motivo aveva per procurarsene degli altri?
Tuttavia questa legge, alla quale seguirono ben preso altre leggi e circolari esplicative, fu abbastanza confusa ed ancor più confusionaria risultò la sua applicazione.
Innanzitutto il fascismo “non aveva voluto imboccare l decisamente la via <"biologica>"... e si era, invece, mantenuto su un ibrido terreno un po biologico ed un po religioso e un po politico...” (2) e all’atto pratico condusse ad una serie di difficoltà interpretative per cui l’applicazione risultò incerta e contraddittoria.
Tuttavia la direttiva di massima del duce fu: “discriminare non perseguitare”. In un discorso tenuto a Trieste nel settembre del 1938 aveva detto: “Il mondo sarà costretto, alla fine, a stupirsi più della nostra generosità che del nostro rigore.
Se in teoria la formula appariva suggestiva, nella pratica risultava assai difficile discriminare senza perseguitare, ma non era la prima volta, e non sarebbe stata l’ultima, che un governo italiano tentava, al meno a parole, di trovare la quadratura del cerchio.
A quel primo decreto ne seguirono altri, integrati da numerose circolari, che ne complesso resero la legislazione “razziale” assai caotica e poco chiara. Altre leggi “discriminarono”, ovverosia esclusero dall’applicazione delle leggi razziali quegli Ebrei che potevano vantare benemerenze patriottiche per essere, ad esempio, decorati al valore, ovvero benemerenze fasciste.
In base a questa legislazione venivano considerati di razza ebraica i nati da entrambi i genitori Ebrei, anche se appartenenti ad altra religione, ovvero da genitori di cui uno ebreo e l’altro straniero. Non veniva invece considerato di razza ebraica l’individuo nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo ebreo per nascita o religione. Come si vede la logica non era il lato forte di questa legislazione.
In forza di queste leggi gli Ebrei continuavano ad essere “cittadini italiani di razza ebraica” ma venivano privati di gran parte dei diritti civili: non potevano mantenere i pubblici impieghi, non potevano frequentare scuole, ne pubbliche ne private frequentate da alunni italiani (contraddizione perché gli Ebrei continuavano ad essere italiani), non potevano essere proprietari o dirigenti d’impresa con più di 100 dipendenti, non potevano avere alle dipendenze domestici cittadini italiani di razza ariana, non potevano essere autori di libri di testo per le scuole, non potevano prestare servizio militare ne in pace ne in guerra, non potevano esercitare l’ufficio di tutore e curatore di cittadini italiani di razza ariana, non potevano esercitare libere professioni di medico, ingegnere, avvocato et. Era proibito il matrimonio del cittadino italiano di razza ariana con persona appartenente ad altra razza. Questa norma non riguardava, evidentemente, soltanto gli Ebrei ma comportava non poche difficoltà applicative poiché non esisteva un “catalogo” delle razze e, d’altro canto, non si sapeva bene che cosa doveva intendersi per razza “ariana”.
Peraltro, che il popolo italiano appartenesse ad una razza pura era una tale assurdità che neppure il più becero fascismo osava affermare. Tuttavia gli “studiosi” incaricati di trovare un fondamento alla distinzione delle razze non trovarono di meglio che dire: “Sono state proporzioni diverse di razze differenti che da tempo molto antico costituiscono i diversi popoli” razze che, nel caso dell’Italia, risultavano “armonicamente fuse”(3)
Mussolini, quando era in vena di sincerità, diceva: “La razza italiana è una razza di pecore”. (4) Non era certo un’affermazione che potesse giustificare il razzismo.
La stragrande maggioranza del popolo italiano accolse con sfavore le leggi razziali e le considerò per quello che erano: un provvedimento stupido ed ignobile. Stupido perché in Italia non esisteva alcun problema di convivenza con gli Ebrei, stante anche il loro esiguo numero; stupido perché il fascismo si procurava dei nemici senza costrutto (molti ebrei erano convinti fascisti), ignobile perché si privavano di diritti cittadini senza colpa e senza che vi fosse una plausibile giustificazione.
In buona sostanza occorre dire una cosa che non si dice spesso: con le leggi razziali il fascismo ottenne l’effetto contrario. Quello che era un diffuso sentimento di antipatia verso gli ebrei, alimentato dall’insegnamento cattolico e dal perdurare di luoghi comuni della tradizione popolare, si tramutò a poco a poco in un sentimento di compassione e di simpatia per quei nostri concittadini inutilmente angariati. L’italiano medio non riusciva a capacitarsi e trovare una decente giustificazione per quella prevaricazione esercitata gratuitamente verso persone prive di colpa.
Fu per questo che l’applicazione di quelle leggi fu piuttosto blanda e la propaganda mal eseguita e mal recepita, al punto da far dire a qualche ebreo che il fascismo era addirittura “filosemita”,(5) il che poteva sembrare senz’altro vero se si faceva il paragone con la bestialità nazista.
Anche nella scuola la nuova politica non ebbe successo, anzi suscitò non poco disappunto.(6) In molte città, dove vivevano Ebrei in qualche modo inseriti nel tessuto sociale, provocò molto imbarazzo ed un diffuso senso di colpa il ritiro dei professori e l’allontanamento degli studenti israeliti.
Va però detto che nessun ebreo venne imprigionato, nessun ebreo venne internato a motivo della sua religione o della sua “razza”. Se qualcuno venne mandato al confino di polizia, in verità molto pochi, questi lo fu a cagione della sua vera o presunta attività o pericolosità antifascista, come qualsiasi altro Italiano.
Poiché le leggi razziali revocavano la cittadinanza italiana agli Ebrei che l’avevano acquistata dopo il 1919 (altra imperdonabile bestialità) per “opzione”, in pratica si trattava degli Ebrei fiumani, sorgeva il problema di questi nuovi stranieri e di quegli altri Ebrei che affluivano in Italia per scampare alle ben più gravi persecuzioni naziste dalla Germania, dall’Austria e, ben presto, dall’Europa orientale.
La situazione degli Ebrei in Germania, ancor prima dell’avvento del nazismo, era più arretrata rispetto all’Italia. In Italia gli Ebrei avevano ottenuto la parità dei diritti nel Risorgimento, mentre in Germania, fino all’avvento della repubblica nel novembre del 1918 gli Ebrei non potevano accedere alle funzioni statali. In Italia la monarchia e lo stato liberale e laico erano favorevoli all’integrazione degli Ebrei nella vita sociale e molti di essi, già all’inizio di questo secolo, avevano raggiunto posizioni di alto prestigio anche nella vita pubblica. “L’avversario principale degli ebrei in Italia rimaneva la chiesa cattolica”(7).
Dopo l’avvento del nazismo iniziò una lenta ma costante emigrazione ebraica dalla Germania in Italia poiché questo paese offriva condizioni certamente migliori e l’atteggiamento delle autorità italiane fu pragmatico in quanto l’emigrazione era tollerata purché si mantenesse entro certi limiti ed i nuovi arrivati non svolgessero attività antifascista.
Secondo le statistiche del Ministero degli Interni i profughi ebrei ammontavano a 1100 nell’ottobre 1934 a 1700 maggio 1936, a 4500 nell’ottobre del 1938, alla proclamazione delle leggi razziali con le quali si intimò agli Ebrei immigrati dopo il 1918, che erano circa 9.000, di lasciare l’Italia entro sei mesi, pena l’espulsione. Ma in prossimità della scadenza, 19 marzo 1939, il decreto, com’è d’uso nelle cose italiane, venne sospeso.
Il Sud rimase estraneo a questa emigrazione, tranne Napoli, dove vi era il Consolato Generale degli Stati Uniti che rilasciava i visti d’ingresso in quel paese.
Tra il settembre 1938 ed il maggio 1940, quando le frontiere italiane vennero definitivamente chiuse per l’approssimarsi della guerra, altri 6000 Ebrei entrarono in Italia con il visto turistico. Tuttavia nello stesso periodo circa diecimila profughi ebrei (ma anche italiani) lasciarono il paese diretti in special modo verso gli Stati Uniti(8).
Fino all’entrata dell’Italia in guerra non vi furono in Italia campi di concentramento, neppure per gli stranieri.
Com’è noto i cittadini ritenuti pericolosi per il regime fascista erano sottoposti a stretta vigilanza di polizia e spesso sottoposti a misure di sicurezza come il confino di polizia. A questa sorte, ovviamente, non poterono sottrarsi gli Ebrei i quali però quando furono confinati lo furono come antifascisti non perché Ebrei.
Ma con l’inizio della 2a guerra mondiale fu giocoforza istituire campi d’internamento per i sudditi stranieri appartenenti a paesi nemici, così come del resto, per ragioni di sicurezza , avevano fatto tutti i belligeranti.
Alla fine di maggio del 1940 il ministro dell’Interno, Guido Buffarini Guidi, inviò al capo della polizia Arturo Bocchini una breve nota nella quale lo informava che Mussolini desiderava l’istituzione di campi di concentramento anche per gli Ebrei in caso di guerra. Il 1° giugno Bocchini inviava ai prefetti una circolare con la quale raccomandava di procedere all’arresto ed all’internamento, appena dichiarato lo stato di guerra, di tutte le persone pericolosissime, sia italiane che straniere, di qualsiasi razza, capaci di turbare l’ordine pubblico, procedendo però con discrezione e senza creare allarmismi.
Il 15 giugno (5 giorni dopo l’inizio dello stato di guerra) venne disposto l’arresto degli Ebrei tedeschi, austriaci, polacchi, cecoslovacchi ed apolidi, di età tra i 18 ed i 60 anni., mentre alle donne si consentiva un soggiorno libero ma controllato dalla polizia.
L’internamento non può considerarsi, a stretto rigore, un provvedimento razzista. Infatti, anche se in base alla legislazione di guerra i Tedeschi, gli Austriaci ed i Cechi, essendo sudditi di paesi amici, non avrebbero dovuto subire l’internamento, tuttavia il regime si difese dicendo che la misura si rendeva necessaria perché “Questi elementi indesiderabili, imbevuti di odio contro i regimi totalitari, capaci di qualsiasi azione deleteria, per difesa dello Stato ed ordine pubblico. vanno tolti dalla circolazione.” (9)

Note
(1) Renzo De Felice: “Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo”, Einaudi Milano 1993.
(2) Renzo De Felice op. cit.
(3) “Discriminazione e persecuzione degli ebrei nell’Italia fascista” a cura di Ugo Caffaz, Consiglio Regionale della Toscana, 1988
(4) Galeazzo Ciano, “Diario”, Mondadori, Milano 1988
(6) Ricordo che la mia maestra di terza elementare, l’indimenticabile signorina Morrone, così commentò in classe quelle leggi ed il nuovo indirizzo razzista: “L’Islanda è il paese più civile del mondo perché usa molto sapone e non perseguita gli ebrei
(7) Klaus Voigt: “I profughi ebrei in Italia e l’internamento” Atti del convegno internazionale “Ferramonti: un Lagher del Sud“, Istituto Calabrese per la Storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea - Cosenza Edizioni Orizzonti meridionali, 1990.
(8) Klaus Voigt, op. cit.
(9) Franco Folino: “Ferramonti, un Lager di Mussolini. Gli internati durante la guerra”. Cosenza , 1985

Il 27 gennaio è stata dichiarata "giornata dell'Olocausto" e tutte le scuole italiane sono state invitate a trattare l'argomento per sensibilizzare i giovani affinché quell'immane tragedia mai più si ripeta.
In tutto questo fervore si dimentica che l'Italia, nonostante il fascismo e le leggi razziali, fu immune da questa colpa. Il regime fascista emanò le leggi per la tutela della razza per compiacere l'alleato germanico e limitò fortemente i diritti dei cittadini di "razza ebraica", ma essi rimasero liberi e nessun ebreo italiano fu internato in quanto tale. Solo do l'8 settembre del '43, quando ormai il fascismo era completamente asservito ai tedeschi le cose cambiarono: ma in pratica erano i nazisti a comandare e qa deportare.
In Italia, tuttavia, anche prima dell'8 settembre, vennero allestiti campi di concentramento per ebrei i quali però venivano internati in quanto stranieri ritenuti ostili e pericolosi, non perché ebrei. . Il più grande di questi campi era in Calabria, in provincia di Cosenza: Ferramonti.
Questi campi di concentramento approntati all’approssimare della guerra non erano, nella maggior parte i casi, dei veri e propri “campi”, ma dei normali edifici requisiti ed adattati a raccogliere gli internati. I campi italiani sono chiamati nei documenti ufficiali “campi di concentramento”, ma non avevano niente in comune coni i lager nazisti. Si trattava di monasteri, ospizi, ex caserme dismesse, sale cinematografiche, castelli disabitati e ville di campagna, quasi sempre in posizioni isolate, che potevano ospitare dalle 30 alle 200 persone al massimo.
Quasi tutti i luoghi di confino ed i “campi di concentramento” erano ubicati nell’Italia meridionale. Varii i motivi della scelta: la difficoltosa raggiungibilità dei luoghi, la scarsa politicizzazione degli abitanti, la mitezza del clima ed “inoltre il fatto che per molti paesi i confinati costituivano una vera e propria fonte di ricchezza per i commercianti locali”. Si trattava sempre di piccoli o piccolissimi insediamenti.
Ferramonti fu una delle poche eccezioni poiché venne costruito a questo scopo ed anche nell’impianto topografico e nell’aspetto esteriore era un vero e proprio campo di concentramento costituito da una serie di capannoni di legno allineati simmetricamente l’uno accanto all’altro, separati da spazi regolari e con al centro un piazzale di raccolta.
Sorgeva nella valle del fiume Crati in provincia di Cosenza, a 35 chilometri dal capoluogo ed a 6 dal comune di Tarsia in una zona da poco bonificata , ma non completamente, dalla malaria.
La scelta del luogo era stata caldeggiata dall’impresa di costruzioni romana “Eugenio Parrini” che nella zona aveva portato a termine l’appalto per la bonifica della vallata ed aveva interesse a riciclare alcuni capannoni costruiti per ospitare gli operai. La ditta si era aggiudicato l’appalto per la costruzione del “centro agricolo” per i confinati di Pisticci in Provincia di Matera e quello per la costruzione e la manutenzione del campo di Ferramonti.
L’insediamento era stato sconsigliato apertamente dal medico provinciale di Cosenza, dott. Chimenti, ed era in aperto contrasto con quanto prescriveva il decreto di internamento che prevedeva l’installazione dei campi di concentramento dei sudditi nemici in luoghi salubri, anche per evitare inutili complicazioni di natura sanitaria. Su tutto prevalse però l’amicizia che il commendator Parrini poteva vantare con il Ministro Buffarini Guidi. A lavori ultimati l’Ispettore sanitario ministeriale denunciò, senza alcuna remora, che la scelta era stata del tutto errata ed occorreva porvi rimedio. Ma, allora come ora, non tutto filava per il giusto verso.
Dal giugno del 1940 al settembre del 1943 si verificarono 820 casi di malaria e 109 di epatite. Si trattava di forme blande della malattia e non vi furono vittime. La mortalità tra gli ospiti del campo non superò mai quella media delle popolazioni del luogo.
Quello di Ferramonti fu il maggior campo di concentramento fascista per ebrei in Italia ed uno dei più importanti. Sorgeva accanto alla linea ferrata e si componeva di 92 baracche di legno divise in due camerate contenenti 90 posti letto ciascuna. Accanto alle baracche sorgevano delle costruzioni più piccole in muratura che ospitavano le cucine ed i servizi.
Entrò ufficialmente in funzione il 20 giugno del 1940 ancor prima di essere completato ed ebbe nel tempo una presenza media di oltre 1.000 internati con una punta massima nell’estate del 1943 di più di 2.000.
Il campo somigliava solo nell’aspetto esterno ai lager tedeschi ma non conobbe mai, nemmeno lontanamente, le asprezze di quei campi. Del resto, già nel decreto d’internamento del 4 settembre 1940, era espressamente sancito: “Gli internati devono essere trattati con umanità e sono protetti contro ogni offesa e violenza”. Sostiene Klaus Voigt che “con pochissime eccezioni tale principio fu sempre rispettato. Crudeltà e maltrattamenti sadici, usuali nei campi nazisti, non vennero conosciuti in Italia per ebrei stranieri. Si può dire che il rapporto del personale dei campi con gli ebrei era più disteso del loro atteggiamento verso i deportati politici dalla Jugoslavia, dalla Grecia e la Corsica che erano più difficili da trattare.” Direttore del campo era un commissario di pubblica sicurezza, dott. Paolo Salvatore, con alle dipendenze alcuni agenti comandati dal maresciallo Gaetano Marrari di Reggio Calabria. Nel tempo sia il direttore che il maresciallo ebbero modo di farsi apprezzare dagli internati per la loro umanità e comprensione. La sorveglianza esterna era affidata ad appartenenti alla MVSN, tutta gente del luogo, ma i militi non potevano interferire in alcun modo all’interno del campo.
Il Capo della Polizia Arturo Bocchini in una lettera indirizzata nel luglio 1940 alla ditta Parrini informava che la mettà dei posti disponibili sarebbero stati riservati per gli internati non ebrei, ma in realtà il campo si qualificò subito come campo per internati ebrei e solo a partire del 1941 avrebbe ospitato un numero molto ridotto di internati non ebrei.
Gli internati potevano uscire dalle baracche solo dopo le sette e dovevano rientrarvi prima delle ventuno. Tuttavia anche questa disposizione era largamente disattesa ed i “capi baracca” lamentavano che l’appello serale doveva sempre rinviarsi perché molti uomini s’intrattenevano nelle baracche delle donne ben oltre le ventuno.(3) Vi erano infatti tre appelli giornalieri, l’ultimo dei quali si teneva alle nove di sera. Gli internati non potevano lasciare il campo senza uno speciale permesso che però veniva concesso con molta larghezza sia per l’acquisto di generi alimentari o di vestiario, sia per altre necessità. Potevano leggere tutta la stampa nazionale, mentre quella estera era sottoposta a preventiva autorizzazione. Tutta la corrispondenza era sottoposta a censura, come del resto quella di ogni altro italiano in tempo di guerra. Agli internati era fatto divieto di possedere apparecchi radiofonici o fotografici, ma questo divieto, di fatto, non venne mai osservato.
Gli internati non avevano alcun obbligo di lavorare, ma molti di loro lavoravano volontariamente all’interno del campo e qualcun altro esercitava attività professionale anche a favore delle popolazioni vicine, specialmente medici e dentisti, contravvenendo al divieto di esercitare tali attività valido anche per gli ebrei italiani.
Gli internati si aiutavano l’un l’altro grazie anche al forte e radicato senso di appartenenza che da sempre ha contraddistinto gli Ebrei. Tuttavia con l’incalzare delle necessità si sviluppò all’interno del campo, e non poteva essere altrimenti, il fenomeno dell’usura e si chiedevano interessi pari al 10% al mese o, addirittura, a decade.
Chi non aveva reddito proprio riceveva un sussidio di lire 6,50 buona parte del quale doveva essere speso per usufruire della mensa gestita dalla onnipresente ditta Parrini. In seguito, con la progressiva svalutazione monetaria, il sussidio venne più volte aumentato. Non era molto ma occorre ricordare che la paga giornaliera di un bracciante in Calabria si aggirava sulle 4 lire al giorno.
I primi internati giunsero a Ferramonti tra giugno e luglio del 1940 da varie città dell’Italia centro settentrionale, ma si trattava pur sempre di sudditi stranieri, per lo più tedeschi fuggiti dalle persecuzioni naziste. Viaggiavano sui treni a piccoli gruppi, accompagnati da carabinieri o da agenti di pubblica sicurezza, qualche volta ammanettati, in scompartimenti a loro riservati. Scendevano alla stazione di Mongrassano e da qui, a piedi, dopo un percorso di circa sei chilometri, raggiungevano il campo. In seguito venne istituita una fermata ferroviaria nei pressi di Ferramonti eliminando così il faticoso tragitto a piedi.
I rapporti con la popolazione furono dapprima caratterizzati da un diffuso senso di diffidenza verso gli Ebrei da parte dei Calabresi, alimentato dai luoghi comuni e dalla propaganda cattolica, prima ancora che fascista, che additava negli Ebrei, come detto prima, il popolo deicida. Del resto in Calabria non vi erano stanziamenti di ebrei sin dal ‘500 quando gli Ebrei vennero scacciati sotto le pressioni dei gesuiti e dei mercanti di seta Genovesi e Pisani. Non v’era quindi una conoscenza diretta da parte delle popolazioni calabresi degli Ebrei, a maggior ragione nei paesi della valle del Crati che vivevano in un sostanziale isolamento. A mano a mano però che i contatti con gli internati di Ferramonti s’intensificavano gli abitanti del luogo poterono rendersi conto che si trattava di brava gente, solo più sfortunata di loro. Il sentimento prevalente era più spesso quello di ammirazione per quelle persone di più alta cultura e, tutto sommato, con maggiore disponibilità economica, anziché di commiserazione.
Il direttore del campo mostrò subito una grande umanità e notevole buon senso. Coadiuvato validamente dal maresciallo Marrari riuscì a creare una struttura piramidale in seno alla comunità degli internati che divenne ben presto il suo interlocutore ed intermediario per tutti i problemi della comunità. “La sua politica fu quella del lasciar fare, concedendo agli internati molta autonomia interna , a condizione della salvaguardia e del rispetto formale delle norme, onde evitarsi richiami da parte delle autorità superiori.” Ciò anche al fine per assicurarsi collaborazione e tranquillità all’interno del campo.
Si sviluppò una struttura di tipo democratico che prevedeva l’elezione per ogni baracca di un capo camerata ed una assemblea dei capi camerata, che a sua volta eleggeva il capo dei capi il quale aveva autorità all’interno della comunità ebraica e teneva i rapporti con il direttore che riconosceva ufficiosamente questa struttura alla quale si appoggiava per risolvere con spirito di collaborazione tutti i problemi degli internati, nei limiti del possibile.
All’interno del campo fu creata tutta una serie di istituzioni comunitarie quali le cucine cooperative, una biblioteca, un tribunale , un ambulatorio medico, una scuola e diverse sinagoghe.
Già nel settembre del 1940 gli internati erano saliti a 700 unità a seguito dell’arrivo di 300 “bengasioti”, così chiamati perché provenienti da Bengasi ove erano stati arrestati all’inizio delle ostilità in quanto sudditi stranieri. Questi Ebrei provenivano dall’Europa centro-orientale ed erano passati dall’Italia in Africa con l’intento di raggiungere la Palestina, ma vennero sorpresi dalla guerra. Si trattava di interi nuclei familiari e così fecero ingresso a Ferramonti le prime donne ed i primi bambini e fu l’unico campo d’internamento misto, con camerate distinte per sesso. In seguito, grazie all’interessamento del clero cattolico, il campo fu dotato di baracche per famiglie.
Per far fronte alle esigenze dei bengasioti, per la maggior parte indigenti, si costituì tra gli Ebrei del campo un “Comitato di assistenza”, presieduto dall’avv. Massimiliano Peres, già presidente della Comunità israelitica di Monaco, che aveva lo scopo di provvedere all’assistenza dei bisognosi fornendo aiuti materiali, oltreché morali.
La vita nel campo era abbastanza serena e sopportabile, date le circostanze. Certamente pesava la mancanza di libertà, la penuria dei viveri e, soprattutto, l’angoscioso pensiero dei parenti lasciati in Germania, in Polonia, in Cecoslovacchia etc. sotto la ben più spietata dominazione tedesca. Si cercava anche d’ingannare il tempo, si studiavano le lingue (si tenevano lezioni in ben 10 lingue diverse), si costruivano oggetti d’artigianato, si commerciava di tutto anche al mercato nero con i contadini dei dintorni, si tenevano manifestazioni artistiche e dibattiti culturali, si studiavano le Sacre scritture. Con l’arrivo dei bengasioti si aprì anche un asilo. Numerosi medici furono autorizzati a lavorare all’esterno del campo a favore delle popolazioni della zona.
Osserva Franz Hajek: “Certamente non era facile, per esempio, per un medico di Berlino o un avvocato di Praga vivere in condizioni non molto dissimili da quelle degli abitanti di uno sperduto paesello della Lucania...” ma in realtà in condizioni migliori perché in molti paesi interni della Lucania e della Calabria non c’era né l’acqua potabile né la luce elettrica.
Il problema dei viveri si acuiva in occasione dei nuovi arrivi perché l’organizzazione del campo stentava ad adeguarsi all’improvviso aumento delle presenze. Tuttavia gli internati trovavano il modo per sopperire a queste deficienze potendo godere alcuni di un proprio peculio ed altri dell’assistenza delle comunità ebraiche italiane. Certamente la situazione alimentare del campo era migliore, per molti aspetti, di quella dei paesani dei dintorni.
Racconta l’internato Emilio Braun, che nell’estate del 1940 ottenne l’autorizzazione di recarsi a Tarsia per fare degli acquisti. Partirono in 15 internati accompagnati da due guardie. Il sig. Braun si recò presso un negozio di generi alimentari e gli sottopose un lungo elenco di cose da acquistare precisando, a scanso di equivoci, che avrebbe pagato in contanti. Il negoziante, abituato a segnare nel quaderno gli acquisti dei paesani che in genere pagavano a fine mese, non stava più nella pelle e cercò di accontentare, quello che a lui appariva come un facoltoso cliente, al meglio che poteva. Alla fine Braun chiese, con un filo di voce, ben sapendo che si trattava di genere razionato, dello zucchero. Il negoziante rispose senza esitazione che lo zucchero c’era e poteva darlo. “A che prezzo” chiese Braun - “Al prezzo normale della tessera” rispose ancora l’interlocutore. Alla risposta, inaspettatamente positiva, l’acquirente si fece ardito e chiese due chilogrammi pensando di averla sparata grossa. Ma ancora una volta il negoziante lo sorprese e fornì la quantità richiesta senza battere ciglio. Di fronte allo sbigottimento del povero Braun il negoziante capì che l’acquirente ne avrebbe voluto dell’altro e chiese: “Ma voi ne pigliereste anche di più” - “Altroché !” - rispose Braun. Fu così che quella mattina le scorte del campo s’incrementarono di 50 chilogrammi di zucchero a prezzo di listino. Braun non poté fare a meno di chiedere come mai il buon uomo potesse fornire un così alto quantitativo di zucchero e si ebbe la seguente risposta: “Sentite, qui da noi la gente o ne consuma pochissimo, oppure non ne consuma affatto, perché troppo caro: siamo gente povera.
Parecchi anni addietro incontrai in un paesino della costa istriana due coniugi ebrei di Seraievo, entrambi architetti, che durante la seconda guerra mondiale erano stati internati a Ferramonti. Raccontarono di essere scappati dalla zona sotto occupazione tedesca nella zona occupata dalle truppe italiane che avevano fama di un comportamento più umano. Raggiunsero quindi Trieste ma li furono arrestati perché cittadini stranieri di paese nemico e quindi internati in Calabria. Conservavano un buon ricordo del trattamento ricevuto e dissero di non aver ricevuto né angherie né maltrattamenti. Tuttavia lamentavano l’alimentazione del campo: “Sempre pasta, sempre pasta !” Mentre i loro correligionari venivano gasati ad Auskwtiz, a Treblinka, a Mathausen e “passavano per il camino”, i nostri simpatici slavi erano costretti a mangiare troppa pasta, per giunta di cattiva qualità. A volte gli italiani sanno essere crudeli!
Naturalmente non tutto era rose e fiori e, con il progredire della guerra, aumentavano, non solo le difficoltà alimentari, ma anche quelle relative al vestiario ed a tutti i generi di conforto. Chi non aveva del suo stentava a vivere con il solo sussidio dello Stato.
Un grande aiuto venne dall’organizzazione creata da Israele Kalk, un ingegnere ebreo léttone da anni residente in Italia, il quale sin dal 1939 aiutava i profughi ed aveva istituito una struttura assistenziale denominata la “Mensa dei bambini”. Da Milano, ove aveva sede, riusciva a soccorrere i profughi raccogliendo fondi presso le comunità ebraiche italiane, fondi che poi impiegava per l’acquisto di latte, medicinali, indumenti ed anche giocattoli e che distribuiva nei vari luoghi d’internamento. Il 30 marzo 1941, con regolare nulla-osta ed autorizzazione ministeriale, Kalk giunse in visita a Ferramonti portatore non solo di tanti aiuti materiali ma anche morali.
In occasione di un’altra visita nell’agosto nel 1942, egli, anche se non poteva conoscere all’epoca tutto l’orrore dei campi di concentramento nazisti, ma che, avendo frequenti contatti con profughi ebrei da tutta Europa, aveva sentore di quella che era la condizione degli Ebrei nei paesi alleati od occupati dai tedeschi, non poté fare a meno di dire ai ferramontini: “credo di non temere smentite affermando che con voi la sorte è stata ancora benigna e che la vostra situazione di internati in Italia è forse ancora migliore di quella dei nostri fratelli che si trovano in altri paesi europei in libertà”.
Il 22 maggio di quello stesso anno venne per la prima volta in visita il Nunzio Apostolico presso il governo italiano, Monsignor Francesco Borgoncini-Duca, poiché nel campo vi erano molti ebrei di religione cattolica ed alcuni “ariani”. La visita aveva tuttavia come principale scopo quello di portare conforto a tutti gli internati e si sarebbe ripetuta negli anni successivi. In seguito la Santa Sede non mancò di far giungere agli internati aiuti materiali sotto forma di sovvenzioni in denaro, vestiario etc., senza fare molta distinzione tra cattolici e non cattolici, tanto che qualche internato cattolico si lamentò: “Il Vaticano veste gli ebrei, il Vaticano preferisce gli ebrei”.
In occasione della visita del Nunzio Apostolico gli ebrei cattolici chiesero l’assistenza spirituale ed il Vaticano inviò padre Callisto Lopinot, un frate cappuccino sessantacinquenne, nativo di Geispolsheim in Alsazia, il quale si prodigò nell’assistenza morale e materiale di tutti gli internati, sansa alcuna distinzione di razza o religione.
Altra organizzazione ebraica che prestò assistenza agli internati fu la DELASEM. Questa organizzazione aveva avuto originariamente il compito di aiutare l’emigrazione dall’Italia, ma, visto che questo obiettivo non era raggiungibile finche durava la guerra, si adoperò per la raccolta di fondi tra gli Ebrei italiani e le istituzioni ebraiche straniere al fine di sopperire ai bisogni degli internati e dei profughi mediante la distribuzione di soldi, indumenti, libri e oggetti d’ogni tipo. In quest’opera l’organizzazione si avvalse di una capillare rete di corrispondenti locali che nel gennaio 1942 ammontavano a 170.
E’ opportuno precisare che la DESALEM era tutt’altro che contraria all’internamento ritenendo che questo avesse i suoi aspetti positivi: “Il concentramento di tutti gli stranieri consentiva infatti in primo luogo di avere un quadro ordinato e stabile dell’intera situazione in cui versava l’emigrazione ebraica in Italia; risolveva anzi il problema gravissimo delle spese di vitto ed alloggio e consentiva anche un minimo di sussidio governativo a tutti i concentrati .
Dello stesso avviso era l’UCII i cui responsabili, insieme a quelli della DESALEM, indirizzarono il 22 luglio del 1940 una lettera al Ministro dell’Interno assicurando tutta la loro disponibilità per coordinare, consigliare, incoraggiare e convogliare i profughi verso l’internamento collaborando direttamente con le Questure.
Gli internati venivano spesso trasferiti da un campo all’altro. A partire dal 1942 era possibile chiedere “l’internamento libero”, che corrispondeva grosso modo al confino di polizia, dove gli internati potevano vivere con il proprio nucleo familiare. Molti fecero domanda in tal senso sperando di trovare condizioni di vita migliori e, poiché si poteva scegliere la provincia di destinazione, chiedevano di essere trasferiti nell’Italia centro-settentrionale. Questa scelta era determinata sia perché quell’area geografica era ritenuta più progredita, sia perché i centri di assistenza ebraica erano più numerosi. Fu la loro rovina: finiranno dopo l’8 Settembre ‘43 nei lager nazisti e solo pochi potranno sopravvivere.
A causa di questi spostamenti continui non è stato possibile redigere una statistica che valga per tutto il periodo dell’internamento. A mettà del 1941 il 65,1% era costituito da Ebrei di lingua madre tedesca; il 13,3% yddish; il 10% polacca. Il rimanente comprendeva varie lingue del centro-europa. Secondo la nazionalità il 38% era costituito da tedeschi o austriaci; il 30% da polacchi; il 22% da apolidi, il 6% da cecoslovacchi ed il 4% da cittadini di altri stati.(16) In seguito queste percentuali cambiarono più volte.
Tra ottobre e luglio del 1941 giunsero 300 cittadini Jugoslavi, per la maggior parte Ebrei, e partivano altrettanti internati. Numerose famiglie ebree per un totale di 275 persone, col consenso di Mussolini, poterono trasferirsi “all’internamento libero” nei comuni prescelti.
Il gruppo più numeroso di internati giunse a Ferramonti nel marzo del 1942. Si trattava dei naufraghi del battello Pentcho, un’imbarcazione fluviale con a bordo 500 giovani ebrei, in maggioranza cecoslovacchi, che intendevano raggiungere la Palestina seguendo il corso del Danubio, il mar Nero e l’Egeo. Erano partiti da Bratislava nel maggio del 1940 e, dopo mesi di navigazione perigliosa attraverso mille traversie, nell’ottobre di quell’anno la nave affondò presso l’isolotto di Kamila-Lisi nell’arcipelago dell’Egeo. Una nave da guerra italiana li trasse in salvo e li sbarcò a Rodi dove furono provvisoriamente internati. Nel marzo del 1942 furono trasferiti in Italia ed internati a Ferramonti, dove giunsero “affamati, indigenti e con le vesti lacere”. Ferramonti accolse anche un piccolo gruppo di cinesi. A mettà del 1942 venne internato per pochi mesi un altro consistente gruppo composto da circa 300 persone di nazionalità greca. L’aumento improvviso di internati non mancava di provocare problemi nell’approvvigionamento poiché le scorte alimentari si esaurivano rapidamente. La razione prevedeva gr. 700 di pasta e gr. 300 di riso per decade, gr. 250 di pane al giorno, oltre a tutti gli altri generi di prima necessità come olio, zucchero, latte, carne, uova etc, ma non sempre poteva essere rispettata.(19)
Nel marzo del 1942, il rabbino di Genova, Riccardo Pacifici, poi morto in deportazione in un campo nazista, si recò a Ferramonti e vi rimase due giorni. Era inviato dalla DELASEM per rendersi conto dei bisogni di quella comunità. Egli rimase fortemente impressionato da fervore che, nonostante tutto, animava la comunità ferramontina: “una Comunità ebraica che, se l’ultima cronologicamente, è forse la prima per intensità di vita, di pensiero e di azione. ...commozione nel sentire racconti, odissee, vite troncate, studi interrotti, parenti di cui non si ha notizie...Nonostante ciò: vita, matrimoni... Nuovi avvicinamenti, storie viventi; gente che ha parenti in pericolo, che vorrebbe farli venire in Italia... gente che viaggia da anni... Intenso studio della Torah, lingua ebraica parlata...iniziative in campo culturale , richiesta di libri, richiesta di studio.
Il 22 gennaio del 1943 venne trasferito il direttore del Campo che, con la sua tolleranza ed il suo buon senso, era stato il principale artefice del clima di pacifica convivenza che regnava nel campo. Per fortuna il nuovo direttore, Mario Fraticelli, si dimostrò altrettanto comprensivo e sollecito delle necessità degli internati e tutto poté continuare come prima.
Preoccupazioni sorgevano invece per le notizie che padre Lopinot aveva portato da Roma. Infatti il Ministro degli esteri del Reich, Von Ribbentrop, aveva personalmente avanzato domanda a Mussolini per il trasferimento in Germania di tutti gli ebrei profughi dai territori occupati dagli italiani in Jugoslavia e Francia. La notizia gettò nello sconforto e nella disperazione i circa 2.000 ospiti del campo ma una seconda visita del Nunzio Apostolico Borgoncini-Duca, avvenuta nel mese di maggio su incarico di Pio XII, riuscì a tranquillizzare gli animi.
Nel mese di giugno una risoluzione della segreteria del partito fascista chiedeva il rimpatrio di tutti gli ebrei stranieri in Italia, sicché l’estradizione degli internati di Ferramonti sembrava inevitabile. Tuttavia la proposta venne ritardata da alcuni interventi diplomatici. Il 25 luglio un telegramma del sottosegretario agli interni al capo della Polizia chiedeva esplicitamente il trasferimento degli internati di Ferramonti nella provincia di Bolzano per poi estradarli in Germania. Per fortuna il 25 luglio ‘43 segnava la caduta del fascismo e di trasferimento non si parlò più.
La caduta del governo fascista non rappresentò però la liberazione degli internati (i quali peraltro non avrebbero saputo dove andare e come provvedere al loro sostentamento) perché il Maresciallo Badoglio, ossessionato dai Tedeschi, non voleva contrariarli con iniziative da questi sgradite e la vita nel campo proseguì come prima.
Poiché la guerra si avvicinava a grandi passi (gli Alleati erano sbarcati in Sicilia) il generale Camillo Mercalli, comandante del XXXI Corpo d’Armata operante in Calabria, inviò una lunga relazione al Ministero degli Interni chiedendo lo sgombero del campo perché ormai situato in zona d’operazioni. Ma non ricevette risposta.
Il 27 di agosto alcuni aerei alleati, scambiando il campo per una installazione militare, lanciarono degli spezzoni provocando 4 morti e numerosi feriti. Ciò convinse il direttore Fraticelli che occorreva sollecitare lo sgombero ed a tal fine si recò più volte dal generale Mercalli e dal Prefetto di Cosenza. Questi, poiché la risposta da Roma tardava a venire causa l’interruzione delle comunicazioni, inviò il direttore Fraticelli e l’avvocato Herbert Landau, capo degli internati, a Roma per prospettare la situazione.
Il 3 settembre gli Inglesi erano sbarcati a Reggio e proseguivano verso nord senza incontrare resistenza. Vi era viva preoccupazione che le truppe tedesche in ritirata avrebbero potuto deportare gli internati oppure abbandonarsi ad atti di violenza. Il pericolo era tutt’altro che improbabile dal momento che l’ingresso del campo si apriva proprio sulla statale 19, principale se non unica via di ritirata delle truppe tedesche. Pertanto il direttore, prima di partire per Roma, diede ordine al maresciallo Gaetano Marrari, rimasto a dirigere il campo coadiuvato dal commissario dott. Amato, di liberare tutti gli internati nel caso i Tedeschi si fossero avvicinati.
Infatti, non appena il passaggio sulla nazionale delle truppe tedesche si intensificò a causa del ripiegamento della divisione Herman Goring verso Nord, il maresciallo Marrari aprì i cancelli e fece uscire tutti quelli che lo desiderarono. Rimasero al campo una sessantina di internati, per lo più vecchi ed ammalati. Marrari ebbe anche l’idea di innalzare un vessillo bianco e giallo sul cancello principale ad indicare la presenza di una epidemia all’interno del recinto.
Ad ogni buon conto il maresciallo fece piazzare alcune mitragliatrici dietro le baracche con l’ordine di aprire il fuoco nel caso in cui i tedeschi avessero tentato con la forza di entrare nel campo.
Momenti di terrore si ebbero quando una macchina della Wehrmacht con a bordo un generale si arrestò innanzi al cancello principale. L’ufficiale sceso a terra, scortato da alcuni militari, chiese ad alcuni internati notizie sul campo e sul significato della bandiera gialla. Gli fu risposto che si trattava di un campo di civili affetti da colera. Il generale, che aveva ben altre gatte da pelare, risalì in macchina riprendendo la marcia verso nord .
Nel frattempo gli internati che avevano lasciato il campo avevano trovato rifugio presso i contadini dei paesi vicini che non lesinarono aiuto e conforto, spartendo con essi il poco che avevano.
Nonostante l’assenza totale di resistenza da parte degli italo-tedeschi gli inglesi procedevano verso nord a passo di lumaca. Così l’8 settembre sorprese gli internati ancora sparsi tra la valle del Crati e le colline. A sera uno spettacolo, alle prime incomprensibile, apparve ai loro occhi: “vedemmo accendersi dei fuochi su ogni collina circostante: Lo spettacolo era bellissimo ma noi non capivamo il significato: la spiegazione ce la diede una staffetta ansimante che stava facendo il giro dei vari dislocamenti di internati... quei fuochi salutavano la firma dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati.” Ancora l’11 settembre momenti di tensione: verso le 8 del mattino attacco aereo alle truppe tedesche in ritirata da 15 giorni sulla statale 19. Verso le dieci di sera, riferisce don Callisto Lopinot, si udirono dal campo raffiche di mitragliatrice. I tedeschi volevano impossessarsi di un camion de Regio Esercito e gli italiani reagirono. Vi furono caduti da entrambe le parti, sembra 5 italiani e 2 tedeschi.
Il 12 settembre transitarono gli ultimi soldati tedeschi alle 5 di mattina. Degli inglesi nessuna notizia.
Finalmente il 14 settembre, alle ore 8 del mattino arrivarono due autoblindo inglesi con tre uomini ciascuna a bordo. Avevano impiegato 11 giorni per percorrere 200 chilometri !. Il campo sembrava deserto ma ben presto i pochi rimasti corsero incontro festanti agitando una bandiera bianca.
Si concludeva così, senza particolare solennità e senza enfasi, in assenza del direttore e del capo dei capi degli internati, la vicenda del più grande campo d’internamento fascista. Un campo che, al di là delle inevitabili sofferenze che provocò negli internati, rappresentò soprattutto un luogo di rifugio e di salvezza per tanti ebrei.
Il soggiorno in Italia ha lasciato in quasi tutti i profughi, come si può evincere dai loro scritti autobiografici, un buon ricordo dovuto non solo alle inesperienze avute con la popolazione civile ma anche a quelle avute con funzionari delle pubblica amministrazione, con militari ed anche iscritti al partito fascista. Gli ordini e le disposizioni ufficiali che venivano dall’alto non erano mai improntati a crudeltà o inumanità. Si stima che oltre 18.000 profughi ebrei trovarono asilo in Italia durante gli anni del nazismo ed un numero ancor maggiore (30.000 circa) cercò rifugio nelle zone occupate dalle truppe italiane nella Slovenia, nella Croazia e nella Francia meridionale dove erano protetti dai militari.
La fine del conflitto lasciò l’Italia, sconfitta, umiliata, mutilata nelle sue città bombardate e nelle coscienze dei sui abitanti; lasciò lutti e rovine, materiali e morali, ma la vide salva ed indenne dalla macchia di aver partecipato all’olocausto degli Ebrei. Ferramonti fu una prova tangibile, la più evidente, dell’umanità del popolo italiano.

Note
(1) Simonetta Carolini, “L’internamento in Italia (1943-1945). Misure di sicurezza” in “Atti del convegno internazionale di studi 15/16 maggio 1987” tenutosi a Cosenza.
(2)Carlo Spartaco Capogreco - “Il Campo di concentramento di Ferramonti-Tarsia tra documenti e testimonianze” in “Atti del convegno internazionale di studi 15/16 maggio 1987” tenutosi a Cosenza.
(3) Klaus Voigt, “I profughi ebrei in Italia e l’internamento” in “Atti del convegno internazionale di studi 15/16 maggio 1987” tenutosi a Cosenza.
(4) Padre Callisto Lopinot in “Diario”, “Atti del convegno internazionale di studi 15/16 maggio 1987” tenutosi a Cosenza
(5) Carlo Spartaco Capogreco - “Il Campo di concentramento di Ferramonti-Tarsia tra documenti e testimonianze” in “Atti del convegno internazionale di studi 15/16 maggio 1987” tenutosi a Cosenza.
(6) Carlo Spartaco Capogreco - “Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista.” Firenze 1987.
(7)Franz Hajek, “Appunti sugli ebrei stranieri in Italia durante la guerra”, Wienner Library di Londra.
(8) Carlo Spartaco Capogreco - “Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista.” Firenze 1987, op. cit.-
(9) Riportato da Renzo De Felice, “Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo” - Torino Einaudi, 1972.
(10) Secondo una statistica del 1941, redatta dagli stessi internati, i cattolici, per lo più Ebrei convertiti, rappresentavano il 6,1%.
(11) Dichiarazione dell’internato Loteczek a padre Callisto Lopinot in “Diario”, “Atti del convegno internazionale di studi 15/16 maggio 1987” tenutosi a Cosenza.
(12) Delegazione per l’Assistenza agli Emigrati [ebrei].
(13) Massimo Leone, “Le organizzazioni di soccorso ebraico in età fascista (1918.1945)”, Roma Carucci 1983.
(14) Unione delle Comunità Israelitiche Italiane.
(15) Settimo Soriani, “L’assistenza ai profughi ebrei in Italia (1933-1945). Soriani era all’epoca direttore dell’ufficio Romano della DESALEM
(16) Secondo la statistica redatta da L. First e A. Rosemberg, ”Ferramonti-Tarsia. Das Leben der Zivilinterniement in Zahlem” (fondo Israel Kalk) riportato da Carlo Spartaco Capogreco - “Il Campo di concentramento di Ferramonti-Tarsia tra documenti e testimonianze” in “Atti del convegno internazionale di studi 15/16 maggio 1987” tenutosi a Cosenza.
.(17) Carlo Spartaco Capogreco - “Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista.” Firenze 1987, op. cit.-
(18) Carlo Spartaco Capogreco - “Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista.” Firenze 1987, op. cit.
19) Padre Callisto Lopinot in “Diario”, “Atti del convegno internazionale di studi 15/16 maggio 1987” tenutosi a Cosenza.
(20) Comunità Israelitica di Genova, “A perpetua ricordanza di Riccardo Pacifici”, Torino, riportato da Michele Sarfatti, “L’internamento nei campi degli ebrei italiani antifascisti” in Atti del convegno internazionale di studi 15/16 maggio 1987” tenutosi a Cosenza.
(21)Padre Callisto Lopinot in “Diario”, “Atti del convegno internazionale di studi 15/16 maggio 1987” tenutosi a Cosenza., op.cit.
(22) Carlo Spartaco Capogreco - “Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista.” Firenze 1987, op. cit.-
(23) Testimonianza dell’internata Evi Eller riportata da Carlo Spartaco Capogreco - “Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista.” Firenze 1987, op. cit.-
(24) Padre Callisto Lopinot in “Diario”, “Atti del convegno internazionale di studi 15/16 maggio 1987” tenutosi a Cosenza op.cit.
(25) Dopo la liberazione alcuni internati, per lo più cecoslovacchi, si arruolarono negli eserciti alleati, i più emigrarono in Palestina con le quote stabilite dagli inglesi o clandestinamente, altri andarono negli USA e qualcuno rimase in Calabria come l’editore Brenner di Cosenza.


Nell'immagine,il campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia (CS).
Documento inserito il: 04/01/2015
  • TAG: ferramonti, campo concentramento, calabria, ventennio fascista, seconda guerra mondiale, leggi razziali, ebrei imprigionati, popolo eletto, persecuzioni, antisemitismo, discriminazione

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