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Il lungo calvario del “davai”! (“avanti”!) [ di Filippo Giannini ]

- L'odissea dei prigionieri di guerra italiani nei lager sovietici.
Sì, e pensare che a “loro” sono ancora intestate strade e strutture. Mi riferisco a due fra i mille e mille criminali del secolo trascorso. In un mare di criminali rossi, almeno due, in particolare, emergono: Palmiro Togliatti e Edoardo D’Onofrio. Scrivo queste righe per ricordare quanto è stato dimenticato da personaggi che ancora oggi, tanti di loro ancora in attività politica, si nascondono dietro una maschera di candida ingenuità, corresponsabili di quanto più avanti scriverò. La responsabilità di questa orrenda pagina di storia non va addebitata solo al Migliore (Palmiro Togliatti) e al suo vice, D’Onofrio, ma anche ai vari D’Alema e Occhetto che non hanno sentito il dovere di denunciare i crimini commessi dai vertici del Pci. Descrivere il peregrinare di Togliatti e di D’Onofrio fra l’Italia e l’Urss ci porterebbe molto lontani e, avvalendomi di un lavoro dell’indimenticabile Franz Maria D’Asaro, voglio iniziare il racconto a partire dal 1941, dopo l’entrata in guerra dell’Italia contro l’Urss, quando cominciano ad affluire nei campi di concentramento sovietici i soldati italiani fatti prigionieri; campi affidati, dai sovietici, al controllo di D’Onofrio. Raccontare i supplizi ai quali furono sottoposti quegli sventurati sarà mia cura accennarlo più avanti. Cominciamo a ricostruire le vicende del sottocapo del Migliore, Edoardo D’Onofrio, quando questi fu sottoposto a processo nel luglio del 1949, processo che mise in luce la sua spietatezza esercitata sui prigionieri italiani in Russia. Nel frattempo D’Onofrio divenuto senatore del Pci e addirittura Vicepresidente del Senato, ebbe l’impudenza di intentare causa contro cinque reduci dall’Urss, accusandoli di averlo diffamato. Ma il querelante subì uno smacco: i cinque reduci furono clamorosamente assolti. Ecco, sommariamente, quali erano le prove che D’Onofrio esibì.
Nell’aprile del 1948 venne stampato e diffuso, sotto il titolo “Russia”, un numero unico a cura dell’Unione Italiana Reduci di Russia; a pagina sette c’era un articolo dal titolo Edoardo D’Onofrio”, nel quale si poteva leggere: “D’Onofrio durante la sua permanenza nei campi di concentramento di Oranki e Skit, assistito da Flamenghi (evidentemente un altro alto esponente del Pci, nda) e alla presenza di un ufficiale del Mkvd, ha sottoposto ad estenuanti interrogatori prigionieri italiani detenuti in quei campi. Non si trattava di semplici conversazioni politiche, come ipocritamente il D’Onofrio vorrebbe far credere, ma di veri e propri interrogatori di carattere politico che spesso duravano delle ore e durante i quali veniva messo a verbale quanto il prigioniero rispondeva. Immediatamente dopo la visita di D’Onofrio in quei campi, alcuni dei prigionieri italiani che in quei giorni erano stati sottoposti a interrogatori, furono allontanati e rinchiusi in campi di punizione e ancora oggi alcuni sono trattenuti nei campi di concentramento di Kiev. Simili procedimenti avevano il duplice scopo di far crollare, prima con lusinghe e poi con minacce esplicite (“Lei non conosce la Siberia?”) che non risparmiavano nemmeno le famiglie in patria, la resistenza fisica e morale di questi uomini ridotti a cadaveri viventi dalla fame, dai maltrattamenti e dalle malattie, per guadagnare l’adesione degli altri prigionieri intimoriti dall’esempio della sorte toccata a questi”. Scrive ancora Franz Maria D’Asaro che la relazione portava le seguenti firme: Domenico Dal Taso, Luigi Avalli, Ivo Emmett e altri. E ancora a pagina sedici si poteva leggere: “Ottantamila martiri nei campi di concentramento – ottomila scampati – accusano e denunciano D’Onofrio, Robotti (Paolo Robotti, cognato di Togliatti, nda), Ossola, Fiamenghi, Cocchi, Torre (una donna), Roncato. Italiani, questi rinnegati postisi al servizio della polizia sovietica e diretti da Togliatti, furono i commissari politici, gli aguzzini nostri nei campi di concentramento sovietici”.
Nel corso del dibattito processuale emersero testimonianze disastrose per il senatore comunista. Si appresero, infatti, dettagliate conferme delle sevizie morali che il luogotenente di Togliatti infliggeva ai prigionieri, denunciando senza pietà alla polizia politica sovietica tutti coloro che si rifiutavano di cedere ad un vasto repertorio di lusinghe e di minacce. E questi bravi italiani finivano regolarmente nei campi siberiani dove morivano uccisi dagli stenti, dal freddo ed anche dai maltrattamenti. Per tutti valga la testimonianza del bersagliere Santoro il quale, dopo aver respinto le suadenti profferte di D’Onofrio, subito rinnovate con toni minacciosi, si sentì rispondere: “L’unica differenza che passa fra lei e i suoi bersaglieri è che lei è un criminale vivo, mentre quelli sono dei criminali morti.
Appena poterono, i sopravvissuti rilasciarono questo documento: “Testimoni consci di quello che vedemmo e soffrimmo, qualunque possa essere la nostra tendenza politica, ripetiamo ad ogni italiano che il bolscevismo, spoglio dalla sua retorica demagogica, significa regime di polizia e di terrore, significa la tirannia di un partito sulla Nazione, sulla famiglia, sull’individuo. Viva l’Italia.
Il documento, firmato da centinaia di prigionieri, porta la data del 27 luglio 1946.
La testimonianza diretta di coloro che vissero quel dramma è riportata di seguito.

Il 7 dicembre 1998 la televisione italiana trasmise un documentario sulle vicende dei prigionieri italiani in Russia. Il filmato ha proposto un “Reportage cinematografico dai fronti della guerra patriottica”, è il titolo di un cinegiornale dell’Armata Rossa con l’intento – propagandistico e a scusante delle atrocità commesse – di presentare al mondo la vita quotidiana dei prigionieri italiani falsando macroscopicamente la verità.
Il film mostra i nostri prigionieri avviarsi, quasi con allegria, armati di forconi alla raccolta del grano, sotto un sole meraviglioso e circondati da belle contadine russe con le quali scambiano sorrisi e cenni come generalmente si usa fare fra giovani spensierati.
Alla fine della giornata di lavoro questi nostri (ex) giovanotti come è mostrato nel documentario, siedono in circolo nel kolkotz “mangiando, bevendo e conversando allegramente fra loro” rifocillati abbondantemente e serviti da soldati e donne russe sorridenti.
Questo – e molto di più – quanto mostrato nel documentario da poco rinvenuto negli archivi russi, come attestato dal commentatore.
E’ questa la verità?
Certamente no! Le sofferenze sopportate dai nostri infelici soldati caduti prigionieri e appartenenti prima al CSIR (Corpo Spedizione Italiano in Russia), poi all’ARMIR (Armata Militare Italiana in Russia), hanno dell’infernale.
Per anni, nell’immediato dopoguerra, ci si interrogò su quanti del CSIR e dell’ARMIR fossero i caduti, quanti i dispersi e, di questi, quanti caduti prigionieri.
Le pressioni dei parenti dei “dispersi” sul nostro Governo per avere notizie dei congiunti non trovarono che annoiata risposta essendo i responsabili dei vari dicasteri occupati a gestire i propri traffici personali o di partito e, quindi, non venivano esercitate sul Governo sovietico quelle sollecitazioni necessarie per ottenere risposte chiare sulla fine dei nostri soldati. Si giunse al punto (era la fine degli anni ’80) che il Presidente di una nostra Commissione, esattamente l’On. Flaminio Piccoli, proprio al cospetto di personalità sovietiche dichiarò che i nostri caduti in Russia non meritavano alcuna sepoltura cristiana perché colpevoli di aver condotto in quella terra una guerra fascista.
Ci fu, qualche anno dopo, una nuova fiammata che richiamò alla memoria i nostri Caduti dell’ARMIR, quando fu scoperta una lettera, nella quale, l’allora componente del Komintern, Palmiro Togliatti, sollecitava i guardiani dei lager sovietici a non preoccuparsi troppo se i nostri “alpini”, lì “ospitati” morivano di stenti perché più erano i caduti, più l’odio per il fascismo in Italia si sarebbe moltiplicato. Poi tutto si spense sulla bizantinistica interpretazione di un verbo o aggettivo contenuto in quella lettera autografa di Togliatti, che nulla toglieva al senso effettivo che il capo del PCI voleva dare e cioè: “far morire gli alpini” per danneggiare il fascismo.

Le leggi internazionali stabiliscono precise norme riguardo al trattamento da riservare ai prigionieri di guerra, tali che a questi possa esser garantita la vita, la salute e l’onore.
Troppo spesso l’iniquo trattamento riservato ai nostri soldati caduti prigionieri degli inglesi, dei francesi, degli stessi americani, andava ben al di là di quanto prevedevano le su citate Convenzioni Internazionali.
Infatti nei campi di concentramento degli Alleati, i casi di prigionieri italiani bastonati, incatenati, fucilati o tenuti a regime di fame era, se non la norma, perlomeno frequente. Non è mancato il perverso sistema, anch’esso in contrasto alle già citate norme, di suddividere i prigionieri fra “cooperatori” e “non cooperatori”, cosa che comportava per questi ultimi ulteriori gravi pene e persecuzioni nel tentativo di spezzarne la resistenza morale e, quindi, la volontà. Vi furono numerosi casi di morti violente, arbitrarie fucilazioni e malattie dovute a un sistematico e programmato cattivo trattamento.
Ma tutto ciò, se pur grave non trova nessuna analogia con le scelleratezze cui andarono incontro i nostri soldati prigionieri dell’Armata Rossa.
Quanti furono i morti?
Ancora oggi non se ne conosce il numero esatto!
Come non evidenziare, a questo punto, lo scarso impegno (se non addirittura l’indifferenza) del Governo italiano nel pretendere dall’URSS un responsabile contegno nei confronti di un così tragico problema? Molto ottenne, al contrario, il vecchio Cancelliere tedesco, Adenauer che, prima di firmare gli accordi commerciali con quel Paese, pretese come condizione primaria, la risoluzione della questione dei prigionieri di guerra. In un sol colpo vennero restituiti alle loro famiglie ben novemila “criminali di guerra”.
Nel 1958, per sollecitare un più incisivo impegno del Governo italiano verso quello sovietico, una delegazione dell’Associazione Congiunti Dispersi in Russia fu ricevuta dall’allora Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi il quale così rispose ai rappresentanti dell’Associazione: “Purtroppo il Vostro problema è stato sacrificato per ragioni di Stato”.

Durante le furiose battaglie e il tragico ripiegamento del dicembre 1942 e gennaio 1943, la radio russa comunicò che erano stati catturati circa 80 mila soldati dell’ARMIR. Certamente è una cifra gonfiata in eccesso per ovvi motivi di propaganda. In proposito Aldo Valori, nel volume “La Campagna di Russia; CSIR-ARMIR, 1941-1943”, a pagina 739 scrive: “Se calcoliamo approssimativamente in 30.000 sicuramente morti (cifra minima probabile, tenendo conto dell’accanita battaglia e delle difficoltà del ripiegamento) e vi aggiungiamo i rimpatriati, si può presumere che i russi non abbiano catturato più di 55-60.000 prigionieri e forse meno”.
Effettivamente la furia della battaglia che divampò fra il 15 dicembre 1942 e il 31 gennaio 1943 divorò interi reparti. A questo proposito è sintomatico il tributo di sangue del reparto lanciafiamme del Comando Corpo d’Armata che lasciò sul campo il 91% della sua forza; infatti su 310 effettivi se ne salvarono 29.
E’ interessante quanto riportato in merito nella seconda edizione della “Grande Enciclopedia Sovietica”, pubblicata nel 1953 – Volume XIX, pagina 85, dove si stabilisce che le perdite complessive degli italiani nella campagna di Russia assommano a 150 mila unità. I prigionieri sarebbero stati solo 21 mila.
In questo tragico balletto di cifre, scandalosamente reticente, s’introdusse anche Palmiro Togliatti che, in una trasmissione da Radio Mosca, chiamata “La Voce della Verità”, esasperato perché in Italia si dubitava dell’esattezza delle notizie che venivano dall’URSSS, ribadiva che i prigionieri italiani erano 115 mila.
Consideriamo come più veritiera la cifra, come sopra indicata di 60 mila prigionieri italiani, dato che di 40 mila se ne è perduta la traccia, si evince che i due terzi risultano “dispersi”; perdite di gran lunga superiore a quelle fornite sui decessi che avvenivano nei famigerati lager tedeschi che raggiungevano il 40% degli internati.
L’agonia dei nostri soldati iniziava sin dal momento della loro cattura, sospinti e brutalmente malmenati al grido di “davai”.
Scrive Aldo Valori a pagina 742 del già citato volume
: “Le marce di trasferimento dai luoghi della cattura ai campi di concentramento aprirono le prime larghe falle nelle file dei nostri prigionieri. Costretti a marce senza posa per giornate intere, con una temperatura che arrivava ai 40 gradi sotto zero, tra ghiacci e neve, con calzature inadatte, senza cibo, senza fuoco, moltissimi dei nostri soldati cadevano a terra sfiniti, ed erano senza pietà trucidati dal classico colpo alla nuca dai soldati di scorta”.
Un’agghiacciante testimonianza su queste brutalità ci è fornita da Gabriele Gherardini nel suo volume “La vita si ferma”, dal quale riportiamo ampi stralci:
Non so quanto aspettammo sempre allineati per quattro. Al minimo movimento entravano in ballo i cosacchi con i calci dei mitra (…). Mi ero distaccato dagli altri a causa del piede che aveva cominciato a dolermi, l’oscurità era impenetrabile. Quattro ombre che mi sentii addosso prima di vederle, si precipitarono rabbiosamente su di me cominciando a caricarmi di colpi forsennati. Una mazzata alla testa mi fece barcollare, un’altra poco più su dello stomaco mi rimise in piedi, poi arrivò uno schiaffo così violento che credetti mi avesse rotto una mascella. Uno degli assalitori mirò all’inguine con un calcio; l’atto istintivo che feci per difendermi raddoppiò la loro rabbia, mi colpirono nel petto, nei fianchi, sulla fronte, proprio al disopra degli occhi (…)”. Poi avvenivano le perquisizioni che erano, in effetti, vere e proprie spoliazioni non solo di oggetti, ma addirittura di quel vestiario che, bene o male, riparava i corpi dal terribile inverno russo.
Una volta giunti al campo, così Gherardini continua:
Quando rientrammo capitò la belva. Era una ragazza dai capelli rossi, corti e arruffati, indossava indumenti maschili (…). Appena balzò dentro, circondata da una turba di ragazzotti dai visi scimmieschi, per prima cosa sventagliò sghignazzando, una raffica di mitra al soffitto”.
E iniziò la rapina di quegli indumenti che erano sfuggiti alle prime perquisizioni, furono sottratti perfino i pantaloni.
Uno già mezzo spogliato che indugiò a togliersi camicia e scarpe fu condotto fuori nel mezzo della canea urlante e fu lei a premere il grilletto. Il gran mucchio di stracci su cui il corpo sforacchiato andò ad abbattersi, si macchiò di sangue (…). Ci venne dietro fin quasi a Krinovaja, sempre urlando e uccidendo, implacabile e perversa, anima di tigre in spoglie umane”.
E la fame, la fame era il supplizio peggiore alla quale erano sottoposti i nostri soldati; si pensi, ricorda Aldo Valori, che durante una marcia di dodici giorni il cibo venne distribuito due sole volte!
La testimonianza più viva viene fornita da chi quelle vicende le visse di persona; riporta Gherardini a pag. 201: “La fame, dopo l’accasciamento delle prime ore, è tornata aggressiva, lancinante. Si sogna sempre di mangiare, giorno e notte, visioni continue di orge; tavole ricolme, montagne di cibi. Si è ciechi, disperati, la fame fa passare in seconda linea maltrattamenti e umiliazioni, persino il rischio della morte non conta più. Si sopporterebbe tutto per un pezzo di pane, si venderebbe l’anima al demonio per un buon pasto (…). Da diversi giorni non beviamo e all’improvviso (siamo al passaggio del Don, ndr), nel vedere tutto quel liquido ci viene sete (…). Bevono a mani giunte, molti si stendono e tuffano le labbra nei rigagnoli, qualcuno si serve di un recipiente. In un attimo fra lo scricchiolio simile a quello dei vetri spezzati che fende in obliquo il fiume il ghiaccio s’incrina. Tutti quelli che sono sul filone spariscono sotto, senza neppure il tempo di gridare; nel tumulto improvviso la scorta spara, ma sono colpi inutili; gli annegati ormai navigano sotto l’asfalto bianco, già lontani.
Finalmente (!) si giunse a destinazione, nei lager russi, in quei luoghi dove le sofferenze e le umiliazioni toccarono il loro apice. Ma dove l’orrore raggiunse il massimo fu nei due campi di Oranski e di Krinovaja.
Ci è dato citare di nuovo la testimonianza di Gherardini. A questo punto dobbiamo scusarci con il lettore di quanto più avanti dovrà prendere atto. La Storia, ma soprattutto la memoria non può, non deve fermarsi davanti al buon gusto, al ribrezzo, all’orrore. Sono fatti realmente avvenuti e quindi vissuti che hanno reso i carnefici mostri e mostri le stesse vittime.
Ciò premesso, ecco quanto scrive Gherardini a pag. 221:
A Krinovaja fu il periodo più orrendo della prigionia, l’inferno dei vivi. Ci entrammo in trentamila ne uscimmo in tremila; ventisettemila se ne andarono in poco più di quindici giorni. I più morirono di fame, di dissenteria, di tifo esantematico; molti furono divorati ancora caldi dai compagni, di qualcuno si affrettò la fine perché morisse prima e servisse da pasto agli altri. Fu il regno delle sozzure più tremende, l’egoismo e la brutalità umane assunsero forme d’incubo; in due settimane si provò quello che nessuno ha provato mai: la bestia più immonda avrebbe avuto schifo dell’uomo! (…). Il campo era vastissimo: oltre alla stalla in cui vivevamo noi, apparivano qua e là mucchi di costruzioni in muratura; lo spazio che le divideva serviva da latrina, da cimitero, da fogna. Si defecava vicino ai cadaveri nudi, molte volte ce n’erano tanti che non si sapeva dove mettersi (…). Avvennero scene strazianti, anche la fantasia più fervida non riuscirebbe a descriverle nella loro realtà. Un alpino per giorni e giorni difese contro l’accanimento inferocito degli antropofagi il cadavere del fratello, ma finì per morirci (…)”.
In questo quadro infernale, a causa dell’assoluta mancanza delle più elementari norme igieniche, si scatenò nei campi una violenta dissenteria sanguigna che in pochi giorni si sviluppò in forma violentissima i cui effetti furono letali.
Il contagio della pestilenza era favorita dalla mancanza d’acqua. Ricorda sempre Gherardini che nel campo di Krinovaja c’era un pozzo sempre affollato che alla fine, per la ressa selvaggia, inghiottì un prigioniero che morì all’istante congelato. Non per questo gli uomini assetati si dissuasero dall’attingere acqua nel luogo dove galleggiava il cadavere. Dopo pochi giorni altri uomini precipitarono nel pozzo e nuovi cadaveri ne ostruivano la bocca. Si attingeva acqua scostando i corpi. Alla fine, quando i prigionieri lasciarono il campo, il pozzo era colmo di cadaveri.
Queste brevi note non sono che una sintesi di quanto i nostri compatrioti soffrirono in quegli anni e la cui memoria tende ad offuscarsi, oltre che per il tempo anche per la manigolda politica tendente a “che certe storie è bene non ricordarle per non dispiacere a qualcuno”.
Documento inserito il: 05/01/2015
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